Scena III.
PULCHERIA, LEONE, GIUSTINA.
PULCHERIA.
Signore, e a che qui rendervi di nuovo? E’ l’impazienza
D’aggravare i miei spasimi con la vostra presenza, Continua a leggere
Scena III.
PULCHERIA, LEONE, GIUSTINA.
PULCHERIA.
Signore, e a che qui rendervi di nuovo? E’ l’impazienza
D’aggravare i miei spasimi con la vostra presenza, Continua a leggere
Scena V.
ORAZIO, CAMILLA.
ORAZIO.
Sorella, il braccio eccovi che vendicò i fratelli,
Che seppe il corso frangere dei fati a noi ribelli,
Scena II.
VALERIO, IL VECCHIO ORAZIO, CAMILLA.
VALERIO.
Conforti a un padre a porgere, messi del re, veniamo,
E del pari attestandogli…
IL VECCHIO ORAZIO.
D’ufficio vi sollevo; Continua a leggere
ATTO QUARTO.
Scena I.
IL VECCHIO ORAZIO.
Mai nulla di quel perfido più ditemi in difesa;
Com’anzi ai consanguinei di lei la fuga ha presa, Continua a leggere
Scena VI.
IL VECCHIO ORAZIO, GIULIA, SABINA, CAMILLA.
IL VECCHIO ORAZIO.
Ci venite ad apprendere, Giulia, della vittoria?
GIULIA.
No; del funesto esito dei bellicosi fatti:
Scena V.
IL VECCHIO ORAZIO, SABINA, CAMILLA.
IL VECCHIO ORAZIO.
Vengo, figlie, recandovi terribili novelle;
Del resto, è in tutto inutile da parte mia celare Continua a leggere
Scena IV.
SABINA, CAMILLA.
SABINA.
Tra i mali nostri, al biasimo mio non vi denegate;
Troppa pena nell’anima vostra, mi pare, abbiate; Continua a leggere
Scena III.
SABINA, CAMILLA, GIULIA.
SABINA.
Sorella, permettetemi di darvi buone nuove. Continua a leggere
ATTO TERZO.
Scena I. SABINA.
SABINA.
Anima, decidiamoci in mezzo a tanto strazio;
D’Orazio siamo coniuge, o sorella a Curiazio;
Atto II., Scena VIII.
IL VECCHIO ORAZIO, ORAZIO, CURIAZIO.
ORAZIO.
Quelle sviate femmine, padre mio, voi fermate;
Soprattutto ogni transito prego loro chiudiate. Continua a leggere
Scena VII.
IL VECCHIO ORAZIO, ORAZIO, CURIAZIO, SABINA, CAMILLA.
IL VECCHIO ORAZIO.
Che avviene qui, mie viscere? Date retta all’amore,
E con le donne a perdere seguite ancora l’ore?
Atto II. Scena VI.
CURIAZIO, ORAZIO, SABINA.
CURIAZIO.
Dèi, Sabina al suo sèguito! Del cuore alla procella
Non bastava la coniuge? S’aggiunge la sorella? Continua a leggere
Scena V.
CAMILLA, CURIAZIO.
CAMILLA.
Curiazio, e potrai corrervi, e quest’infesto onore
Puoi preferire al rendere felice il nostro amore? Continua a leggere
Scena IV.
ORAZIO, CAMILLA.
ORAZIO.
Sapeste quale incarico fu dato ora a Curiazio,
Sorella?
Scena III.
ORAZIO, CURIAZIO.
CURIAZIO.
Che d’ora innanzi gl’inferi, ed il cielo e la terra
Le loro furie uniscano per muovere a noi guerra; Continua a leggere
Il ragazzo era un elfo: delicati
Ciglj su un inveduto taglio d’occhj;
Mistilingui armonie di neve in fiocchi
Sopra sentieri quasi inesplorati.
O su abissi da poco spalancati;
E degli scienti, affusolati tocchi
Cancellò gli arzigogoli barocchi
Quel loro non soffrire esser guardati.
Cancellò i giorni, calpestò le rose,
Spezzò l’ossa, e di grida empì smarrite
Lontananze incuranti, latebrose.
E tornò vano confessare, mite,
Mite il funzionamento delle cose.
Chissà quale eco ora ode l’arsa Dite.
nel suo LVI compleanno.
Mille di questi giorni. Sia vicina A te sempre e ogni dì la buona sorte; Rida a te il cielo, e al tuo mai con vie torte Invidj passo, e a chi con te cammina. Abbi aperta ogni terra, e, ove confina, Varchi t’apra benigna; apra le porte Eremo dolce ove sia troppo forte Rupe opposta a chi sempre peregrina. Ha il mondo vie per cui fuggire, e anfratti Onde sottrarsi a torme inseguitrici; E ha paci in muri taciti e ritratti. V‘han però, pure, umili sovventrici Egide (tenui usberghi; & mai disfatti!), Nell’idea, anche da lungi, degli amici.
PER LA SIGNORA X, GIOVANE DONNA, APPENA INTRAVISTA; MORTA. SVA ABITVDINE D’INDOSSARE LVNGHE VESTI FLVTTVANTI.
T’ebbe la terra prima che il mio oblio, Prima di vita che a me fuor di mente, Ora ombra in Ade non rammenti niente, E, vista appena, sei ricordo mio. Rubo il volto al non visto spicinio; Come uno m’apparì rifaccio a mente; S’è nulla il tutto tuo, quel tuo pallente Nonnulla è tutto, finché un che sono io. Postumo inganno, arra per te ubertosa Pare dell’ora tua fluttuante vita Quella che t’infiorava onda setosa: Velo a una fioritura ora appassita, Svelò a sfiorirti una Nemica ombrosa, Velò a illustrarti un’amistà fiorita.D’VN VECCHIO CHE PARLAVA DA SOLO NEGL’INTERVALLI DELLA LETTURA D’VN LIBRO DI 1368 PAGINE.
Vecchio, perché d’un’intellectio assorta Diporti i quarti d’ora, come suole Semmai quello cui mancano parole, Cui voce altrui, compagna, non conforta? Tante, invece, la mano tua ne porta, Che si direbbe non lasciar la mole D’esse spazio a dell’altre. Ma – e mi duole – So perché a tratti hai tu lettera morta Quel fluente di vita chiacchiericcio: Proprio perché la morte alto in te parla Nel volto crespo, al labbro cenericcio, E di te è parte, e tu non vuoi gabbarla, Le vive carte hai solo tuo capriccio, Distratto, e intermittente, a non turbarla.
Y sta per YORICK, che si prese un colpo in testa.
Curiosità appagare è una virtù Se più t’innalza quanto più va a fondo; E il tuo voler sapere o è stolto, o è immondo: Ché (il cuore ad avvilire) hai gli occhj in sù.Oh ad elevarti il Coppo viene giù: Par dire: “Hai domandato? E io rispondo; E, mentre il vero a te più non nascondo, Rivelo a me che cosa cerchi tu”.
Gli occhj abbassi; ma è tardi, te n’avverto: Ché (parrà strano) il Vero mai si vide Trovar passaggio dentro un cranio aperto;
Mentre al virtuoso Coppo ora sorride, Ch’è adesso fatto onninamente certo Che, se va in testa a un ebete, l’uccide.
X sta per XERXES, divorato dai topi.
Al saper ch’hai omonimo un monarca, A decollate Ziggure e Piramidi, Ròso il tuo piede da imbestiate Clamidi Tenero a te prepone dura Parca.Senza un padre a ridar capo coll’Arca, Spedando Sfingi, agli appiedati Abramidi; Senz’aspo schiavo che il colmo t’inamidi Di crespi regj alla letale barca.
Prima d’ergersi, a fondo ecco i tuoi casi; Ma, piccino, persino in te – che farci? – Più piccole entità davan coi nasi.
Gran morale potresti ora cavarci: Più in alto è il sommo, e più contan le basi. Né testa o piede hai più per arrivarci!
W sta per WINNIE, intrappolato nel ghiaccio.
WINNIE, la vita è un inescusso laccio, Di dolori, tormenti, bramosie, Di rimorsi, rimpianti, gelosie; Non lamentare il tuo perenne impaccio.WINNIE, la vita è decadenza: e taccio Di prolassi, enfiagioni, cachessie, Di prostate, enfisemi, miocardie: T’ebbe indifeso, ora t’è usbergo il ghiaccio.
Se chi più vive meno tempo dura, Chi della tua, così anzitempo doma, Persona è di persister più sicura?
Di chi serba (e perdendo va) la soma Mortale abbj l’invidia moritura: Oh intatto; oh eterno; oh giovanil la chioma.
Così dovrebbe essere molto più leggibile rispetto a prima. Francesco, che è stato così gentile da fare una seconda versione, completa di tutte le 45 stanze, ha pensato bene di isolare ogni strofa, e dedicare a ciascuna una pagina. Forse la soluzione migliore, per un dettato così assordante. Chi non avesse ancòra patito questa tortura secondo me farebbe bene ad alleviarne i tormenti andandovi incontro direttamente dal link sottostante, senza passare dal letto di Procuste di quello che ho postato io; fruendo, tra tanti strazj, dei lenimenti della grafica comoda, e della ricercata immagine di copertina.
Grazie ancòra a Francesco Marotta.
Arrivo a Gabriele Frasca, di cui avrei dovuto léggere Santa Mira diverso tempo fa (quando ero in tempo a farlo, perché ce l’avevo tra mano), attraverso il neolinkato blog di falecius , a due mani – una delle due mani, l’estensora dell’art. linkato qui, è stata allieva di Marzio Pieri, che a Frasca si è dedicato anche nel contesto di un corso ormai di qualche anno fa. Ho dato uno sguardo, in contemporanea, a due volumetti di poesie (“Collezione di poesia”), Lime del 1993 e questo Rive del 2001, del quale ultimo ho l’impressione, girovagando per la Rete, che in generale si sia parlato di più. In effetti questa seconda raccolta è più ponderosa, ed è sparsa di etichette più centratamente barocche: una serie di Orologj segna l’inizio del libro, mancano totalmente componimenti senza rime, e verso il finale si incontra una carrellata di “ritratti critici”, denominati fenomeni in fiera, titolo, però, deplorevolmente reminiscente Chiambretti, più una serie di piccole parafrasi da McLuhan. La quinta sezione della raccolta, dal titolo rimavi, è costituita di sonetti.
Ho trovato quasi tutto scarsamente comprensibile, salvo un componimento, guarda caso grosso modo narrativo, dal titolo Molli, esempio di realismo postbarocco abbastanza smaccato, in cui è descritta una vecchia canara perseguitata dalla ragazzaglia: potrà non essere originale ma è riuscito (ed è riuscito, va da sé, proprio perché non è originale, ma c’è chi preferisce la riuscita all’originalità).
Uno dei Fenomeni da fiera, i componimenti satirici, i più risentiti, mi è sembrato particolarmente centrato, quello della Donna editor, che m’è rimasto impresso e che riporto così, currente calamo, come mi sovviene:
se la testa raccolgo nei racconti mi disse una figura senza forma con le mani convulse a fare i conti è perché do di calco dentro l’orma di ciò che senso ha solo nei raffronti e intreccia le sue corna con la norma e nel noto ritorna con gli sconti perché io so che quanto è stato detto va ribadito, affinché sia perfetto e che la vostra muta intelligenza della quale son filtro e quintessenza sonnecchia mezza viva coi dumasMette conto di ricordare però che tutti questi ritrattini critici sono ispirati al mondo dell’editoria (c’è posto anche per me, volendo: almeno quando scrivo post come questo rientro nella tipologia del brodo-recensore).
Strano l’effetto dei branetti da McLuhan, che deprecava la perdita di orizzonti cosmici in favore di una miopia specialistica nella nostra società, compartimentata ed “elettrica”; tra le mani di Frasca, questa predicatoria luttuosamente sociologico-gesuitica si riduce di significato, semplificandosi, e riducendosi a suono, a sberleffo, a finneghismo. L’effetto è strano perché la palinodia è eseguita da un verso filiato dalla poesia “sbagliata” che tentò di conquistarsi spazj nell’età della scienza (Gravina), assumendone le categorie, o creandosi categorie e prassi omologhe; per cui hai uno studio scientifico che guarda con nostalgia struggente alla poesia, come dev’essere definito qualunque pattern cosmico di qua da ogni formalizzazione; mentre la poesia che ricanta brani di questo studio recupera modalità ed etiche di una poesia che guardava con invidia alla scienza.
Ma è un ragionamento del tutto estrinseco a questi componimenti, che non mi pajono molto felici, esattamente come gli Orologj, che servono semmai a dimostrare, nascendo peraltro, quanto al nucleo originario, una manciata d’anni prima della raccoltina di Orologj barocchi per cura di Vitaniello Bonito (1996), come, con tutta l’acqua che è passata sotto i ponti, sia scivolata via anche parecchia perizia formale, e che quelle cose, su cui passiamo a seconda con compiacimento o con compatimento, fossero belle o brutte, oggi non si possono più fare. E comunque sono poemetti in prosa, il cui primo nucleo nacque per una serie di trasmissioni radiofoniche; laddove il tentativo di recuperare quell’ossessività, quella tragica allegria, quella polverosa micragnosità, quella maraviglia, derivando tutte queste barocche tinte in via direttissima dalla prassi, dalla costruzione paziente, da una forma mentis edificata, artifiziata, non poteva riuscire, mancando appunto al poeta d’oggi quell’organizzazione retorico-formale. Se era solo un omaggio, è un po’ lunghetto: gli orologj di Frasca (non solo a sole, a corda, ad acqua, &c., anche “a rime”, p.es.) sono una dozzina, e sono inerti e scarichi.
Il limite di una poesia d’oggi che sia nutrita di barocco è il limite tecnico: e già i barocchi avevano difetti al limite del sopportabile.
Avevo anche preso qualche appunto, come al solito, ma prendermi il disturbo di andare di là a prendere il blocco con l’unico scopo di tediarvi – non che tema il vostro tedio, ma non è certo il mio fine – mi fa sentire un coglione alla sola idea.
Qui il tempo s’è guastato jersera, nel giro di forse cinque minuti: il cielo si è coperto di un compatto strato nuvoloso, color piombo, lampi ramificati si sono allungati in mezzo al livore bollicante, qualche tuono s’è udito, qualche goccia è caduta. Al momento non piove, ma il sole è nascosto, e fa freddo, o almeno fresco. Il clima qui non è mai esaltante, nel corso dell’anno sono poche le giornate calde. Se poi considero la mia eccitante vita sociale, il surrogato di esistenza che trascino in questa città, la voglia di vivere che tutto quanto mi trovo intorno mi dà, i libri che ogni tanto m’induco – chissà perché – a léggere, insomma, non posso dire di trovarmi davanti un quadro troppo positivo.
Con qualche licenza, da Gottfried Benn, Poesie statiche 1935-1946.
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