Ho ritrovato, per puro caso, due quadernoni, rimasuglio – risalgono a due anni fa – di un articolato e inconcludente zibaldone, testimone di un periodo, o un’epoca, in cui scrivevo molto più volentieri – poi, appunto, le sparizioni continue mi hanno disamorato, il fatto di non poter conservare nemmeno modeste cartacce mi ha reso sempre più sfiduciato. Tutto ne ha risentito, mi sembra che ogni giorno che passa sia sempre più morto del precedente.
Si tratta di un quaderno a spirale di Harry Potter – l’avevo trovato in offerta da Vagnino, 1 euro, così si spiega la scelta – e un quadernone con un’immagine puerile in copertina, forse ispirata a qualche cartone animato (la mia ignoranza in materia non potrebbe essere più abissale), a quadrettoni da un centimetro, parte di un pacco da dieci che acquistai per 4 euri a Napoli or è parecchio tempo. Il quadernone di Harry Potter mi accompagnò in un giretto per l’Italia di tre inverni fa, mentre il quadernone è quasi intonso, e mi è servito, a quel che vedo, soprattutto da portafoglio, dato che vi ho inserito stracciafoglî di vario tipo e scritti in tempi diversi; ed è forse tutto quello che rimane di un certo saccone di plastica bianco che a Grugliasco (oh l’incubo) tenevo sotto la scrivania (un’asse e due cavalletti), e che un giorno sparì per finire chissà indove.
Tra le carte inserite ci sono alcuni foglî che avevo cominciato a pasticciare proprio a Grugliasco, una sera, in particolare la sera del 23 luglio 2007, mentre alcuni ragazzi facevano festa e casino in cortile. Dato che in casa c’era un televisore, avevo ripreso l’abitudine di guardare il telegiornale, e in giornata non potei mancare una commemorazione di Gianni Versace, che era stato ucciso lo stesso giorno dieci anni prima. Io non mi sono mai interessato di Versace – non conosco la moda -, e, ciò che più conta, la mia conoscenza del nome dello spree killer risaliva a prima dell’omicidio del sarto; la folle corsa di Cunanan era stata seguìta dai telegiornali prima che raggiungesse Versace e l’uccidesse; fino a quel momento le sue vittime, tre in tutto, erano stati omosessuali benestanti, nessuno in vista oltreoceano. Nei dieci anni che intercorrono tra gli omicidî e la commemorazione di Versace che intravidi in televisione le tesi, anche quelle innocentiste, si sono sprecate. Dato che sono state tutte relative ai moventi più immediati dei varî assassinî, e non hanno preso ovviamente in nessuna considerazione motivazioni esistenziali più estese – che però non sono stato, sono convinto, l’unico a percepire – non mi sogno nemmeno di prenderle in considerazione. Tutto, però, è rimasto in sospeso. Cunanan, nato nel 1969 da famiglia modestissima d’immigrati, dopo una carriera scolastica apparentemente promettente ma che non l’aveva portato da nessuna parte (biglietti, lettere, cartoline e testimonianze raccolte dai postumi biografi denotano vivacità ma anche lacune), aveva cominciato a frequentare locali gay per abbienti, dove si era prostituito, o meglio aveva cominciato a frequentare persone più o meno mature dalle quali si faceva mantenere; aveva però avuto nel corso del tempo relazioni più durevoli anche con coetanei, specialmente professionisti. Quando aveva diciannove anni, la madre, tale Shillacci (di evidenti origini meridionali italiane, alla faccia di certe trascrizioni anagrafiche) aveva scoperto tutto quello che c’era da sapere circa le sue tendenze e la sua condotta di vita; e AFC aveva reagito sbattendola contro il muro e lussandole una spalla. I rapporti con la famiglia si erano troncati lì. È certo che assumesse sostanze psicotrope, più che occasionalmente, meno che compulsivamente, e che negli ultimissimi anni avesse mostrato qualche preferenza per il sadomaso, o per estenuazione sensuale o perché il fisico, interessato da un inedito enbonpoint in via di trasformarsi in cicciuzza, non addicendosi più al moscardino mantenuto che era stato sembrava avviarlo naturalmente all’attività di master: regole di mercato. Quando morì, suicida, in una houseboat, o casetta galleggiante, a Miami, facendosi trovare cadavere dalla polizia, aveva trent’anni. La tesi, molto succintamente, era che fosse impazzito in séguito alla scoperta di essere affetto da HIV, ma in primis egli non ne aveva mai parlato, nessuno gliel’aveva mai diagnosticato, e dall’autopsia risultò HIVnegativo. Si era detto che avesse ucciso nel tentativo di raccogliere quanto più denaro fosse possibile, essendo avido e interessato, ma l’inventario dei suoi beni non comprendeva molto, a parte parecchî tubetti di idrocortisone (da wikipedia, non me lo ricordavo) e una quantità discreta di romanzi di C.S. Lewis, l’autore delle Cronache di Narnia. I furti che aveva commesso (specialmente auto) dopo gli omicidî erano ovviamente dettati dalla necessità di seminare la polizia.
Lungi da me l’idea di mettere il naso in questioni che non mi riguardano – il mio interesse per AFC era infatti dovuto alla percezione, sempre meno confusa, che la sua storia riguardasse anche me; non lo stesso per quanto riguarda le sue vittime –, né potrei mai forzarmi a dilungarmi sui particolari della fine di Versace, che per me è rimasto solo uno dei quattro ammazzati, meritevoli tutti e quattro della stessa umana pietà e considerazione; se qualche strascico mi è meglio noto dipende esclusivamente dalla sua fama. Ma un decennio dopo la sua scomparsa mi capitò tra mano una pubblicazione riguardante una persona vicina allo stilista, nella quale si esprimeva la convinzione che l’autore del delitto non fosse AFC (di cui peraltro non sono mai riuscito a capire esattamente se avesse o no conosciuto, in precedenza, Versace), definito “un bravo ragazzo”. Eppure pare che fosse stato riconosciuto, per quanto la conoscenza in tempo reale dei suoi precedenti delitti e il vano inseguimento di giornalisti e polizia potesse aver creato qualche psicosi e falso convincimento.
La sua tetra e irrisolta vicenda è stata puntualmente riflessa da tre pubblicazioni, che, grazie ad una spedizione via amazon stettero per qualche tempo in poter mio: si tratta di tre libri di cui uno solo ha le caratteristiche pulp dell’instant book, e ormai si sarà fatto rarissimo, non avendo alcun interesse storico nel suo riprodurre, tagliando & cucendo & inferendo, in maniera sudaticcia (di sleazy parlano infatti gli americani per questo genere di pubblicazioni) e sensazionalistica vicende su cui ancóra non s’era fatta piena luce. Altri due libri avevano altro interesse, benché alla prova dei fatti presentassero svantaggî del tutto assimilabili di eccessiva tempestività e ideologismo. Uno, Three Months Fever, era dell’omosessuale Gary Indiana, scrittore di discreta fama che ebbe ovviamente buon gioco a mostrare attraverso le vicende di Cunanan a che cosa portino la mancanza di determinazione e di cultura (riproduceva diverso materiale notistico di mano dell’assassino, rilevando spietatamente gli errori ortografici in inglese e francese, e persino la sua biblioteca, dimostrando l’occasionalità, spesso interessata, della sua raffazzonata cultura). L’altro, della giornalista Maureen Orth, Vulgar Favors, prendeva occasione dal vivo della cronaca; essendo suo lettore affezionato, Cunanan stesso l’aveva più volte contattata telefonicamente, cercando un contatto diretto; rimane il fatto che era Cunanan a conoscere gli scritti della Orth, e non la Orth a conoscere direttamente Cunanan, e nella sua trattazione, che ricordo molto prolissa, la Orth metteva particolare rilievo sulle dinamiche del mondo della prostituzione.
Questi tre libri e la rete, dal 1999, come già la televisione in quell’estate 1997 in cui i fatti si erano rapidamente consumati, costituiscono fonti di documentazione, a cui si possono aggiungere le notizie, comunque sempre le stesse, riportate da varî dizionarî specialistici su serial- e spree killer. Tutto materiale indispensabile, fatto salvo il contatto medianico, a lèggere una figura che è certamente importante considerare nel suo contesto, dato che la sola pressione negativa esercitata dal contesto può spiegare l’esplosione di una violenza omicida così ad ampio raggio; ma di cui, paradossalmente, ho trovato e trovo molto più interessante la figura ‘in sé’ che il contesto in cui si trovò ad agire e reagire. Sembra una prospettiva, messa in questi termini forse non del tutto corretti, completamente irrealistica; basti allora invitare a considerare quanta differenza intercorra tra una ricostruzione biografica che ricrei il personaggio attraverso le sue relazioni con l’ambiente e una (presunta) ricostruzione biografica che tenti di desumere il personaggio dalle dinamiche, del tutto astratte, che regolerebbero gli ambienti in cui è vissuto e con i quali è entrato in relazione. Ecco, ambo le due ‘serie’ ricostruzioni biografiche, dell’Indiana e della Orth, appartenevano alla seconda categoria.
Non che fosse tutta colpa loro, chiaramente. Anzi, la difficoltà oggettiva, in un’epoca che si avviava rapidamente all’onnina diffusione del telefono cellulare, al satellite come occhio di dio, al monitoraggio capillare delle nostre vite, e in cui era già possibile – non come dieci anni dopo, ma quasi – sapere praticamente tutto della vita di una persona, fino a coglierne, almeno dal lettore intelligente, la sostanza esistenziale più individuata, la vita di Cunanan pareva come essersi affossata, salvo talune emergenze, che però non spiegavano nulla. Non si tratta solo della naturale strategia reattiva, che distingue l’uomo contemporaneo dall’umanità naturale dei secoli precedenti l’invenzione della metropoli e del capitale, e può portarlo ad una neurotica o deliberata contraddittorietà di comportamenti, ma di un problema a monte, strutturale, che riguarda l’osservatore. Un mondo osservabile capillarmente è un mondo in cui solo le emergenze – posto ce ne siano ancóra di vere e proprie, in una società finalmente, brutalmente democratica – possono risaltare; ma è soprattutto un mondo in cui, tutto potendosi registrare, nulla lascia, in fondo, alcuna traccia.
Non che di Cunanan mancassero segnali teoricamente rilevanti: di lui gli ex-compagni di scuola dissero che era decisamente il compagno più difficile da dimenticare: esibizionista, insicuro, discontinuo nel rendimento, poco serio. Nulla che comunque rendesse conto della raccomandazione del professore di proseguire con gli studî al college; scrivendo, il professore, che era a real thinker, un insicuro e un rompicoglioni ma di qualche spessore e curiosità intellettuale, dunque; ma non di più, nel senso che questo thinker non lasciò nessuna traccia rilevante di quello che gli passava per la testa, e optò assai per tempo per frequentazioni superficiali nel migliore dei casi, consacrandosi ad una specie di culto del corpo che, in gradevole contrasto con la fisionomia pulita (spesso occhialuta), ne fece poi un’icona ossimorica. I rapporti con la famiglia erano per converso da escludersi completamente come fonte d’informazione: la madre Shilacci non solo non aveva accettato l’omosessualità del figlio, determinando una rottura con lui e chiudendosi a qualunque comprensione, ma, come incresciosamente rivelò l’incontro con i giornalisti nei pressi della casa in cui l’assassino aveva trascorso l’infanzia, pareva avere un rapporto limitato in genere cól mondo; e, stando a quello che traspariva del suo aspetto mentale (“I’m the actress, okay?”), sarebbe stato presumibilmente lo stesso qualunque figlio avesse avuto e in qualunque dei mondi possibili si fosse trovata a nascere. Quanto al padre filippino, peggio che andar di notte: aveva lasciato la famiglia troppo presto, i suoi ricordi riguardavano solo il figlio adolescente, come altar-boy e come quel portentoso tredicenne che lesse tutta un’enciclopedia, from cover to cover.
Difficilissimo, probabilmente, compulsare a questo scopo le amicizie e la clientela: non tanto per protezione della privatezza, quanto proprio per la natura, del tutto meccanica, delle relazioni che possono essere intercorse tra Andrea Filippo e tutti gli uomini con cui intrattenne relazioni sessuali. Rimanevano i quattro ammazzati; il più giovane dei quali, un architetto, aveva per la verità già una relazione stabile con altro uomo, pure professionista; definito dall’Indiana come hard-working e perbene, fu ammazzato proprio in un periodo in cui stava discutendo con il proprio compagno circa la possibilità di continuare a frequentare AFC, che gli era parso ravveduto sulle pregresse scelte sbagliate.
Eppure, alla vigilia di uno degli ammazzamenti, AFC e un ex avevano avuto una discussione tremenda, durante la quale AFC aveva chiaramente mostrato fino a che punto potesse perdere il controllo nell’ira. Fortunatamente si era trattato solo di una telefonata, della quale la ventura vittima aveva detto che la voce di AFC in quell’occasione era sonata come quella di una bestia braccata, o come quella di un essere la cui vita è seriamente minacciata. AFC era, presumibilmente da sempre, una polveriera che una piccola scintilla poteva far esplodere, seminando, come in effetto fu, morte e distruzione; ma non è questo che importa. Come non importa nemmeno molto il fatto che avesse una personalità repressa; la landmistress, la padrona delle houseboats dove AFC aveva fissato l’ultima dimora, ricordava quanto fosse sempre compìto & educato, e fosse tutto uno yes, madam, thank you, madam. Quello che maggiormente colpisce è che nell’ira era come un animale che lottasse per la propria sopravvivenza. Ed è questo contrasto con l’architetto, che aveva trasferito nel lavoro qualunque possibilità di realizzazione esistenziale – posto che sia la soluzione – ad essere in qualche illuminante: da una parte lo hard-worker in teoria ci si presenta come un omosessuale che ha provveduto a costruirsi un’esistenza il meno minacciata possibile; dall’altra AFC, inesorabilmente perduto in bassi commercî, non è forse proponibile come segnacolo vivente – finché visse, è chiaro – di quello che può minacciare l’equilibrio di un omosessuale se non si vota ad una vita di hard work? Naturalmente, lo hard-worker e il bagascio si frequentavano; ciò che vien facile attribuire ad una scarsa propensione da parte di entrambi ad accettare le proprie condizioni esistenziali, come condizioni ingrate e diverse da quelle di persone più fortunate – cioè eterosessuali: è pieno così di uomini che campano alle spalle di donne, magari non onorevoli, ma non così minacciate come può avvenire per un Cunanan: AFC poteva benissimo avere rimpianto per una vita regolare, per una posizione ed entrate sostanziose e sicure; l’architetto poteva avere rimpianto dell’abbandono alla corrente, della sfida al mondo, della fiducia nonostante tutto nei confronti del proprio simile. Sono tentazioni in cui chiunque può cadere, e cade in effetto purché ne abbia motivo; ma la posizione pericolosa di AFC, la sua compromissione, la mancanza di un calcolo, di una strategia di sopravvivenza rendono il suo rimpianto in qualche modo eroico; mentre è proprio la strategia messa in atto dall’architetto, il debito pagato alla società per la propria omosessualità, l’accettazione delle condizioni magari non direttamente avverse ma più faticose e in ombra, a rendere il rimpianto, per parte sua, borghese, con tutte le implicazioni possibili quanto a pelosità, ad ambiguità, a contorsioni anfibologiche, a – insomma – doppiezza sostanziale, data la capacità borghese di rimanere sempre in bilico tra ammirazione a denti stretti e disprezzo temperato di pietà. Anche quel rapporto, pare, era qualcosa a cui sopravvivere.
Non stupisce il fatto che gli omicidî di AFC non abbiano suscitato reazioni particolarmente risentite dall’altra sponda: i quattro morti fatti da AFC erano tutti omosessuali, pareva più che altro una questione interna. Quindi non stupisce nemmeno che le manifestazioni di più becero furore, prima e dopo la morte dello spree killer, siano venute da parte omosessuale. Facilissimo dire che AFC era un omosessuale che non aveva accettato, specialmente caduta la tesi dell’AIDS (ma non quella della perdita della freschezza giovanile – che mi pare anche un po’ una stronzata, non tutte le fotografie lo mostrano in forma ideale, ma AFC era piuttosto fresco anche da cadavere), la propria omosessualità, o le conseguenze della propria scelta estrema, che poi è la stessa cosa; ma non è la facilità di questa lettura che m’ha indotto a respingerla. Che AFC avesse qualcosa di diverso, portasse implicazioni non riconducibili a nulla di facile, è stato evidente a tutti. Di qui l’interesse riscosso da una parte e dall’altra dell’oceano ben prima che Versace cadesse sparato a Miami; anche se non tutti se lo sono spiegato razionalmente.
Non che AFC abbia lasciato traccia solo in me, stando ai bollettini che inseguirono AFC per una buona fetta di USA, alle reazioni di molti, a caldo e a freddo, in rete, e anche a quel telegiornale del 15 luglio 2007, in cui lo spazio dato alla morte dello stilista e all’assassino era praticamente lo stesso. Mi sono fissato mentalmente il 23 seguente come data in cui buttar giù poeticamente qualche noterella circa quello che di AFC ricordavo. Dieci anni prima, quando ancóra tutti i miei equilibrî familiari ed esistenziali erano intatti, l’intenzione era stata un’altra, e cioè quella di dedicarmi lungamente ad AFC, con un’opera, nientemeno, di qualche respiro. Le profondità che mi sembrava di scorgere nella sua figura, e soprattutto le implicazioni metafisiche della percezione di una profonda duplicità del fatto – l’antitesi, quale potevo percepirla allora, cioè confusamente –, tale per cui l’atto compiuto, ributtante e brutale, assumeva automaticamente una sua ragion d’essere profonda e vitale in un’altra dimensione, non affatto o meno percepibile, mi parve del tutto ispirante. Impossibile, chiaramente, persistere nell’interesse per la vicenda senza lasciare in giro qualche traccia di un mio evidente coinvolgimento morboso, sicché stetti abbottonato; e cominciai, ed è la cosa peggiore da fare, da un punto di vista strettamente pratico, a concepire quest’impegno [ma mica era il solo!] in prospettiva ovviamente futura. Mi limitai a raccogliere ritaglî di giornale, a buttar giù qualche considerazione scritta e a chiudere tutto in un cassetto. Non so nemmeno se mi rendessi conto che sia la mancanza di esperienza sia la mancanza di elaborazione mi avrebbero messo immediatamente alle corde; ma non essere in grado di affrontare un argomento non vuol dire non rendersi conto della sua rilevanza. E il come mai questo stralcio di vicenda, dolorosa e violenta, fosse in sé rilevante, mi era tutto sommato visibile già allora, benché non come adesso che non mi pare più il caso di tornarci sopra.
Due anni dopo gli equilibrî suddetti erano andati a farsi benedire, e vivevo in modo che solo esteriormente poteva sembrare senza soluzione di continuità rispetto a prima; eppure, tra altre questioni che continuavano a premermi, quando scopersi le possibilità della rete, riservai qualche spazio anche ad AFC; il progetto, piacevole perché delirante, una barocca sfida, di affrontarne poeticamente la figura si rivelava semplicemente fatale: la stessa natura profondamente antitetica, a tutti i livelli, delle problematiche che sollevava non poteva essere affrontata in prosa, nemmeno analiticamente – se fossi stato un saggista o un giornalista, chiaramente, avrei scelto quella strada, ma, appunto, non era la mia. Come già detto, via amazon mi feci spedire gli unici tre testi che lo riguardavano, e che naturalmente sarebbero rimasti gli unici e i soli, li lessi con l’intenzione di procedere – non conosco a tutt’oggi nessun altro metodo – allo spoglio dei nudi dati e al loro ordinamento crudamente cronologico, dopodiché avrei proceduto ad elaborare, prendendo la cosa da varie angolature, secondo che mi veniva fatto. Se non ne feci nulla non dipese affatto dal taglio a tratti ributtante ed antipatetico delle narrazioni, ma dalla loro oggettiva povertà d’informazione. Chiaramente non m’interessava affatto che le analisi sociosessuali dei trattanti non fossero all’altezza: la mia analisi era quella che premeva. Purché ci fosse qualcosa su cui lavorare: e non c’era quasi niente, se non le opinioni delle poche persone normali che l’avevano conosciuto: del suo recours à l’abîme non c’erano tracce di qualche spessore. La necessità di risolvere ogni questione su un piano simbolico è talmente prepotente, in poesia, che sicuramente mi sarebbe venuta ispirazione ad inventare, se solo avessi imparato a conoscere AFC sufficientemente, fino a farlo muovere e parlare davanti a me; ma altri progetti mi risultarono più immediatamente fattibili al momento; un’esperienza odiosa di servizio civile (2000) mi riavvicinò nuovamente a quei poveri tre libri, che mi confermarono nel primo interesse e che poi accantonai dopo una veloce rilettura. Fino al 2007, se l’idea è riaffiorata in me, è stato sempre nei momenti in cui m’occorreva penetrare lucidamente le modalità, più che le cause (arcinote; che altro c’è da sapere?), di una discrasia con l’ambiente; nel 2007, in quella casa di merda a Grugliasco, si determinò la concomitanza tra una discrasia a varî livelli da una parte e, dall’altra, il memento costituito dal necrologio al telegiornale; ma da almeno quattro anni i libri e le stampe e i ritaglî che mi sarebbero potuti servire, posto potessero ancóra, erano andati dispersi.
A quel punto potevo solo rendermi conto di quanto la vicenda essenziale di AFC fosse a sua volta invecchiata – fosse cioè comprensibile e dabile solo in quegli anni ’90, e dieci anni dopo fosse diventata altamente improbabile, fuori contesto. Mi resi conto che sarebbe dovuta essere una tappa della mia maturazione, o una delle scelte fondanti, e anche definitive. Se non m’ero deciso, allora, nonostante l’importanza simbolica di questa vicenda di cronaca, a portare a compimento nulla di mio in merito, è perché questa scelta non era stata fatta; scelta radicale che allora non mi sentii di fare, non per la scelta in sé, ma perché non volevo precludermi altre possibilità, evidentemente. O fors’anche perché il mondo stava cambiando più rapidamente di quanto io lucidamente registrassi, e conferendo importanza, al momento tutt’affatto meritata, a quella cosa, avrei corso il rischio di rimanerci legato, se non per sempre, per un tempo troppo lungo.
Dato che sono condannato a riallacciare le fila con tutti i progetti che abortisco, anche questo l’avrei affrontato per senso di dovere e insieme con senso di liberazione. Chiaramente un poema heroico a questo punto sarebbe stato del tutto fuori luogo: in primo luogo non ne avevo né il tempo né la lena – anzi, non avevo lena affatto, e stavo combattendo per qualcosa d’altro, che ai tempi del progetto di AFC non potevo nemmeno supporre. Essendo un progetto morto, potevo rappresentarlo, appunto, da morto. Un’ode funebre è quella che ne è uscita: per AFC e per quello che su AFC avrei voluto scrivere, o di AFC avrei voluto fare; e questo dovrebbe spiegare le campane (appunto) a morto delle anafore – ne manca una, peraltro, come si noterà, e ci sono buchi anche nelle strofe, che dovevano essere 49, divisibili in 7 gruppi di 7 in base alle iterazioni iniziali, secondo lo schema ABaBCDCEED. Non ci fu il tempo di celebrare nemmeno questa specie di funerale privato, perché la scoperta della scomparsa di un cumulo di miei scritti, per un dispetto o una disattenzione – ma credo più per un dispetto, perché nessuno in quel periodo aveva accesso alla stanza, che dividevo con un ragazzo valdostano molto brutto, e non c’era nessuno che venisse dall’esterno a fare le pulizie o cose del genere – mi rese proprio in quei giorni incapace di scrivere. Sembra l’impegno più semplice, e i suoi frutti sembrano i più facili da conservare – anche perché un’invenzione non dovrebbe interessare nessuno; e invece la strana vita in cui mi ritrovo a vivere comporta anche questa difficoltà, a tratti impossibilità.
La tentazione narrativa è rimasta percepibile nel componimento, che fu steso per la prima metà la sera del 23 luglio, e per l’altra metà – dico della parte superstite, ovvio – la mattina seguente, del 24. Non so che cosa avrei fatto, entro la fine della xlix strofa; ma mi tenni aperta la possibilità, fino ad un certo punto, di poter riutilizzare in un secondo momento le 49 stanze come proemiale di un più lungo lavoro, cioè di trattare l’ode come un’unità interna dell’auspicato poema; l’impossibilità contingente di arrivare fino in fondo a questa prima unità naturalmente fece svanire qualunque velleità circa la possibilità di prolungare indefinitamente. Ma l’idea dell’utilizzo della strofe, che bene o male è in sé lirica, come strofa di poema non era da buttare; perché se c’è un problema, a riguardo del verso narrativo, è proprio quello dell’unità strofica, che paradossalmente può essere, dipende da come la si gestisce, meno monotona quando è ridotta all’unità minima che quando è una strofa articolata – la quartina e l’ottava. Sennonché il distico presuppone appunto un trattamento estremamente vigoroso e brillante, che certe umbratilità del mio modo di impostarmi mentalmente il tema rendevano fuori registro – si può benissimo impostare un poema dedicato ad AFC come una giostra degli orrori, o una sequela d’immagini dalle paste acide, ovviamente, ma non era mia intenzione farne un piccolo monumento tardogotico, dato che preponderante, nella mia maniera di accostarmi al tema, era una quantità di riflessioni abbastanza sconsolate. L’ottava decisamente è troppo rigida, e impone una poesia fatta di cose, totalmente materica; e io volevo riservarmi spazio sufficiente al ragionamento, svincolandomi quandunque ne sentissi la necessità da istanze troppo pressantemente narrative, e materiche, e fattuali. La più flessuosa strofe di pindarica poteva avere una sua ragion d’essere, dunque, anche in un poema o un poemetto: automatico pensare a un tot di “canti” da 49 strofe, ognuna di 10 vv., ovvero ciascuno di 490 versi; 10 soli canti avrebbero voluto dire un poemetto di 4900 versi; un componimento di 49 canti, secondo una progressione del tutto aritmetica, non avrebbe portato a più che 24.010 versi, che è circa la dimensione dell’Innamorato o del Morgante, ed è un po’ più della metà di lunghe avventure poetiche come il Furioso o l’Adone. Il tutto, mi affretto a precisare, nel mio solito disinteresse circa l’esser letto o non esser letto – non è quello, certo il problema; ma con la preoccupazione, quella sì, che l’argomento fosse eviscerato come ritenevo dovesse. Quest’obbligo di realizzare un’esatta intenzione non avrebbe rappresentato una difficoltà accessoria, per quanto potesse rallentarmi nell’esecuzione del disegno; sì poté rappresentar ciò tutta quella serie di incidenti. Da ultimo, avendo interrotto la composizione, pensai almeno di copiare e salvare su dischetto il manoscritto; non portai a compimento nemmeno questo modesto progetto: sul vecchio Mac esisteva un file dal titolo AD ANDREA FILIPPO CUNANAN, ma era rimasto vuoto. Poi sparirono, in successione, e il manoscritto, e il Mac, rubatomi in biblioteca in un momento di distrazione.
Un problema che non mi sono posto è quello del mio tipo e grado di coinvolgimento con il personaggio di AFC. Riconoscere in un personaggio il portatore di una problematica, e in quel personaggio il portatore di massima risonanza, per così dire, non costituisce di per sé ispirazione poetica sufficiente: ci vuole un moto di simpatia, un senso di condivisione, per quanto combattuto e dolente, che nel suo caso non mi è mai mancato, sin dal primo momento che passarono per tv la sua fototessera, nel primo telegiornale da me visto che desse spazio alla sua vicenda. Semmai, frustrata rimase la mia intenzione di procedere in senso analitico su un materiale certo e ‘storico’, cioè cronachistico, rigoroso; avrei voluto avere tutto il necessario a disposizione, e poi tappare i buchi, come i vecchî romanzieri cinesi, complementando in base a quello che mi sembrava verosimile quello che nei resoconti mancava. Ma, ripeto, la pubblicistica in merito non m’ajutò affatto; e inventare sarebbe stato per converso inutile, dato che la mia intenzione era proprio quella d’indagare sulla realtà. Fu ingenuità, la mia, perché le problematiche non sono mai eviscerate per filo e per segno, e nemmeno per l’essenziale, finché si stanno producendo; l’unico che avrebbe potuto enucleare la questione, risalendo alle emergenze più significative della propria vita, poteva essere solo lo stesso AFC, o una persona a lui vicina dotata di straordinaria capacità di penetrazione. E la letteratura che lo riguarda, legata per giunta alla notizia ancor fresca, è stata, del tutto prevedibilmente, troppo modesta, superficiale e insulsa per permettere una simile ricostruzione, per quanto circospetta, scrimitosa e paziente. Si trattava, poi, di distanza culturale, esperienziale. Non nego alla mia capacità di penetrazione l’eventualità di un successo in questo senso nel caso in cui avessi avuto la possibilità, non del tutto a caldo ma nemmeno a troppa distanza dai fatti, di verificare di persona gli eventi attraverso le persone più o meno direttamente riguardate: ma non è ufficio mio, e sarebbe stato da una parte troppo pretendere e adoperarsi, dall’altra un uscire di tema: avrei potuto confezionare un ottimo resoconto, tanto più illuminante quanto più inconciliabile con qualunque poesia. I casi della vita, come in tante altre circostanze, hanno congiurato a non farmi pervenire a nessun esito definitivo; ma la possibilità materiale di arrivarci mi avrebbe dimostrato che era comunque impossibile.
AFC, in tutto questo, rimane un’apparizione improvvisa, una meteora impazzita, in grado di sollevare un rilevantissimo problema in modo plateale e in certo senso, in questi anni, perché no?, addirittura ‘superato’ – temo più per un deciso peggioramento delle circostanze che per un progresso effettivo. È stato, non l’unico e il solo, ma certo l’ultimo, a ben guardare, che abbia portato l’intollerabilità della sua condizione esistenziale all’attenzione del mondo tra schizzi di sangue, e la sua vicenda ha ancóra uno strascico amaro e realmente tragico; dove la condizione eroica coincide con la solitudine – ipo-, e non apo-geica –, garantita dalla condizione esistenziale e dalla mancanza totale di un retroterra e di validi punti d’appoggio, in compresenza d’un orgoglio satanico lasciato inutilmente al mondo perché lo calpestasse; dove il destino tragico è costituito dal pregiudizio, quel dover-credere-così-perché-le-cose-siano-così, ed è questo che ne fa l’unica efficace sopravvivenza della magia nera nella contemporaneità; dove il turbamento di uno status quo ante è garantito dalla tenacia con cui un ricordo, almeno nei casi più direttamente implicati, rifiuta di precipitare nell’oblio, mantenendosi anzi ben inciso in talune memorie.
Ma AFC, come figura, è fatto solo per sollevare il problema, nel suo brutale grado zero, non certo per risolverlo. E, no, non è un limite suo: io credo che solo una feroce lucidità, una spaventosa consapevolezza possano averlo condotto a compiere più volte il gesto estremo, e non una presunta incapacità di trovare “soluzioni” in altre direzioni (quali? Chi mai ha “risolto” il problema?). Volgendo le armi contro chi condivideva, apparentemente da posizioni più privilegiate, parte del suo modo di essere, non ha né dato prova di non-accettazione della propria sessualità, né ha inteso punire alcun ipotetico tradimento: ha ribadito, per l’ultima volta prima di cedere al peso del proprio, la presenza esclusiva del vuoto esistenziale ed essenziale in un numero casuale di omosessuali, a lui noti o ignoti, imponendo nel modo più esecrabile possibile, e quindi il meno ignorabile, la questione tabù della nostra infernale dipendenza – di tutti, nessuno escluso – dal gioco delle opportunità – come porta che può aprirsi una volta, poche volte, mai –, dall’opinione corrente, dalla scelta altrui. Il tempo stesso gioca a vantaggio del pregiudizio, selezionando una dorsale sempre più sottile di tipologie sempre più compatte, e rassegnate, di outsider sempre più solo nominali: tutti gli altri, eccettuati i pochissimi che uccidono (beh, per fortuna), scivolano, semplicemente, fuori dalla vita, diventando invisibili in molti e non necessariamente incruenti modi. Rimane sempre la possibilità, per lo hard-worker, di ovviare a quel vuoto con un compagno mite e stempiato, e con l’intossicamento aziendale; ma ho detto ovviare a, non colmare. AFC è stato l’ultimo a diventare un mostro come conseguenza esclusiva di una condizione sessuale, e – per conseguenza profondamente non voluta – esistenziale. Per quanto ripugnante sia il crimine, una volta commesso è data solo una cosa più ripugnante ancóra: vanificarne la scandalosa portata, l’orrore, sciogliendone il significato in una diagnosi di sociopatia, di follia omicida, di compulsività paranoide – rendendolo, per giunta, di nuovo e di nuovo possibile, solo che il solenoide dei probabili torni nuovamente, come farà sempre, prima o dopo, a incurvare in giù o ad innalzare la propria linea, mutevole e sempre uguale a sé stessa.
È un caso-limite, e ha tutti i – chiedo scusa per il bisticcio – limiti del caso-limite: da una parte non può assurgere a regola di nulla, dall’altra però è universalmente significativo perché rappresenta l’esasperazione di qualcosa che riguarda tutti.
Tutto questo più per concludere un discorso molto tempo fa iniziato, in anni che sembrano distanti ère geologiche da GayPride varî, e dibattiti su pacs e dico, ma non affatto perché questi abbiano segnato un mutamento positivo nel costume, ma, al contrario, perché rappresentano tanti piccoli spostamenti dell’attenzione dal problema fondamentale, che è un problema disperato: l’unico cambiamento dirimente per gli omosessuali non essendo affidato a loro, alla loro capacità di elaborare modelli di comportamento, di fare scelte di vita funzionali o di mutare il proprio atteggiamento nei confronti della comunità di cui sono a varî titoli parte, ma alla piena accettazione da parte del contesto: una circostanza dalla quale siamo lontanissimi, non nel senso che essa paja indefinitamente lontana nel futuro, ma nel senso che, assai peggio, appare totalmente fuori contesto, al punto da non parere nemmeno auspicabile da parte di molti omosessuali, che condividono con il contesto la sensazione, diffusa a tutti i livelli nei nostri anni, di giochi ormai conclusi, di conquiste ormai sostanzialmente conseguite – tanto da lasciarci liberi anche di optare, a volontà, per una leggera, superficiale involuzione. È un’umanità, in genere, ormai del tutto stanziale, propensa alla costruzione di reti private di rapporti interpersonali e intesa in genere alla comunicazione di segnali di rassicurazione: preventivamente, cioè, vôlta ad eliminare il problema dal proprio campo visivo più che, veramente, dai proprî orizzonti, o ad abbracciare nelle proprie prospettive solo modelli e schemi limitati e funzionali alle esigenze più elementari e immediate. Normale sistole di una tendenza, durata anche fin troppo, all’adozione se non all’elaborazione di schemi di ampia portata, è una tendenza che tuttavia lascia tutto quanto non è stato risolto in precedenza allo stato di magma incontrollato. Il timore preventivo che un’attenzione troppo pronunciata a certi meccanismi sia foriera di conseguenze violente o incresciose, quasi che esse non fossero nei fatti, ma in chi li investiga – anche se alla presa di coscienza dovrebbero sempre o quasi sempre conseguire azioni – trasformano certe questioni, che si credevano solamente vecchie, in roba da preistoria; senza che da allora si sia fatto un passo in avanti.
Ma anche per chi scrive tutto questo, al meriggio pieno, abbacinante in cui si è consumato il suo crimine privato, è subentrato da anni il crepuscolo dell’assuefazione, quella penombra che sola è in grado di far distinguere con chiarezza gli oggetti: ma è chiaro che è il meriggio l’ora giusta, non il momento che precede di poco il declino del giorno.
Quanto ho scritto in merito è troppo lungo e articolato per poter essere considerato un semplice ‘cappello’ a quello che segue; che non merita assolutamente, peraltro, troppo approfondite precisazioni e inquadramenti, giacché si tratta di cosa modestissima. Gli è che mi correva l’obbligo di mettere in chiaro, più per me – mi dispiace! – che per chi passa di qui le ragioni, non per le quali un simile argomento m’è parso poetabile – poteva essere solamente un capriccio, se è solo per quello –, sibbene i motivi per cui mi ha accompagnato per tanti anni senza peranco portare ad alcun risultato sensibile.
Se non quel mazzetto di versi, brutti, va da sé – quali versi miei non sono brutti? – che seguono. Mi sembra infatti doveroso, per quanto sia totalmente inutile, far presente che essi non sono affatto all’altezza di quello che avevo in mente; ma riflettono i precedenti e altri ragionamenti, e poi sono frutto di un fortuito ritrovamento, a cui volendo potrei anche riferire alcunché di fatale. Dopo aver tutto e regolarmente perduto, mi parrebbe ὕβρις allo stato puro risbatter via quello che contro ogni speranza ho ritrovato. Per me è come salvare quel mazzetto di foglî superstiti, innanzitutto; che decifrerei, trascriverei, salverei anche se avessero contenuto tutt’altro, e di rilevanza ancor minore. Trattandosi di questo, a maggior ragione decifro e trascrivo e posto; senza ovviamente correggere le asimmetrie o smussare le asperità o integrarlo in alcun modo: dato che il destino ha voluto, questa è la forma in cui questa cosa deve fatalmente comparire, sia che qualcuno (e ne dubito; ma non importa, affatto) sia interessato, sia che no. Inoltre mi sarebbe impossibile, ormai, metterci le mani in qualunque modo.
Ad Andrea Filippo Cunanan.
(31 agosto 1969-23 luglio 1997)
1. Sì; è questa sera: scorsa mezzanotte, Mentre il frastuono – dura da due ore, Tre ore –, e ininterrotte Le vibrazioni dell’unz-unz, l’ardore Falso, o alcolico, di motti e di risa, E vaga e onnipresente la funesta Ombra dell’impotenza quasi uccisa Han surretizia volontà autoimposta (Che poco può, ma molto sangue costa) Già vessata dal re dei mal di testa,
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