XX. Ho voluto conoscere, in un pomeriggio vuoto, come al solito, di impegni (quindi escludo le autocommittenze paranoidi che caratterizzano il mio singolare modo di procedere nella vita), una persona, il cui carattere e — soprattutto — il cui aspetto fisico mi erano stati caldamente raccomandati come uno spettacolo unico, vuoi indirettamente per via dell’ampia aneddotica riguardante il mostriciattolo a cui mi riferisco, vuoi direttamente tramite saporose e invitanti descrizioni. Nessuna delle quali, devo dire a posteriori, iperbolica.
Uno sfizio riprovevole, secondo i punti di vista, in varii sensi: perché crudele e stupido, essenzialmente. Ma sta di fatto che questa figura, descrittami come degna di essere esibita in un Barnum eventuale accanto alla sirena delle Isole Figi, appartiene a quella di una persona a cui ci si rivolge, di norma, per consiglio e aiuto; una persona di cui, insomma, si può teoricamente avere bisogno. E io sono nel bisogno, cazzo.
Per mesi ho raccolto, con cura, tutti i memorabilia relativi, non preoccupandomi il fatto che, tolta la verve — tipica degli straccioni, e per ciò stesso dote raccomandabile da imitare anche per un alto dignitario, come diceva quel gentiluomo di Filippo II — dell’espressione orale, spesso felicissima — l’ho detto, trattandosi di straccioni — non possono essere reimpiegati in chiave ‘letteraria’; e ho moderatamente ma costantemente pregustato il momento dell’incontro, tentando di lasciarmelo come extrema ratio, per un pomeriggio di pioggia, o comunque noioso o difficile.
Nel frattempo, trovandomi — per puro caso — a girare in zona, quando ci giravo, mi facevo piu’ osservatore, annotando con attenzione dentro di me le fattezze di tutte le vecchie gobbine [1] che incontravo, riservandomi di chiedere a chi la conoscesse se le assomigliasse, se fosse come lei, o se, addirittura, fosse lei in persona. L’unica gobbetta veramente impressionante che ho incontrato, per la cronaca, l’ho vista sempre (credo già tre o quattro volte) in via Pietro Micca: un metro e venti, magra stecchita, color del morto e un vistoso tupè arricciolato color Elisabetta Tudor. Dopo aver visto questa, temevo di rimanere deluso. Anche per questo ho aspettato tanto.
L’altroieri pomeriggio mi sono finalmente deciso. Non è stata al disotto delle aspettative. E’ magra stecchita, nana, gobba davanti e dietro, coi capelli corti e la faccia (per giunta) cavallina. Vagheggiavo una Mowcher [2], un Quasimodo in gonnella. E’ lei, decisamente.
La cosa deprimente è che esiste. Chissà per quale disgraziato motivo, da qualche tempo, forse un paio di annetti, mi sono persuaso che, almeno in parte, copiare dal vero sia la soluzione. E’ una stronzata. Non puoi copiare dal vero e poi metterci un vetro deformante davanti. E’ impossibile. Devi aver visto, meglio ancora intravisto, ed esserti messo a scappare in avanti. Non so spiegarmi meglio — o forse, con qualche sforzo, sì; ma chi me lo fa fare?
Se avessi dovuto solo immaginarla, adesso potrei averne già scritto. Per debolezza me ne sono incuriosito; e, debole come sono, mi sono imposto un’impennata, e uno sfaglio, di cui non sarò mai capace. Mi sento imbecille e depresso. Dovrei girare bendato.
[1] Vecchie gobbine: Ce ne sono più di quante uno s’immagini.
[2] Mowcher: Forse non tutti sanno che si trova nel Copperfield. David la incontra per la prima volta, nella sua veste solita di parrucchiera-estetista, in una locanda, in compagnia del suo byronesco compagno di scuola. (Da notare che la Mowcher è buona, però).
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