Blog appartenente ad un cefalocordato che scrive. Esso (il blog, non il cefalocordato) non rappresenta testata giornalistica in quanto talvolta aggiornato, ma senz'alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della L. n° 62 del vii.iii.mmi; & è l'unica pagina in rete in cui compaja la parola IMBROBITOSO (verificare con gùgol).

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910. La verità.

20 Mag

Fate pena. E anche un po’ schifo. Epperò un poco mi divertite.

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908. Un messaggio.

8 Giu

Jeri m’è arrivata su Messenger una comunicazione che m’ha fatto un’impressione strana. Era una donna, un’israeliana, che, scriveva, sta facendo una qualche ricerca sui kibbutzim e su quelli che vi sono vissuti – anche parecchio tempo fa, a quel che se n’evince. Faceva il nome di mia madre, chiedendomi se per caso fossi io quel David Ramanzini che si attribuiva a mia madre come figlio. Quanto all’attribuzione, essa si doveva ad un mio zio, that lives in London. In questo modo sono venuto a sapere che mio zio A. è ancora in vita, cosa che non sapevo, mentre l’altro fratello di mia madre, l’ingegnere, l’avevo già scovato su LinkedIn (cambiando profilo sui social, ho dovuto ricominciare tutta la patafiacca dei bloccaggj). Nel caso non fossi quel desso si scusava anticipatamente d’avermi botherato. Figuriamoci, nessuna botheratura, solo mi sono preso (come faccio con tutto) un po’ di tempo per rispondere, rimandando il tutto, diciamo, all’indomani; che poi è oggi. Stamane torno su Messenger per recuperare il messaggio e non lo trovo più. Mi sono chiesto se percaso non mi fossi sbagliato, se non mi fosse arrivata piuttosto una mail – ma è impossibile, il messaggio conteneva un indirizzo mail che sarebbe stato inutile – , o qualcosa su Instagram, ma non c’è nulla da nessuna parte. Mi rifiuto di credere d’aver cancellato il messaggio senza volere, per quanto tutto sia possibile. E comunque sì, ricordo distintamente di essere figlio di mia madre, e che la stessa fece parte di un kibbutz, molti anni fa, anche se non so che cos’avrei potuto raccontare a questa signora (ovviamente non ne ricordo né il nome né l’indirizzo mail), dato che mia madre effettivamente raccontò, a suo tempo, qualche aneddoto sui suoi due anni in Nuova Zelanda, e sul suo viaggio in Russia, e sulla sua esperienza di paracadutista a Pisa, e d’una serie d’altre cose, ma di tutto quello che sentiva della sua parte ebrea non diceva mai niente. Non ricordo che riportasse qualche episodio del kibbutz, non so né il quando né il come, esattamente come so ben poco del campo di prigionia inglese. È da una vita, peraltro, che penso di scrivere di me, e quindi di lei. E rimando, rimando, rimando. (Quanto al messaggio, non ho ancora deciso se la perdita mi lascj più dispiaciuto o più sollevato).

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907.

2 Giu

Ho smesso di tenere il diario all’inizio di ottobre, credo intorno all’8., dopo averlo tenuto, con trascurabili interruzioni, dal ’93. Poco importa – ne ho scritto anche qua sopra, tempo fa – che in larga parte sia andato perduto (quella notte d’incubo a Milano) o presumibilmente distrutto, è stato il gesto quotidiano, o quasi, che m’ha accompagnato fino a pochi mesi fa a costituire una sponda, un argine, un principio ordinatore di cui non potevo fare a meno: mi svegliavo, la mattina, e finché non avevo ricostruito i fatti come suol dirsi salienti del giorno prima mi sentivo fuori quadro. Poi ha cominciato ad avvicinarsi l’inverno, e complici la pioggia, l’isolamento per via dell’emergenza e la distrazione del telefono, qualunque cosa ha smesso di succedere. Da quel pochissimo che succedeva. In modo del tutto spontaneo ho smesso di tenere il diario. Ho scritto altro, di tanto in tanto, quando mi veniva, ma non ho più sentito la necessità di registrare, giorno dopo giorno, i fatti del giorno prima. Ho notato due fenomeni. In primo luogo, a dimostrazione che Manetone ci aveva visto giusto, diverse date, una dietro l’altra, hanno cominciato a rimanermi impresse: come quella del I. di gennajo, del 2., del 22., dell’8. febbrajo, del 16. e del 27. marzo, del 16. d’aprile. E poi i miei sogni, mancando il paletto della cadenza quotidiana, si sono riempiti di volti noti e ignoti, di eventi d’una banalità sconcertante (favorevole a farli gabbare poi, grazie a qualche distrazione, per falsi ricordi), spesso da me ricordati nel particolare più infimo anche ben oltre nella giornata, benché non in sé memorabili. E poi, cosa forse la più importante, c’è stato, o dev’esserci stato, come un ricompattamento simbolico, che tutto sommato era da prevedere, ma che ha avuto una conseguenza per me abbastanza strana: mi sono infatti venuti in mente due racconti, uno sulla mia morte, e l’altro una specie di thriller un po’ comico ispirato a mia nonna (non posso chiedere d’esser preso sul serio perché, se trattasi di una cosa comica, serietà non può esserci, ma è proprio così); e questo nonostante continui a considerare il raccontare in sé, l’inventare storie, qualcosa d’ormai escluso. E però adesso mi sono venuti in mente, e qualche cosa ho cominciato a buttar giù. Quanto al diario, niente, per mesi. Dopodiché, finalmente, questa mattina un vago senso di colpa ha cominciato ad affiorare.

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906. Amanda Gorman. Tre capitani.

10 Feb

Quest’oggi onori aspettano da noi tre capitani.

Per gli atti che compirono, per l’ottima influenza
In era che periclita, preda dell’emergenza.
La realtà affrontarono col nerbo necessario,
Sfidando il verosimile, e ogn’ostico divario,
Dando sollievo al popolo, e a tutto il circondario;
Chi in ruolo terapeutico; chi guida; o educatore.

Conscio è per prova GIACOMO del vulnere di guerra;
Pure tuttora il milite i lari suoi disserra,
Di periglianti giovani valido sovventore.
A tanto poté giungere: del CoVid nel furore
Fu visto (e questo il murmure del suo buon cuore avalla)
De visu & in effigie dar calcj ad una palla!
– In pro vuoi del congenere, vuoi dell’ammiratore.

TREMANI industre mentore, opera senza posa
Acché sia il grosso pubblico interconnesso a josa,
Con hotspots, con portatili, con ogni – insomma – cosa
Occorra acché ai discepoli non falli anche una sola
Arma a illustrarsi valida, nel mondo, & nella squola.

SUSI le nurse coordina tra i moribondi a Tampa;
Dice che pur nel tragico speranza anche s’accampa.
Volle, perdute l’avole nell’aspra pandemia,
Campo di Marte eleggere l’intensa terapia.

Eroi, al fronte arrischiano per noi la loro vita!
In marcia ormai poniamoci con questa schiera ardita!
Dei nostri duci impavidi la diana ovunque è udita!

Se questi onori a rendere veniam loro in quest’ore,
Essi ogni onore rendono a noi a tutte l’ore.

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905. Ricominciare a scrivere.

8 Gen

Non manca molto. Non so esattamente quando, ma ricomincio. È che sono stanco di accumulare tonnellate di carta che rimangono poi ad imputridire in qualche magazzino.

Nel frattempo, però, mi sono guardato intorno, compresa la rete, e ho avuto una piacevole sorpresa. Il mondo non è più vostro. E soprattutto non ha nessuna voglia di ereditare le vostre colpe. Avete un piede nella fossa. Nessuno vi deve niente (anzi). Datevi una calmata, no? Lo dico per voi (ma anche un po’ per me, si capisce).

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Mi identificate?

25 Feb

Eccomi qui!

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882. Fb.

16 Gen

Dov’è che Maupassant dice del risveglio del ventenne e di quello della mezz’età? Lì dice anche che si dovrebbe evitare di guardare lo specchio per sei mesi, e poi condannarsi a guardarsi di nuovo, per vedere quanto si è cambiati nel frattempo. Sei mesi sembrano pochi, anzi pochissimi, ma a me sono bastati tre anni per vedere lo sfiorire di certi volti, che sfiorendo si banalizzano, e si ridicolizzano, come facendosi caricature sempre più grevi di quello che erano. Credo che, ragionando in termini  di lungo periodo, solamente i vecchj dovrebbero fidarsi a postare le proprie fattezze su facebook. I loro volti rinsecchiti possono solamente ulteriormente purificarsi, finché un ultimo troppo prolungato silenzio non annuncia che l’alba è venuta a cogliere la sua messe di sogni.

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881. Sh. LXXIII.

13 Ago

L’età dell’anno in me io ti rivelo

Che ha gialle foglie, o poche, o niente,  in quelli

Tra i rami ancora in lotta contro il gelo,

Già teatri al bel canto degli uccelli.

In me vedi il crepuscolo del dì

Che al tramonto dà ad Espero la face,

Che nera notte qua e là ghermi

Altra morte, che il Tutto serra in pace.

In me vedi del fuoco l’ammiccare

Sulla sua prima incenerita forza,

Letto di morte in cui dovrà spirare;

Ed è chi l’avvivo’ quel che lo smorza.

Ciò vedi, e amore in te faccia più forte

Saper l’amato in breve in preda a morte.

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838. OTONE, Atto I., Scena II.

31 Mar

Scena II. VINIO, OTONE.

VINIO.
Soli, Albino, lasciateci; con lui ho a conferire.
Che m’amiate ho da credere, Signore, e che mia figlia Continua a leggere →

  • Categorie corneille, othon, scrivere

835. ORAZIO, Atto V., Scena II.

26 Mar

Scena II.

IL VECCHIO ORAZIO, ORAZIO, TULLO.

IL VECCHIO ORAZIO.
Ah, Sire, onore simile troppo eccede per me;
Non questo è il luogo idoneo per incontrarvi il re:

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  • Categorie corneille, horace, scrivere

821. Immortalato 2. [la vendetta]?

16 Mar

Nel frattempo sto prendendo copiosi appunti – magari non TANTO copiosi, ma spero succosi, ricchi di informazione & dirigenti a soda pietà. Dato che in quel cesso di biblioteca di Grosseto (una città che è un cesso, in genere, di per sé; che cosa pensare di una città la cui mappa contempla una via “Riccardo Leoncavallo”? Che cosa di una città che nella sua toponomastica comprende una “piazza Bettino Craxi” [priva di panchine, peraltro. Che siano tutte ancòra a Hammamet?]? Che cosa di una città che come unico ponte sull’Ombrone, che avrebbe bisogno di altri transiti, ha il “ponte Benito Mussolini”?), nonostante quanto spergiurato dal sito circa le 10. postazioni internet, non esiste possibilità di connettersi a terminale, ho dovuto aspettare di trovarmi in questa ridente Orbetello – ridente davvero; è molto bellina. Non scherzo – per riportare quanto da me registrato per il vii.iii: Continua a leggere →

Tag:casi della vita, sterquilinarie

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813. La zia Gerta.

27 Feb

http://image.anobii.com/anobi/image_book.php?item_id=01e0e1b5babdc1a8b7&time=&type=4Ho trovato di recente questo libretto, Psicologia della zia ricca (“Die Psychologie der Tante”, 1905.), che è diventato automaticamente l’ultimo mio libro preferito [il penultimo era The Rock Pool di Connolly], di Erich Muhsam, anarchico e genio. Si tratta di 25. ritratti di altrettante vecchie zie che, secondo la tesi della raccolta, non crepano mai quando dovrebbero lasciare cospicue eredità: o muore prima il nipote, o la zia effettivamente muore ma non lascia nulla di quanto ci si aspettava, o il nipote finisce diseredato, &c.

Tutto questo si presta, sicuramente, ad analisi economicomarxiste quanto mai interessanti circa i mutamenti radicali che, in tempi di mutamenti appunto radicali come furono i primi anni del secolo scorso, portarono a rendere particolarmente tortuoso il procurarsi mezzi di sussistenza — almeno per chi all’epoca era lontano dalla terza età e da una rendita decorosa. Si tratta di problematiche cui l’autore, peraltro, non fu affatto personalmente estraneo. Continua a leggere →

  • Categorie anarchici, erich muhsam, ricchioneria, scrivere, zie

812. Eco.

23 Feb

Invece per Eco morto non mi viene nemmeno un versicolo (giuro che ci ho pensato). Ho letto a Pisa, un mese e mezzo fa, come ultimissima mia lettura echiana, l’ultimissimo suo romanzo, Numero zero. Perché avevo parlato con uno muy lector, a cui provocatoriamente avevo detto che Eco non necessariamente scrive male – per esempio, una grande pagina di prosa è la filza d’insulti del cuoco al povero Salvatore (“scorreggione d’un minorita”, “te e quella troja bogomila che t’inculi la notte, majale” – volevo copiare quella paginetta, ma naturalmente nelle biblioteche tutt’i Nomi della rosa sono in prestito, per ragioni commemorative). E lui m’aveva prestato quella nel complesso modesta cosa. Certo, quel romanzo in particolare non mi è piaciuto, sembrava fatto coi cascami di cose più elaborate & complesse che avrebbe sicuramente potuto fare se non gli si fosse accorciato – per l’età, ovviamente; non solo fisicamente, anche intellettualmente si perde elasticità ben prima della fine (in proporzione, ovvio) – il respiro. Oltre al fatto che non trovo affatto interessante l’idea che Mussolini possa essere sopravvissuto. Anzi, mi fa schifo. Ma mi sono domandato, seriamente, E se fosse stato scritto da qualcun altro? – allora forse mi sarebbe piaciuto di più. Forse. Rimane il fatto che sarebbe stato meglio scriverlo e farlo uscire nel ’95., non nel 2015. – per via di quel Vimercate padrone del giornale, che tuttavia ha l’handicap di essere un Berluschino formato minore, mentre quello vero non ha problemi ad entrare in nessun giro. Insomma, una cosa surretizia, un pochino inutile. Continua a leggere →

  • Categorie scrivere, umberto eco

810. ORAZIO. Atto II., Scena I.

18 Feb

ATTO SECONDO.

Scena I.

CURIAZIO, ORAZIO.

CURIAZIO.

Roma non vuol distinguere tra campione e campione;

Le parrebbe illegittima ciascun’altra elezione; Continua a leggere →

  • Categorie corneille, horace, scrivere

808. ORAZIO, Atto I., scena II.

17 Feb

Scena II. CAMILLA, GIULIA.

CAMILLA.

Quanto a torto desidera che resti qui con voi!

Ch’ella creda i miei spasimi meno forti dei suoi, Continua a leggere →

  • Categorie corneille, horace, scrivere

807. Pietro Cornelio. ORAZIO trasportato in italiano. Atto Primo. Scena prima.

16 Feb

ORAZIO.

TRAGEDIA. Continua a leggere →

  • Categorie corneille, horace, scrivere

806. Regeni.

11 Feb

Il ragazzo era un elfo: delicati
Ciglj su un inveduto taglio d’occhj;
Mistilingui armonie di neve in fiocchi
Sopra sentieri quasi inesplorati.

O su abissi da poco spalancati;
E degli scienti, affusolati tocchi
Cancellò gli arzigogoli barocchi
Quel loro non soffrire esser guardati.

Cancellò i giorni, calpestò le rose,
Spezzò l’ossa, e di grida empì smarrite
Lontananze incuranti, latebrose.

E tornò vano confessare, mite,
Mite il funzionamento delle cose.
Chissà quale eco ora ode l’arsa Dite.

  • Categorie regeni, scrivere, versi

805. “Inesistenza dell’omosessualità”.

10 Feb

L’avevo notato qualche tempo fa, a dir vero, ma lo dico adesso, perché un link a questo blog, da me trovato oggi in dashboard, mi ha rinfrescato la memoria: qui sono stato incluso in una lista di ricchioni, non-ricchioni & ex-ricchioni che si pronunciano autorevolmente o no circa l’esistenza dell’omosessualità, anzi, circa la non-esistenza. Continua a leggere →

  • Categorie ricchioneria, scrivere, wikipink

804. Assonanza.

4 Feb

Da wikipedia: Continua a leggere →

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803. Qualcosa di scritto.

4 Feb

Bloccato a Piombino (!) per una periartrite alla spalla, o una cervicale, e non lo auguro nemmeno a un cane.

Nel frattempo scendo la costa, campando d’aria e poco più. Incontro – dico come incontri, veri & proprj – perlopiù gente di merda; ma questo era previsto, perché tutto il mondo è paese, e, come diceva un antico servente di casa Bollati, “Quando hai bisognu, tutti se n’approfittanu”. Una profezia che, in un modo o nell’altro, e in modi anche sottili, s’è sempre verificata, e si verificherà. Continua a leggere →

  • Categorie scrivere

802. Bu.

29 Gen

Bu.

File:1818-English-Ladies-Dandy-Toy-IR-Cruikshank.jpg

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801. Il Breve. Selva-polimetro alla Sig.ra D.a la Sig.ra ROSSANA JOVINE-VECCHIO, che gli chiedeva alcuni versi. /1.

29 Lug

1. Salutem dicit.

Do di piglio alla penna in disperata
Congiuntura, oh ROSSANA; Continua a leggere →

Tag:rossana

  • Categorie rossana vecchio, scrivere, versi

799. …

9 Dic

[Post 799.

E basta].

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798. Augurj a Sonia Prina (il giorno dopo l’ultima recita del Giulio Cesare).

30 Nov

Madrigale. Continua a leggere →

  • Categorie augurj a sonia prina, scrivere

797. Stralcio.

2 Mag

«[…] Sempre in proposito degli sdruccioli, lo sventurato STROPPIA ebbe anche a dichiarare:

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796. Questo sì che è un libro.

29 Apr

Mentre aspetto di ritornare a lavorare, contro ogni speranza [ma anche contro ogni mio principio – non perché i miei principj mi vietino di lavorare, tutt’altro, ma per le condizioni in cui dovrei continuare a lavorare], rileggo & rileggo un libro straordinario, Il lungo viaggio attraverso il fascismo del più grande storiografo del ‘900 italiano, prodotto, testimone e fors’anche martire del subumano padronato italiano, Ruggero Zangrandi (1915-1970).

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792. ?

4 Ago

Bu!

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782. grongo1622@hotmail.com.

19 Dic

Ho l’account hotmail bloccato, e a quel che vedo per forum non c’è assolutamente niente da fare (ma la polizia postale può fare qualcosa? In giro non se ne parla). Se qualcuno mi ha scritto, per favore ci rifaccia a grongo1622@hotmail.com.

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777. Nuovo tèma.

14 Lug

Questo tèma è una grandissima pacchianata, ne convengo, ma è proprio per questo che mi piace. Sono rimasto lungamente indeciso tra quello dello Sgargabonzi (che però è più adatto ai suoi contenuti) e un altro simile, sempre foglio-di-carta ma più sparato nei titoli, ma mi sbatteva tuttosommato troppo, e così ho deciso di passare direttamente al kitsch più sfrenato. Spero solo che la grafica non sia troppo stressante per chi passa a lèggere,  ma ad occhio & croce non mi pare. Se qualcuno passa a lèggere, beninteso, ma per giorni e giorni (almeno una settimana, suvvia) non sarò praticamente reperibile, qui sopra, almeno non più di quanto sia stato negli ultimi mesi. Inoltre, parendomi veramente magico il n° 777, penso di rubricare sotto lo stesso, aggiornando via via, le cose agghiaccianti di cui vi farò cadò, a mo’ di sunto, nei prossimi tempi. Purtroppo anche l’idea di tenère un diario-diario in rete è miserandamente saltata, e ne sono molto pentito, sicché farò atto di contrizione e mi costringerò ad un lungo post riparatorio. Dopo [come dissi] che il mio tentativo di finire sul Guinness dei Primati sarà arrivato felicemente in porto. (Tomasi di Lampedusa a proposito di Dickens scriveva che le crisi di uno scrittore dipendono dal tentativo ovviamente fallimentare di sottrarsi al meccanicismo degli eventi).

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775. Spinoza.

20 Giu

Mentre tentavo di decidermi a capire che cosa volessi dalla scrittura (il tutto, ovviamente – ma si sarà capìto, finalmente? – senz’ancòra aver deciso di, o se, essere, in tutto e per tutto, uno scrittore), m’è venuto il quasi inspiegabile desiderio di lèggere qualcosa di Spinoza – non un qualcosa qualunque, ma quella succinta, ideologica, grammatichetta ebraica che scrisse a supporto dei suoi trattàti, compreso il Teologico-politico, dal momento che una deficiente conoscenza della lingua biblica era, come è a tutt’oggi, la causa preponderante di tante incomprensioni, e di tante false c0nclusioni.

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723. 48.

18 Dic

(48). Ma un po’ mi dispiace, sa, non poter ricreare in qualche modo le esatte condizioni contestuali, senza di cui mi sento in effetti di procedere un poco alla cieca, in fondo non sapendo esattamente di che cosa sto parlando e limitandomi, benché la mia irrefrenabile garrulità possa a tratti apparire un diaframma sufficientemente omogeneizzante, a riferire voci accolte e documenti sparsi: l’atto del narrare, Lei m’insegna, è scegliere, fior da fiore, di volta in volta l’oggetto di cui parlare e, insomma, ridurre le tre, le trecento, le tremila dimensioni del reale, il regno assoluto della simultaneità dei fenomeni a due sole dimensioni: per quanto mi riguarda, narrare, in questo stravagante caso, è l’operazione esattamente inversa, vale a dire che consiste nel partire da un filo, peraltro per lunghi tratti spezzato, commetterlo con rozza annodatura ad altri segmenti, di difforme colore, spessore e materiale, e per ingegnarmi a trarne un’idea del contesto — meglio ancòra, dando voce a quell’illusoria cassa di risonanza, per così dire, he la mia sfrenata fantasia, o una simpateticità cementata dagli anni coi Suoi casi, ha creato intorno a quel sottile filo: tanto che, scrivendo, devo spesso reprimere l’ansia di correre avanti ai fatti di fosse pure una sola misura, ciò che mi porterebbe a fare come Lei nel caso della storia del buffo vecchino, sforzandomi di mantenermi del tutto entro i limiti del verosimile, se non del vero, e ben attaccato alla lettera testuale dei documenti che a mano a mano sono riuscito ad avere in poter mio; ma, badi, questa mia operazione rischiosa  è pure necessaria, in primo luogo perché non posso darLe contezza di quanto ho letto di Lei e su Lei riproducendoLe crudamente materiali che potrei benissimo non aver letto, o malamente, o malamente interpretato; in secondo luogo perché questo racconto è in fondo la storia della Sua ricezione da questa sponda dell’Oceano; e questa ricezioneassume per Lei tanto maggiore importanza quanto più si avvicina il momento, per Lei, di conoscerci — cioè (sì, ha letto bene), conoscere noi, il gruppo, o se vuole associazione, che in qualche modo tramite me Le scrive, proprio come mio tramite ha avuto notizie di Lei, sparse ed occasionali fino al dì d’oggi, più nel particolare e per esteso ora che è giunto il momento dei consuntivi, poiché io, inviandoLe questa troppo lunga missiva, ne mando copia anche, per conoscenza, agli altri: così io, e in gran parte noi tutti, L’abbiamo conosciuta, questo è il Quintiliano che ci aspettiamo di ri-conoscere quando verrà a conoscer noi, senza nulla togliere di potenziale illuminazione alla sterminata massa d’informazione che non è in poter nostro, e senza escludere a priori che della Sua — un tantino complessa, mi permetta! — persona e vicenda esistenziale io, e quindi noi, non si sia capìto un bel nulla.

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570. Capriccio XIX.

23 Lug

D’VN VECCHIO CHE PARLAVA DA SOLO NEGL’INTERVALLI DELLA LETTURA D’VN LIBRO DI 1368 PAGINE.

Vecchio, perché d’un’intellectio assorta
Diporti i quarti d’ora, come suole
Semmai quello cui mancano parole,
Cui voce altrui, compagna, non conforta?
Tante, invece, la mano tua ne porta,
Che si direbbe non lasciar la mole
D’esse spazio a dell’altre. Ma – e mi duole –
So perché a tratti hai tu lettera morta
Quel fluente di vita chiacchiericcio:
Proprio perché la morte alto in te parla
Nel volto crespo, al labbro cenericcio,
E di te è parte, e tu non vuoi gabbarla,
Le vive carte hai solo tuo capriccio,
Distratto, e intermittente, a non turbarla.
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Tag:capriccj, sonetti

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  • Categorie capriccj, scrivere, sonetti, versi

567. La ricerca (anche da fermo) del desiderio.

20 Lug

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/fe/Salmacis_%26_Hermaphroditos_4.jpeg

Salmace & Ermafrodito, stampa del 1581.

Il cavalier Marino scriveva da Ravenna a Bernardo Castello, nel 1606 (non posso giurare che la data sia esattissima, perché copiazzo dall’antica edizione Laterza del 1911, Borzelli & Nicolini curr.):

[…] Un personaggio principale, a cui non posso mancare, ha raccolto in molti anni da molti e diversi maestri, e particolarmente da’ più famosi che oggidì vivano, un buon numero di disegni quasi nella medesima forma che son quelli che si veggono nelle stampe di Pierino del Vago, e n’ha messo insieme un libro il qual tiene per suo trastullo. Egli ha notizia del sommo valore di V.S.; onde disidera qualche fantasietta di sua mano, tirata o di penna o di lapis o di chiaro oscuro, rimettendosi in quanto alla invenzione in tutto e per tutto all’arbitrio del suo capriccio […] Continua a leggere →

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  • Categorie marino, poesia, questioni tecniche, riflessi, scrivere

556. Isolamento.

25 Giu

Che abbia perso ogni treno, in questo senso, è da darsi per scontato: dire che non ho più il brio e quella straccia di pallido entusiasmo che mi aveva colto ormai qualche annetto fa è un vigliacco eufemizzare, di fatto l’omino è rimasto da solo in una stazione morta, dove nemmeno i radi e squallidissimi treni merci fermano più. Sono passato da una, credo peraltro lecitissima, volontà di trovare quel punto d’incontro tra me e il lettore ad una forma non dirò di solipsismo, perché comunque la scrittura – e per sua natura, ciò che suona paradossale, ma è così – tende immancabilmente all’altro; ma sì ad una forma di autoriferimento riesmaniano (e un giorno dirò anche chi era Riesman, che comunque ha scarsa o nulla importanza, e che cosa intendeva con autoriferimento, da quello che so per via per ora indiretta: per il momento, basti che la definizione mi s’addice, addicendomis’il concetto, polveroso & ottocentesco, a cui rimanda). Con questo, suppongo, si compie un destino. Avevo deciso, ad un certo punto, di mediare, di aprirmi, di andare a cercare attivamente riscontri: non ho avuto il tempo materiale di fare nulla di pratico, di concreto, che tosto ho avuto la dimostrazione che il mio presunto campo di elezione, latamente la letteratura, era ed è una piccola provincia dell’attività umana, soggetta ad una legislazione ipertrofica vòlta a regolare le relazioni tra appartenenti innanzitutto in forma d’ipocrita amicizia: un luogo chiuso e angusto nel quale si inchiavardano, per motivi spesso inimmaginabili, persone fatte esattamente della merda di tutte le altre persone, ma che sono tenute a sorridersi, e dirsi Quanto sei bravo/a, pena l’ostracismo. Se ci entri, devi patire quarantene che nemmeno un gesuita in Cina prima di avvicinarsi a Palazzo imperiale, ringraziare tutti della compassione, e riconoscere tutta una serie di debiti. Ogni pezzo di stronzo prodotto da altri dev’essere cioccolata. Ogni pezzo di cioccolata prodotto da te può diventare merda se non mangj di quella strana cioccolata che ti dànno, così molle, e che puzza. Continua a leggere →

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  • Categorie questioni tecniche, scrivere

525. Radio BlackOut.

25 Feb



https://i0.wp.com/radioblackout.org/files/2010/02/blo-adesivo-bn.jpg

Un po’ per tutta Torino si trovano affissi manifesti con la dicitura “spegni la censura, accendi BlackOut”, che denunciano come atto censorio da parte delle istituzioni, ed esplicitamente del sindaco Sergio Chiamparino, che è contro tutte le occupazioni, la decisione di non rinnovare il contratto che ha consentito alla radio anarchica di trasmettere per 4 anni dallo stabile di via Antonio Cecchi 21/A per soli 1300 euri l’anno. Entro il 31 03 BlackOut dovrebbe sgombrare.

Le realtà occupate di Torino sono diverse, e diversi sono gli sgomberi, le occupazioni e le rioccupazioni. La casa Fenix di c.so s. Maurizio è stata sgombrata con successo il 20 07 2005, murata e adibita dal Comune a punto informativo; ancóra il 28 11 2010 un gruppo di anarchici ha cercato di far risorgere la Fenix dalle ceneri occupando la palazzina dell’università in p.zza Arbarello; hanno dovuto sgombrare in poche ore, ed è stato un vero peccato, perché la costruzione è veramente magnifica. Il 25 03 2009 lo Squat[1] Velena di c.so Chieri è stato sgombrato, dopo che era stato occupato il 28 02, rioccupato il 17 04 seguente, risgombrato il 20 10 2009. Il 28 01 2010 è stata sgombrata la Boccia, v. Medici 121, che aveva già subìto sgomberi nel passato (era stata rioccupata il 23 02 2008, per esempio), e l’edificio è stato abbattuto l’01 02. Lo squat Lostile di c.so Vercelli è stato sgombrato il 06 12 2009, per cui l’11 12 ancóra c’era guerriglia per le strade, e il 29 01 2010 c’è stata la drammatica occupazione della sede del comitato elettorale per Merbredes Cesso da parte degli sloggiati; il 07 11 gli aderenti della FAI, Federazione Anarchici Italiani, hanno occupato l’ex-scuola infermieri di v. Zandonai, e sùbito dopo sono stati sgombrati.

I centri sociali storici di Torino sono passati in rassegna qui. El Paso Occupato ha una voce su wikipedia; è nato nel 1987. Il Barocchio è stato fondato nel 1992; al 1994 risale la nascita del Gabrio e al 1996 quella dell’Askatasuna. Uno dei più vivaci è l’anarchico Mezcal, sistemato dentro un padiglione dell’ex-manicomio di Collegno (sono stati miei vicini di casa per un sei mesi, tre anni fa), nato, mi pare, nel 2006.

Mercoledì 03 06 2009 l’anarchica Assemblea antirazzista di Torino, che è un’altra cosa dalla radio, è sciolta; non vuol dire che smette di esistere, ma semplicemente che (nel link è detto: non ha nessun tipo di gerarchia, nessun capo o referente o responsabile) detta Assemblea non è un’organizzazione formale, ma una nebulosa di persone che si riconoscono informalmente negli stessi valori e nello stesso impegno. Da allora l’Assemblea torinese, occasionalmente, si riunisce nello stabile di via Cecchi 21/A, dove ha sede Radio Blackout. L’Assemblea antirazzista è responsabile di parecchie iniziative in favore dei migranti nel corso degli ultimi anni.

23 02 2010. Radio Blackout è perquisita dalla Digos su ordine dei pm Andrea Padalino e Manuela Pedrotta (è solo uno dei 23 luoghi colpiti dallo stesso provvedimento) perché nello stesso stabile ha avuto luogo l’Assemblea antirazzista; per 6 ore non può trasmettere. Radio Blackout subisce il sequestro di computer (in numero di 3) e cellulari; nel corso di perquisizioni altrove effettuate sono stati sequestrati anche caschi da moto, mazzette d’acciajo, uova riempite con vernice nera.

Massimo Numa, noto per il suo atteggiamento ostile nei confronti di quelli che chiama anarco-insurrezionalisti, pubblica sulla Stampa questo articolo. Massimo Numa è anche uno di cui su indymedia si racconta che, sotto il falso nome di Mario Ghiso e senza presentare il tesserino di giornalista, il 16 11 2001 si mise in contatto con un’associazione assistenziale in favore dell’eutanasia, sostenendo di avere la mamma moribonda – dando il nome di una persona realmente esistente, la signora Vittoria Ghiso di Savona, peraltro, po’ra disgraziata, rivelatasi viva e vegeta –, denunciando sùbito dopo l’associazione alla polizia con accuse inconsistenti – che intanto costarono ad essa associazione una pesante perquisizione, in cui fu portato via praticamente tutto l’asportabile. Nel 2008 ha pubblicato, con Mario Portanova (già del Diario), Francesco La Licata suo collega alla Stampa e i due giornalisti del Corriere della Sera Guido Olimpio ed Elisabetta Rosaspina, il volumetto celebrativo Sbirri, dedicato agli agenti di Polizia.

È un giornalista soprattutto di cronaca, scrive male e in modo sensazionalistico; è filofascista. Può essere interessante scorrere la lista dei suoi articoli per la Stampa; è significativo che il primo articolo che appare – per rilevanza – sia dedicato a una martire “fascista”. Dei 33 articoli che ha scritto per la Stampa tra il primo dell’anno e il 18 02, ben 12 sono dedicati agli anarco-insurrezionalisti; peraltro, ed è molto interessante, devono essere rubricate a questa voce tutte le corrispondenze dalla Valle di Susa, perché le manifestazioni antiTAV secondo il Numa sono tutte d’ispirazione anarchica.

Nell’articolo sostiene che si ispirano al pensiero-azione di Alfredo Maria Bonanno, 72 anni, attualmente agli arresti in Grecia per rapina. Urza, per esempio, sostiene che non c’è nessun legame. Ma bisogna ringraziare Numa per la segnalazione perché sembra un personaggio tutto da conoscere. È l’autore de La gioia armata, 1977, libro che gli costò 18 mesi di carcere (l’incipit suona: “Ma perché questi benedetti ragazzi sparano alle gambe di Montanelli? Non sarebbe stato meglio sparargli in bocca?…”, vedi il testo integrale qui), come si dice su wikipedia; su anarcopedia c’è un profilo più esaustivo e interessante.

Colpiti da provvedimenti sono in 7 (vedi anche qui):

3 sono gli arrestati:

  1. Fabio Milan, ing., 32 anni
  2. Andrea Ventrella, magazziniere, 36
  3. Luca Ghezzi, 30

3 sono agli arresti domiciliari (i particolari sulle altre condanne oltre agli arresti li trovo qui, in un articolo dedicato ad Andrea Ventrella, e sul Giornale):

  1. Maja Cecur, 33 anni, compagna di Luca Ghezzi,
  2. Paolo Milan, fratello di Fabio, 27, dottorando
  3. Marco Da Ros, pavese residente a Torino, sociologo, 36

1 è stato colpito da divieto di dimora: Massimo Aghemo, 41 anni, di Trofarello, residente a Torino.

Oltre a questi 21 sono gl’indagati, e altri anarchici della provincia di Torino (Carmagnola e Moncalieri), Trento (Rovereto), Cuneo (Vicoforte) e Mantova (Viadana), tra cui Simone Pettenati, 26 anni, ed Erica Giorgi.

Cumulativamente si è proceduto contro una serie di iniziative tipicamente anarcoinsurrezionaliste degli ultimi anni (2005-’10), tra cui notevoli:

giugno 2008. Irruzione al Museo Egizio;

dicembre 2008. Irruzione nel Consolato greco di Torino

marzo 2009. Irruzione nella lavanderia “La nuova” di Torino

marzo 2009. Irruzione al ristorante “Il cambio”

settembre 2009. Irruzione nella sede della Cgil

Il linkato articolo del Giornale, di Simona Lorenzetti, è notevole perché riporta in sunto parti di conversazioni telefoniche intercettate, tratte dall’ordinanza della Gip Emanuela Gai, nella quale si attribuiscono responsabilità precise degli anarchici nelle rivolte all’interno dei CPT, poi CIE (cioè Centro Permanenza Temporanea, poi, più brutalmente, Centro Identificazione ed Espulsione; a Torino è il cosiddetto lager di c.so Brunelleschi); ricorrono i nomi dell’allora detenuto Bikiki, dell’attualmente arrestato Andrea Ventrella e dell’attuale esule Massimo Aghemo:

A scandire questo connubio le intercettazioni telefoniche. In una conversazione del luglio 2009 Andrea Ventrella parla con un tale Bikiki che dice di avere dei numeri di telefono di alcuni extracomunitari arrestati a Sanremo che ora sono al Cie. Quindi Bikiki chiede a Ventrella se la legge sia passata, riferendosi al pacchetto sicurezza che aumenta il periodo di detenzione all’interno del Cie. Andrea Ventrella conferma e dice che entrerà in vigore entro due settimane e varrà anche per chi è già dentro. Bikiki gli chiede allora come mai la volta prima fosse stata bloccata e Ventrella risponde: «Perché l’altra volta dentro avete fatto talmente tanto casino, soprattutto a Milano, a Torino e a Bologna, che hanno avuto paura e l’hanno tolta; adesso bisogna ricominciare a fare casino e la taglieranno». In un’altra intercettazione vengono registrati Massimo Aghemo e un extracomunitario ospite del Cie. L’uomo dice ad Aghemo: «Abbiamo ricevuto le lettere, abbiamo messo tutti d’accordo, da domani sciopero, non mangia più nessuno… siamo 90 persone, adesso buttiamo i materassi fuori da dove dormiamo, buttiamo tutto fuori, vogliamo accendere un fuoco. C’è casino adesso». Aghemo risponde: «Buono, buono», quindi chiede se hanno già appiccato il fuoco e l’uomo risponde di sì.

L’accusa più pesante è quella di associazione per delinquere, ma i capi d’imputazione sono un’ottantina.

Negli articoli di Numa i nomi di Fabio Milan (il cui esordio sulla Stampa risale al 1995, per aver preso 10 in matematica, informatica e fisica al liceo Scientifico) e Andrea Ventrella ricorrono più di altri. Anche Ventrella esordisce sulla Stampa nel 1995, ma già per scontri tra polizia e anarchici, quando subisce la prima condanna: ha 20 anni. E nell’articolo ricorre anche il nome di Edoardo “Edo” Massari, che morirà inspiegabilmente suicida alle Vallette (28 03 1998) seguìto dopo pochi mesi (11 07) dalla compagna Maria Soledad Rosas ai domiciliari presso una comunità di Bene Vagienna: sono “Sole” e “Baleno”, rimasti da allora sempre nei ricordi degli anarchici torinesi. Nel 2002 Silvano Pelissero, arrestato con loro con le stesse accuse di ecoterrorismo e associazione sovversiva, processato, ebbe stralciata questa seconda accusa, che sarebbe caduta anche per gli altri due. Con l’accusa di associazione sovversiva si prevede l’isolamento; si è detto, all’epoca, che l’isolamento fosse la prima casa del doppio suicidio di Edo & Sole. Attualmente (Stampa di oggi 25 02 2010, riquadro di R[aphael] Zan[otti], un altro buono, dentro l’articolo dell’immancabile Massimo Numa) i tre arrestati, Milan, Ghezzi e Ventrella, sono in isolamento, e sono ritornati alle loro celle valendosi della facoltà di non rispondere. Il loro avvocato, Claudio Novaro, che ancóra non li ha sentiti, ha però chiesto che innanzitutto siano tolti dall’isolamento, che definisce

“una condizione che mi stupisce, viene data di rado, e non in questi casi, di solito”.

La risposta del pm Padalino di fare regolare istanza è stata definita dal Novaro

“una risposta che non promette nulla di buono”.

L’articolo del Numa si concentra però su Radio Blackout, e questa è una novità interessante. Essa è, secondo il Numa,

“considerata dagli inquirenti uno dei centri direzionali del gruppo degli estremisti”.

Chiaramente i redattori della Radio, anarchici, hanno dato il rilievo che ritenevano alle varie iniziative degli anarchici. Tre cose hanno fatto saltare la mosca al naso degl’inquirenti:

  1. Il servizio ‘viaggiare informati’ anarchico, il “Cisti”, che funzionava grazie alla segnalazione tramite sms dei posti di blocco e di concentrazioni di poliziotti.
  2. Le dirette dai varî presidj. A questo proposito, nel maggio 2008 un “redattore di BlackOut” aveva annunciato che “in mattinata un poliziotto aveva sottoposto un immigrato a un pestaggio, poi lo aveva riempito di botte” [?] “e ammanettato” (nell’articolo la frase è tra virgolette). Secondo il Numa niente del genere era accaduto. (È un’ammissione implicita che tutte le altre eventuali segnalazioni di pestaggj e ammanettamenti sono da considerarsi vere?).
  3. “L’attacco continuo contro la Croce Rossa”. L’08 09 2009 Ventrella, la Cecur, F. & P. Milan, Luca Abbà (del NoTAV valsusino) e Simone Pettinati (altrove Pettenati, v. supra; ferito negli scontri a Susa) hanno fatto irruzione nella sede della Croce Rossa di Torino: “Volevano costringere i militi” (anche qui il Numa cita) “a un’assemblea sulle atrocità del Cie”.

Di fatto il punto 2 e il punto 3 sono strettamente connessi. La rabbia anarchica contro la Croce Rossa deriva molto semplicemente dal fatto che è questa che si occupa di contenere i senzadocumento all’interno dei CIE. La questione del pestaggio che secondo il Numa e/o chi per esso non è mai avvenuto risale alla fine del maggio 2008, e riguarda il detenuto Said, che aveva tentato di fuggire dal cpt ed era stato riacciuffato. Il Numa si limita a dire che il pestaggio di Said non è mai avvenuto; e tace di quello che è successo qualche ora dopo, e cioè che il maghrebino Fathi Hassan Nejl, 38 anni, còlto da malore, dopo aver inutilmente cercato, direttamente e tramite compagni, di attirare tra le urla l’attenzione degli operatori, era morto – di qualcosa che dapprima fu identificato con una polmonite fulminante, e poi con un’overdose (quasi facesse differenza). Responsabile del centro è il col. Antonio Baldacci, che a caldo avrebbe dichiarato ai giornali che non aveva ritenuto di intervenire perché

“sapete che tipo di persone sono. Non si sa neppure quale sia la loro vera identità”.

La Repubblica ha riportato altre dichiarazioni del colonnello, non così esplicite ma pesantemente ambigue:

“Non ci sono state negligenze, non c’è stata alcuna mancanza. Gli ospiti sono clandestini abituati a dire bugie. Mentono sulla data di nascita, sulla nazionalità, sul nome. Per loro è facile non dire la verità. Non vedo allora perché si debba credere a delle storie sui mancati soccorsi. Quelli vogliono solo creare caos”.

Gli anarchici avevano messo a disposizione del pubblico, in rete e tramite manifestini attacchinati un po’ ovunque, l’indirizzo di casa del colonnello, il numero fisso e il cellulare con queste conseguenze.

Uno dei motivi degli arresti di questo 23 02 è stato il blitz durante il quale, il 21 03 2009, alcuni anarchici sommersero di merda il ristorante di lusso “del Cambio”, sito in p.zza Carignano, di fianco all’omonimo teatro, di faccia all’omonimo palazzo. Questa volta il Numa non fu il solo a imbrattare il suo angolo di Stampa sull’accaduto, ci pensò anche altri (come da link); vale la pena di essere citata, per la prosa particolarmente agghiacciante, l’ineffabile Monica Perosino (“Il sole e l’indolenza della prima domenica di primavera. Occhiali scuri, gelati, cani che corrono sui ritagli verdi del centro. Eppure, basta scavare pochi centimetri sotto l’ozio, per trovare tutt’altro…” – scavare pochi centimetri sotto l’ozio? Occhiali scuri e gelati che corrono, per giunta sui ritaglî verdi del centro?! E poi ci si stupisce che la gente lancia i boli di cacca) che ha raccolto qualche impressione post-traumatica.

L’articolo che il Numa dedica a Fabio Milan segnalato alla procura per danneggiamento identifica l’ingegnere come “leader carismatico dell’ala dura del piccolo gruppo anarchico”, che è una contraddizione in termini, trattandosi – appunto – di anarchici, per giunta se si tratta di un gruppo di anarchici che ha scelto la non-organizzazione pur di non avere capi (v. supra circa lo scioglimento); segue un livido curriculum del brillante professore supplente del Politecnico, comprese alcune pubblicazioni che recano la sua firma. Incredulità e invidia nera. Raccoglie, il Numa, anche una dichiarazione che sembra da morto:

La prof. Michela Meo, che fu la sua «advisor» al Poli, lo ricorda con un certo affetto: «Uno studente dalle grandi capacità, estremamente bravo e preparato. Un’ottima persona, con cui si parlava volentieri. Ma, fatto strano, l’abbiamo perso di vista. Da tempo non sappiamo più nulla di lui. Avevamo saputo dopo, un gossip, che frequentava gli anarchici».

In quell’occasione, il Numa cerca anche di ottenere una dichiarazione dal preside, che giustamente dice di non essere interessato alle idee politiche di F. Milan; dalla risposta si capisce che il Numa non ha chiesto un’opinione sulle eventuali responsabilità penali dello stesso, ma proprio sulle idee politiche – quasi un docente non fosse libero di avere le idee politiche che vuole; quasi che le gerarchie accademiche fossero tenute a saperne alcunché e, magari, ad agire di conseguenza. A F. Milan dovrebbe essere anche attribuita la responsabilità dell’organizzazione dei tornei di calcetto contro gli alpini a P.ta Pila, del lancio delle biglie gialle dentro il CIE con dentro messaggj di solidarietà, delle incursioni nella lavanderia di via Santhià che lava i panni del CIE, delle incursioni della cooperativa che avrebbe cominciato a lavare i panni del CIE dopo che la prefata lavanderia avrebbe smesso di farlo.

I 15 anarchici che nel febbrajo 2008 bloccano i bus diretti a Varese per una manifestazione nazionale della Lega sono definiti responsabili di un’azione criminale.

I due nomi, di Fabio Milan e Andrea Ventrella, sono identificati dal Numa come “guide” degli “estremisti” nell’articolo di jeri 24 02 di riepilogo degli ultimi fatti.

&cetera. Non ci sarebbe motivo di dare rilievo agli articoli del Numa se, scrivendo lo stesso sulla Stampa, non fosse il principale interfaccia tra anarco-insurrezionalisti e opinione pubblica, locale e nazionale.

Qui l’articolo dedicato alle scritte contro Luigi Calabresi sulle mura delle sedi della Stampa e del Partito Democratico, altra incriminazione per Fabio Milan, oltreché per il fratello Paolo. Il figlio del commissario Luigi Calabresi, ucciso (1972) da anarchici per vendicare la defenestrazione di Pinelli (1969), Mario Calabresi, autore di un volume apologetico nei confronti della figura del padre (Spingendo la notte un po’ più in là, Milano 2007), è l’attuale direttore della Stampa, e dunque anche di Massimo Numa. [Recentemente sul sito letterario Nazione Indiana qualcuno si scandalizzava per l’ospitalità data ai delirj fascisti del povero scemo di guerra Piero Buscaroli sulle pagine culturali dello stesso giornale (“Tuttolibri” 06 02 2010), uno dei diversi segni d’involuzione politica – e non solo – del giornale da qualche tempo in qua].

___________

[1] “Iuno era fuor di sé di essersi lasciata cogliere in trappola così scioccamnte e senza nessuna resistenza presagedo che ora passerebbe dei brutti momenti per il prossimo avvenire, fino a quando non riuscirebbe di fuggire. | Poiché il colono era uno dei cosiddetti squatter (vale a dire colono senza averne il diritto, che si stabiliscono in qualche contrada deserta e coltivano terra, che loro non appartiene) e che sono arcicontenti di procurarsi operai a buon mercato in un modo o nell’altro, lecito o illecito. | La negra gli veniva proprio a proposito…”. Ennio Foscari, La reietta. Grandioso romanzo storico, cap. CCCXXI, [1900 ca.], n.t., III vol., pp. 2310-2311. L’azione si svolge negli anni ’90 del XIX secolo negli USA.

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522. PP su Sillabarj di Parise.

9 Feb

http://www.youtube.com/watch?v=gJjaHvu96MM

Sbobinatura più d’altre auspicabile, forse, per lo stesso motivo per cui è stata difficile da fare; PP in questo caso è stato ripreso dalla platea con un telefonino, evidentemente, e l’audio è distante e non molto perspicuo. Sicché qualcosa, ma prevalentemente delle parole dell’intervistatrice, Silvia Bernardi, giornalista de “L’Arena” di Verona, mi è sfuggito. Peraltro sono impossibilitato, qui, ad ascoltare a tutto volume, e questo potrebbe aver avuto il suo peso: se qualcuno, comodamente connesso da casa, riesce ad afferrare meglio di me, buon per lui. L’intervista è interessante per il ricordo di Parise e di Pasolini, i “due professorini” che venivano dal Veneto; ma anche e soprattutto per il giudizio spiritosamente sprezzante dato al lavoro di Giovanni Pennacci, confezionatore di un libro-intervista che è poi l’ultima biografia, di pochissime, di PP, Siamo tutte delle gran bugiarde, Giulio Perrone editore, Roma 2009. Sicuramente PP meritava di più e di meglio; ovviamente datato, il miglior lavoro di qualche respiro dedicatogli rimane il libro di Rodolfo Di Giammarco, Gremese, Roma 1985. Come già per gli altri video, salvo il primo, ho la solita difficoltà a postare sul blog la finestrella di youtube, e quindi lascio il nudo indirizzo.

PP: Io ho conosciuto Goffredo Parise, era di Vicenza e che… aveva più di me… due o tre anni, sarebbe ora ottantacinquenne… L’ho conosciuto a Roma quando stavo in casa da Laura Betti con la quale si faceva una canzone televisiva, “La ballata del pover’uomo”, gnè gnè gnè. Era un romanzo a puntate – tredici puntate – e tredici volte si cantava quelle due o tre canzoncine, con la musica di Fiorenzo Carpi, e.. cambiavano le parole, e così..

Silvia Bernardi: E quindi lì ha conosciuto…

PP: E lì c’eran questi due professorini che venivano dal Veneto, Pasolini e Parise, che il giorno insegnavano nei licei cittadini e poi la sera tornavano nelle loro periferie, dove costava meno l’affitto di una stanza, e venivano a mangiare dalla Laura che faceva dei risotti bonissimi… e allora Parise non parlava mai. Però c’era un mistero nel suo silenzio. Lui a Roma – mentre l’altro scoprì questi ragazzi di vita, perché sai… lui era completo, Pasolini: amava quello che faceva. I film magari non sono belli come quelli di Lubisch o di Dreyer o di Kubrick, però si sente che son fatti con un lungo studio e un grande amore. Per fare qualcosa nella vita non si può fare così tanto per fare: ci vole un sentimento, insieme alla ricognizione mentale, ci vole anche un’adesione, un’adesione… affettiva. Io penso di sì – allora, invece, Parise scoprì la semplicità. Lui raccontava l’episodio di una bambina che ci aveva in mano un quadernetto che si apriva e c’era detto: L’erba è verde. E lui capì che quello era il segreto, di riscoprire di nuovo il racconto. E questi raccontini, che lui pubblicò sul “Corriere della sera”, si sperdevano un po’, perché sai, con le notizie che succedevano in quel momento, dal… ti dico, dal ’37 al ’57, ‘somma… ne successe di tutti i colori. Allora… quando lui ha riempito il volume, ha avuto i complimenti di Garboli, di Italo Calvino… tutte persone che avevano la penna in mano. Era… fisicamente bellino – certo Pasolini, con quella faccia segnata… non era bello, ma faceva venir duro, soprattutto alle donne, pazze, che s’innamoravano di lui col cervello, che dura di più…

Silvia Bernardi: Lei invece in scena da solo. Nel senso, fa †tutto a meno † di compagnie, di registi, di attori…

PP: No, non è vero, sempre dei collaboratori… be’, soprattutto le donne, io passo per misogino, invece ho avuto chi m’ha ajutato a scrivere, chi m’ha ajutato a fare i movimenti, e chi fa i vestiti e chi fa la musica, ‘somma…

Silvia Bernardi: C’è una squadra che lavora dietro, però poi alla fin fine…

PP: Eh, certo.

Silvia Bernardi: Sul palco…

PP: Sul palco eccomi qui, perché quegli altri so’ andati al cinema!

Silvia Bernardi: […] la passione per il travestimento, per…

PP: Mah, che vuoi, travestimento, sai, quando io ero un bambino erano tutti travestiti, io ci avevo… “balilla alpino”: avevo una corda che non si poteva disfare perché era finta, un salsicciotto di corda, un fucile che non sparava, tutto finto. Puoi fare la sfilata… sicché era come a carnevale oggi, era tutto così. Per fortuna siccome il mio babbo era carabiniere, non ci aveva la tessera fascista, e io non andavo mai alle sfilate, andavo al cinema. E io da bambino ho visto ancóra prima della seconda guerra mondiale tutti i film francesi, Katia regina senza corona, Danielle Tardieu in mutande, quel film francese ancóra un po’ osé prima che da noi… Clara Calamai che faceva i pirati di Sandokan, quelle robe lì, doveva stare nell’acqua con le onde sopra i capezzoli, perché il capezzolo non si poteva vedere. Eh, ma com’era bella, dio mio! Era la figlia del capostazione di Prato, e la mia mamma insegnava a Prato e allora io sono andato una volta con la mia mamma e c’eran quelle stazioncine che sui vasini di fiori scrivevan la data, sai, e c’era scritto 12 dicembre.. oggi è l’11?

Dal pubblico: E’ il dieci.

PP: Eh?

Dal pubblico: Il dieci. Oggi è il dieci.

PP: Dieci. Sì! E alzo gli occhî e sopra c’era l’appartamento del capostazione, e c’era lei, bella, viso da madonna, proprio come diceva Moravia quando intervistava le belle, dice: “Signorina, quanto ha di collo? Quanto ha di polsi?”. Perché è inutile fargli parlare – che gli chiedi a Claudia Cardinale, cosa ne pensa di Dante Alighieri? Meglio chiedergli le misure! E faceva come Policleto con le statue. Policleto è quello che ha scritto il… dice: le mani devono essere la metà della testa, la testa la quarta parte del torace: le misure della bellezza.

Silvia Bernardi: Non sono rimaste invariate nel tempo…

PP: No, tu non avresti… tu saresti bocciata! – La gente si ricorda il vero amore legandolo al motivo di una canzonetta, ecco perché io metto sempre le canzonette in mezzo la prosa. Con la loro sciatta letteratura, ricordano un periodo storico. Non c’è persona, per quanto modesta o poco… sentimentale che non ricordi un motivo… “Parlami d’amore Mariù…”. Dice: “Andavo con lei in quel bar, che ora non c’è più, a bere…” – ora non lo fanno più, il barolo chinato, eh, per dire. Anche l’uomo della strada meno preparato qualche motivetto l’ha sentito. E son quei motivi che ricordano un periodo storico, allora invece di fare la conferenza, che rompe i hoglioni, metto un motivetto, però cercando di mettere insieme delle canzoni che ricreino un quadro storico. Per esempio ora per la Spagna ho messo Cielito lindo che vuol dire “O mio bel cielo” – il cielo da cui sono cadute le bombe tedesche di Guernica: quindi, bello, ‘sto cielo, ma vengono anche giù le pillole, eh, per dire…

Silvia Bernardi: Lei non è solo a teatro ma è anche nelle librerie con la biografia Siamo tutte delle gran bugiarde…

PP: Macché, un orrore, scritto da una povera checca periferica! Sono rimasto in… in, in Umbria, a Foligno, e viene questo qui, un quarantenne coi capelli già bianchi… Dico: ma che fai di lavoro?

Silvia Bernardi: Giovanni Pannacci, vero?

PP: Sì, sì.

Silvia Bernardi: Diciamolo…

PP: “Insegno italiano agli arabi” – quindi affamato… Sicché ho fatto un’intervista di du’ ore, e ci ha fatto il libro. Gli ho dato un po’ di fotografie e gli ho raccontato un po’ di cazzate, e via. Ma che vvoi? E lui, emozione!, quando sono entrato in un negozio e ho comprato le ciglia finte… sta a vedere!

Silvia Bernardi: Allora, nel libro ci sarà un errore, però c’è una bella frase, me la son segnata…

PP: Dimmi, dimmi…

Silvia Bernardi: … di Natalia Ginzburg, che dice di lei: “Tra i suoi volti nascosti c’è quello di un soave, beneducato genio del male: è un lupo in pelli di agnello, e nelle sue farse sono parodiati insieme gli agnelli e i lupi”. È una definizione […]…

PP: Carina! Lei era buona. Quando mi bruciò il teatro, venne… tutte le volte che veniva a teatro mi comprava dodici poltrone, e mi portava un cesto con panettoni, come regalo di natale: carina. Perché io le telefonai, nel ’47-’48, chiedendole il permesso di portare in scena Le piccole virtù. Lei aveva fatto un libriccino che mi commosse tanto, dice: ai nostri figlî s’insegna tutte le piccole virtù: il risparmio, la prudenza… No! Nessuno insegna mai l’amore, di buttarsi nella vita…

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Tag:paolo poli

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514. PP al Teatro della Pergola.

26 Gen



ENTE TEATRALE ITALIANO PERGOLA STAGIONE TEATRALE ’06-’07

Intervistatore: Tra i molti modi di raccontare la realtà il giornalismo è sicuramente uno dei più pungenti, e molto più pungente è il giornalismo fatto dalle donne. Paolo Poli ne sceglie sei, sei giornaliste del Novecento, sei penne nobili che gli servono anche per raccontare, non solo con la parola, ma anche con la musica e le canzoni, la storia dell’evoluzione dell’Italia.

[♫ “Gira rigira biondina / l’amore la vita godere ci fa…”]

[♫ “Quella piccola e bizzarra vagabonda a notte ancor…”]

Intervistatore: Perché le giornaliste, perché proprio le giornaliste?

PP: Il perché non si domanda agli artisti, gli artisti raccontano il come, il perché si chiede al filosofo. Oggi uno che sa fare appena la sua firma invece che farlo giornalista, lo fanno… eh come si dice? – opinionista televisivo, o che. Io ho sempre molto amato la letteratura delle donne, quelle poche donne che potevano emergere dalla, così, la fanghiglia della scrittura. Le giornaliste sono state molto brillanti e tempiste. Ma anche le romanziere; ma anche le poetesse. Io ne ho conosciute molte perché ormai battono gli ottant’anni, sicché, eh, posso raccontare. Ma… di tutte quelle signore delle quali racconto la letteratura, la prima, la più gradita, è quella che non ho conosciuto perché è degli anni Venti, e io non c’ero ancóra: Mura, era il suo nome di battaglia. A volte un po’ strafalciona, lei scriveva: ma non importa, lei sapeva che nell’Europa girava la notizia che c’erano le Fanciulle in fiore di Proust, e sùbito nel ’19 ha scritto un romanzo sulle lesbiche – allora lì ho detratto sùbito un mio monologo, perché se c’è una ragazza cogli ormoni giusti per far la lesbica, son proprio io!

[“Signora Celeste! Signora Celeste! ”]

[“Strappandomi lentamente di sulle spalle la seta rossa…]

[♫ “Scusi, avrebbe un salatino”]

Intervistatore: Sei brillanti giornaliste del Novecento di Paolo Poli sarà alla Pergola fino al 4 febbrajo. La prossima settimana un cambiamento di programma: per difficoltà tecniche lo spettacolo Gallina vecchia con Marina Malfatti non avrà luogo, sarà spostato alla fine della stagione, nel mese di aprile. Ma il teatro della Pergola non si ferma: il 6, il 7 febbrajo, spazio a In sua movenza è fermo: le visite guidate, accompagnate anche dal contributo di attori, ai luoghi storici e nascosti del teatro della Pergola. Tutti i dettaglj sul sito: www.pergola.firenze.it.


[Prossimo spettacolo
6-7 febbraio
“In sua movenza è fermo”
con la Compagnia
delle Seggiole]
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Tag:firenze, paolo poli, sei brillanti, teatro della pergola

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507. Ottant’anni da regina.

20 Gen



[Sigla: “Fiocca, la neve fiocca”]

Magazine 2

programma di

Antonello Agliotti


Paolo Poli 80 anni da Regina


AA: Come sei carino.

PP: Euh, un amore, è dalle sei del mattino che sono in viaggio.

AA: Oh che bella questa scultura. Di che cos’è?

PP: Legno.

AA: Ah, questo è legno.

PP: Collo sgorbio, fatto.

AA: Ci fai vedere la tua bella casa, scusa, ci illustri…

PP: Ah, non è tanto mia perché io vivo negli alberghi.

AA: Evabbè, ma questa, intanto…

[Vista dalla finestra]

PP: Qui di fronte ci sono i frati, che ora non ci sono più.

AA: Ah.

PP: Sennò vedrebbero delle meraviglie, eh.

AA: Anche tu vedevi magari delle meraviglie.

PP: No, non son più i tempi in cui il santo, Filippo Neri, andava in Campo de’ Fiori, c’era lì il rogo pronto, si pigliava con tutti i bambini dell’oratorio il prigioniero, lo portava dentro, e diventava frate – e quindi personaggî interessanti…

AA: Sì.

PP: Non eran quelle monachine raffreddate, capisci..

AA: Quindi da qui non hai mai visto niente, che peccato.

PP: Che peccato.

AA: Che una delle cose più belle, è quella, mi sa.

PP: Forse, da vecchî specialmente…

AA: Sì

PP: … come Tanizaki c’insegna, piace più occhiolare che fare…

AA: Eh, beh, sì.

PP: … anche perché fare si fa un po’ meno.

AA: Che fatìca, poi.

PP: Che… sì, che fatìca.

AA: Ma come si fa?

PP: Invece raccontarselo…

AA: Sì

PP: … è più facile.

AA: Sì, e poi si risolve da soli.

PP: Sì. Vedi, anche Moravia…

AA: Sì.

PP: … quando ha scritto il libro…

AA: Sì.

PP: Io e lui, è perché lui stava molto più tranquillo, e lasciava tempo alla scrittura…

AA: Quindi il tuo letto è un letto… da suora, si può dire?

PP: Sì, sì!

AA: … Monacale?

PP: Beh, insomma… perché, le suore, ci sono anche quelle sveglie…

[Wanda Osiris, “Sentimental”].

…quella di Monza…

AA: Vabbe’ allora questo che vuol dire? Che…

PP: Vuol dire che ancóra…

AA: … che ancóra non abbiamo perso i cosi.

PP: Sì, ancóra…

AA: Sempre Luzzati, qui… Poi da qua dove ci porti?

PP: Mah, c’è la cucina.

[Immagini della casa di PP].

AA: Ma che bella casa! Sai che io adorerei avere una casa così… piccola…

PP: Tu non ci hai casa a Roma?

AA: No, sto in albergo, ce l’avevo in via dei Prefetti, era bellissima, poi mi son messo… non bisogna mai mettersi con le donne.

PP: A me me lo spieghi?

AA: M’ha fatto…

PP: Tu taci perché hai dei passati …

AA: M’ha fatto…

PP: … nascosti…

AA: Pazzeschi!

PP: Olghina?

AA: No, un’altra.

PP: Un’altra, dopo

AA: Mi ha fatto lasciare la casa di Roma; sono andato a Milano, e adesso mi tocca stare in albergo. Ma cambiamo discorso, va… Allora, raccontaci, che santo è?

PP: Quello è san Luigino Gonzaga, perché le famiglie importanti quando non avevano un papa almeno dovevano avere un santo…

AA: E sopra, invece?

PP: Questa è una bambolina che m’ha fatto Isa Miranda quand’era moribonda…

AA: Uuh!

PP: … pover’amore…

AA: Te l’ha fatta apposta?

PP: Sì… era ridotta malamente, in miseria

AA: Ah, quello lì…?

PP: La mia mamma, e quella è la mia sorella Lucia… Vedi che mi somiglia un po’ con quella fronte così bombata, a bauletto…

AA: Ma sai che ho visto Lucia, che era bellissima…

PP: Sì, sì, ha avuto i suoi momenti buoni, come tutti, eh.

AA: E dei ragazzi della mia troupe che te ne pare?

PP: Che la più bella del reame è quella cogli occhiali!

AA: A te piace quella?

PP: … No… ma per dire… ma tremendo, sai!… non si può fare, poi taglî tutto… questo, la RAI non vuole ‘sti discorsi…

AA: No, ma noi teniamo tutto

PP: Lo volete voi, bambini, un sorso di vischio? No?

AA: No…

PP: Vedi, non parlano.

[I cameramen]

AA [ride]: I cameramen sono terrorizzati, questi pensano che poi chissà che gli facciamo? [ride]

PP: Ma non è finita qui. Ci ho anche altre due stanze.

AA: andiamo a vedere le altre due stanze…

[La casa]

AA: Ah, c’è un’altra camera da ospite! E dimmelo, che vengo a star da te, scusa, eh.

PP: Per carità, ma io non ti voglio. Chi ti ha detto che ti… Tu credi di essere dovunque bene accetto.

[Altre immagini della casa. Dalla finestra]

PP: La cupola è quella della chiesa nuova

[Bambole]

E qui ciò un po’ di bambole un po’ di robe…

AA: Belle, ‘ste bambole.

PP: Eh, be’.

AA: Che cosa strana.

PP: Dimmi.

AA: Tua sorella ha una casa praticamente da uomo.

[Lucia Poli]

PP: È più virile di me, lei, è sempre stata… ha un animo virile. Ama inventare le robe, scegliere, decidere…

[Immagini della casa di PP]

AA: Hai fatto anche Caterina de’ Medici?

PP: Sì.

AA: Era quella che ammazzava tutti uno dopo l’altro?

[Film]

PP: No, solo una notte, la Notte di san Bartolomeo…

AA: Sì.

PP: … lei ammazzò gli Ugonotti…

AA: Poi Rita da Cascia, anche, hai fatto…

[Rita da Cascia]

PP: Sì.

AA: Cos’è che ti piaceva tanto di santa Rita?

PP: Che ha avuto…

AA: … Perché lei non…

PP: … una vita avventurosa.

AA: Perché lei prima…

PP: Perché prima era una fanciulla e allora aveva i varî corteggiatori… e poi i figlî, che erano cattivi… e allora lei prega il Signore di prenderli… difatti arriva una folgore divina – vrrrum, i figlioli vengono ammazzati…

[Folgore]

AA: Ah che sandali belli che hai!

PP: Sì, è da frate.

AA: Eh, però tu stai fresco.

PP: Beh… “stai fresco”!…

AA: Ce n’hai un pajo per me?

PP: No, non ci ho nulla.

AA: Quanto ci hai di piede?

PP: Ma com’è… entrante, questo ragazzo!

AA: Libri, libri, libri…

PP: Mah, tutti sudiciume: un pacco, bum, butto là, e lì rimane.

AA: E qui c’è un altro letto… eh, questa casa è piena di letti, non me la conti giusta. Beh, un bicchiere d’acqua ce l’offrirai, almeno, spero, eh.

PP: Se volete…

AA: … perché io ci ho sete. Guarda che bello…

PP: Vieni.

AA: … questo Cristo, anche, qui.

PP: Quello era di mio padre, che era un carabiniere che s’affezionava a Gesù Cristo, un personaggio, insomma, di cui si può sempre dire qualche cosa, in bene e in male.

AA: Andiamo a sederci, dài.

[Foto]

PP: Sì.

AA: Ma quante fotografie! Vedo qui anche Fellini…

PP: Era una persona dolce e carina, nella pratica quotidiana, non faceva la sceneggiata come tanti mediocri…

AA: Sì, no, quello era un grande, era un grande…

PP: Sì.

AA: Poi Moravia, perché eri amico anche di Moravia…

PP: Sì, perché quando da ultimo lo lasciavan solo, andavo a fargli compagnia.

AA: Ma va, che tipo era?

PP: Eh… Carino, si stava dalla finestra del balcone a vedere le battone che portavano i clienti nel margine del fiume… Sicché: “Poverina, guarda che mostro!” – lui era sempre dalla parte della donna.

AA: Senti, questo signore qua invece chi è?

PP: È Blasetti. Ci ho fatto un piccolo film. È stato l’uomo più straordinario del cinema italiano.

[Film di Blasetti].

Era fascista, ma faceva dei film russi. Insomma, i vecchî film… La cena delle beffe…

[Altre immagini Blasetti]

AA: Questa è tua sorella… a seno nudo?!

PP: No, mia sorella quando c’è il bambino dentro, capìto?

AA: Bella, bella questa foto.

PP: Lei non aveva mai le poppe, come me, siamo molto liscî,

[Lucia Poli]

ma quando aveva il bambino, ecco, le sono venute, così, per l’allattamento…

AA: Qua ci sono delle grandi sorprese. Poi questo, Visconti?

PP: Aveva quel che di sospettoso, del nord…

AA: E questa signora?

PP: La Jole Silvani…

AA: Chi è?

PP: … non so se l’hai conosciuta…

AA: No, no, ma sai che cosa mi ricorda, questa foto qui? Un’epoca che non c’è più.

PP: Io la vidi al Teatro Carcano di Milano che faceva: “Figa di qua, figa di là, figa di sù, figa di giù”,

[Immagini del varietà]

e il pubblico andava matto, tutti i militari ridevano… e io ho capìto che questa aveva quello che Garcia Lorca chiamava il flamenco… Era una donna spiritosissima.

AA: Senti, Paolo, che differenza c’è secondo te

[Attori “di allora”]

tra gli attori di oggi e quelli di allora?

PP: Che ci avevano una personalità, perché avevano fatto un lungo apprendistato. Avevano fatto tante forme di spettacolo. Quelli di oggi li frequento molto meno, io, che mi ricordi…

AA: Li vedrai, ogni tanto.

PP: Ma io non faccio molto parte di una categoria, non sono un rappresentante sindacale [ride]

AA: E poi so che ti piace anche stare per i fatti tuoi.

PP: Mi piace stare molto per conto mio. Sono stato due volte sull’orlo del matrimonio, perché quando ero giovane ho anche avuto delle fidanzate femmine: “Caro, guarda, ti ho fatto il sughetto col”… no, non è roba per me, e così le donne, sì, le ho frequentate, ma poi gli ho detto, a quella mia fidanzata di Firenze, Guarda, sistèmati, figliola, perché io non ritorno: vado, arrivederci e grazie… E dove andrà? Verso Roma farà viaggio Aligi, n’andrà dove si va per tutte strade, con la sua mandra, verso Roma grande… Questa è la Figlia di Jorio.

[Via Laurina]

AA: Questa è via Laurina.

PP: Eccola.

AA: Ah, è arrivata, dov’è?

PP: Ciao.

AA: Ciao.

LP: Ciao!

AA: Come stai?

PP: Dài, andiamo a vedere.

LP: Ah, l’Agnese Di Donato, che cosa sai, visto che sai tutto…?

AA: L’Agnese ha fatto, quando scriveva per il Paese Sera, una serie d’interviste dove ci sei anche tu, e adesso ha fatto un piccolo libro…

LP: Me l’ha detto, m’ha detto: guarda – fa – tu ti ricorderai…

[Alla Feltrinelli, presentazione del libro di Agnese Di Donato]

PP: Con permesso. Come va, cara? Bene? Bene…

LP: Buonasera.

PP: Buonasera, con permesso.

[Giardino]

AA: Ve la sentite di sedervi su questi due sassi?

PP: Volentieri.

LP: Io moltissimo

PP: “Questo non c’entra”, come disse sedendosi sull’obelisco la povera Cleopatra…

LP: Eccola! Ciao, Agnese!

AA: Tu Agnese te la ricordi?

PP: Sì, ma io non mi alzo perché sono anziano.

Agnese Di Donato: Quanto tempo che non ti vedo…

PP [si baciano]: e-mpciù, e-mpciù.

[Dentro]

PP [ad Inge Feltrinelli]: Come va, bella?

AA [a Barbara Alberti]: Vieni, approfittiamo un attimo…

[?]: Anche questo un altro grande artista, un grande […]

[?]: Piacere.

Barbara Alberti: Cara Agnese, ciao.

AA: Allora vi conoscete…

Barbara Alberti: … Anch’io […] oh ma io sono […].

PP: Barbara Alberti…

LP: Ciao.

PP: Allora io mi siedo, sono vecchio, e basta. [saluta e bacia un amico] Come stai?

[Presentazione].

LP: Io non l’ho più vista, Agnese, è sparita, per me, però è come la ricordo perché all'”Alberico” lei era una specie di principessa, perché noi eravamo tutti colle pezze al culo, poverissimi, stracciati… — arrivava lei con delle grandi palandrane anni Settanta, e me la ricordo benissimo perché era elegante, e bella, magica, e scattava le fotografie – noi allora non avevamo nessuno che ci seguiva, eravamo un po’ orfani…

PP: Io non ci sono nel libro…

ADD: Mi sta rifiutando?

PP: No, io sono vecchio, mi dispiace, e dimentico in fretta. Io non mi ricordo, scusate. Non sono molto felice delle interviste, delle fotografie, non m’importa. Non m’avete mai incontrato nei salotti frufrù. Mi piace stare per conto mio e mi piace sta’ così, saltare il pasto… stasera non cenerò, dalla rabbia [risate]. Ma fa bene, fa bene per la bellezza, sì… è cura di bellezza.

[A casa].

PP: Sai, eravamo meglio da giovani. Poi il tempo ci ha calpestato con i suoi piedi di bronzo…

AA: Però non è vero

[Immagini della presentazione]

che ti piace tanto stare da solo come hai detto prima, eh. Alla presentazione del libro di Agnese mi sembravi molto divertito, eri circondato da gente, da amici…

PP: Mia sorella m’ha detto: Sai, Paolo, bisogna andare là, va bene, sono venuto…

AA: Ma, tornando alla tua giovinezza: hai lasciato Firenze, hai lasciato le fidanzate e sei venuto ad abitare qui…

PP: Poi dal Sessanta al Settanta sono stato a Milano

[Teatro a Milano]

che era la città che ha dato da vivere a tutti i teatranti, e allora io mi son dovuto ritagliare una fisionomia che non prevedesse né Shakespeare né Brecht e quindi facevo delle cose di sopra- e di sottoletteratura: delle curiosità, delle robe che mi sceglievo da me.

AA: E sei stato sùbito vincente: addirittura in coppia con Mina in televisione.

[Con Mina]

AA: A Milano, poi oltre a Giorgio Strehler che era un po’ il boss della situazione teatrale c’erano anche tantissimi altri artisti, tra cui Cobelli…

PP: Ci dicevano: ma perché voi che siete il trio del cabaret, Laura Betti, tu e Cobelli, perché non vi mettete insieme? Dico, ma chi ci tiene insieme? Siamo tutti e tre delle diavole, ognuna per conto suo…

[I Legnanesi]

AA: Senti, poi a Milano c’era anche questo gruppo famoso, tutti travestiti…

PP: Ah i Legnanesi!

AA: E com’erano, bravi?…

PP: Li ho visti solo poche volte perché non capivo…

AA: … pensi che…

PP: “picia il ciar”: e io pensavo: “piscia chiaro” – e invece vuol dire: “accendi la luce”…

AA: Però i milanesi erano pazzi di loro.

PP: Sì, sì, anche Arbasino li… apprezzò molto.

AA: Sì, Arbasino, anche, è stato un tuo grande ammiratore, sostenitore.

PP: È stato gentile, lui però, sai, è uno che cià una penna maravigliosa…

AA: Meravigliosa, sì.

PP: È anche troppo difficile per un pubblico grossolano come c’è ora, però averne, di persone così. I giornalisti sono pessimi scrittori. O sono abituati ancóra al pettegolezzo come all’epoca della Callas che ci aveva quella giornalista amica tanto cattiva… Oh, l’ultimo spettacolo che ho fatto parlava delle giornaliste, ma erano

[Giornaliste famose]

delle persone che avevano un dominio del momento storico, non eran quelle che seguivano l’aneddoto del momento.

AA: Questo vuol dire che tu sei più alla parte delle donne, no?

PP: Sai, perché quelle poche che emergono sono…

AA: Splendide.

PP: … straordinarie. Guarda me!

AA: Però anche tra gli uomini c’è qualcuno in gamba, dài!

PP: Anche gli uomini è la stessa roba. Perché il sesso non è tra le gambe…

AA: E dov’è, secondo te?

PP [s’indica la testa]: È qui…

AA: Ma a proposito di sesso, bello come sei stato chissà quanti amanti hai avuto, eh!

[PP giovane]

PP: Sai, bisogna decidere se passare alla storia come grandi amatrici oppure come grandi regine… Eh, Elisabetta d’Inghilterra non aveva tempo di stare a fare troppe ginnastiche col conte di Essex… Soprattutto faceva delle lunghe nuotate con gli amministratori, eh… E io son stato uno dei primi a fare una commedia tutta in abito femminile, e allora mi ricordo che in quel teatrino periferico nel quale agivo, dice: “Ma è quell’uomo travestito da donna?” – “Sì”, non chiedevano neanche che cosa facevo… E allora la curiosità era di vedere… Dice: ma guarda che caviglie! Sembra proprio una donna vera – quando ancóra c’era Marlene…

[Marlene Dietrich].

… Che non voleva essere fotografata di profilo perché aveva un po’ di pancia, però ti portava via il cuore: stava tutto il giorno…

AA: Sì, certo…

PP: … coi tiranti. E poi in quelle due ore in cui cantava quelle due canzoni, senza voce… Ma sapeva vendere la canzone!…

[Marlene Dietrich: La vie en rose].

PP: La vie en ro-ho-hose… Blahck-mahrket… basta: dava i concetti.

AA: Poi era come la Callas, non ci vedeva. Chi m’ha raccontato…

PP: Sì.

AA: … che è cascata, a un certo punto.

PP: Sì.

AA: All’Espace Cardin è cascata da…

PP: Come no!

AA: … forse nella fossa dell’orchestra?

PP: Ma non importa. Che importa? Anche Charlot, quando ha fatto Luci della ribalta, ha fatto che il comico casca di sotto e finisce con il culo dentro il tamburo. Anche la caduta è come morire in scena… È come la tosse per Molière, che ce l’aveva davvero e l’ha utilizzata nel Malato immaginario. Tutto quello che c’è si adopera, come io ho adoprato la mia effeminatezza, che quando io ero giovane era un grave difetto.

AA: Senti, e però non sei mai uscito per strada vestito da donna? Non hai mai provato…

PP: No, mai.

AA: … quel brivido lì?

PP: Non ho bisogno di rimorchiare così.

[Suono di campane].

È la madonna! Io sono molto amico della madonna, che fu molto chiacchierata… poverina, un figlio da signorina.

[Santa Cecilia]

[Al cameraman] Non mi rompere le dita della mia statua, eh, perché vedi che è lì che acchiappa la nota, è la santa della musica, Cecilia che fu trovata nel Seicento ancóra mummificata ravvolta nella seta… E c’è nella chiesa dei Cappuccini all’inizio di via Veneto un arcangelo bellissimo, Michele, che con un piede schiaccia il diavolo, e il diavolo è molto ridicolo perché cià i capelli presi dal buco del culo riportati in avanti, col riporto a capo come certi direttori di banca, e poi sta così schiacciato giù, ma [mima] si rivolta in sù, proprio come Oloferne del Caravaggio…

AA: A proposito del Caravaggio mi risulta che tu detesti un bel po’ il mondo dei gay, GayPride compreso…

PP: Quelli sono i giornalisti

[Immagini del GayPride]

che non capiscono un cacchio. Quando m’hanno telefonato… euh, che devo anda’ a fare? Io trovo nojosissimo anche il carnevale di Viareggio sicché è inutile che vada, alla mia età, gli ho detto: No, io son troppo vecchio per andare a girelloni a fare ehè ehè ehè ehè così…

[Immagini del GayPride; musica]

Quale orgoglio? per me è una cosa naturale essere omosessuale, eh… Pasolini diceva… comunista e pederasta. Benissimo! Eh. La mia mamma era convinta che, come dice Jean Jacques Rousseau, il bambino è perfetto, è sbagliata la società.

AA: Però più che una parata carnevalesca, come la definisci tu, credo sia un maniera per puntualizzare l’esistenza di diritti che ancor oggi non vengono rispettati, no?

PP: Sì, però io sono di un’epoca in cui eravamo aristocratici, come formazione mentale… C’è una cosa bella che è quella più vicina alla natura: e ci si monta addosso, volto il culo e vado via. Così! Nelle avventure. Non facevano che picchiarsi, Verlaine e Rimbaud,

[Verlaine e Rimbaud]

perché erano due poeti. Non fu un matrimonio felice

[Gay celebri]

Mi son laureato in lettere e alla RAI di Firenze ho conosciuto Zeffirelli, allora sono venuto qua grazie a lui, un uomo molto generoso…

[Zeffirelli e i suoi film]

Mi ricordo all’epoca mia Alida Valli…

[Alida Valli]

Ore nove lezione di chimica un film su un collegio femminile, fatto da una regista lesbica, un genio, una certa Logan…

[Leni Riefenstahl]

… Non era quella lì delle Olimpiadi: quella si chiama Leni Riefensthal.

[Immagini della Riefenstahl, le Olimpiadi e l’Africa]

Furba! Appena finito il nazismo lei è andata in Africa, e ha fatto un libro di foto meravigliose su quei negri alti tre metri, tutti infarinati. Lei dice: Io ero un’antropologa – perché prima aveva fatto la razza purissima.

[Riefenstahl].

Eh, furba! E poi fu l’anno delle Olimpiadi di Berlino che vinse anche un negro…

[Olimpiadi]

… però invece quello del nuoto era il mio Tarzan…

[Bathing Beauty].

… andò a Hollywood e ciaveva poi tutto un settore di piscine con le macchine da presa sott’acqua per fare Tarzan che va sott’acqua… quella era Bellezze al bagno, Bathing Beauty, nei ’45-’46: coreografie soprattutto nell’acqua, che aprivano le gambe, facevano le stelle

[Laura Betti].

Laura Betti aveva la bellezza dei quadri barocchi, del Seicento – aveva una vena verde qui, in fronte, una carnagione bianchissima… Rompicogliona, anche, perché quelle donne di allora erano delle virago altrimenti non le avrebbero lasciate sopravvivere.

[Donne e spettacolo].

Io ho provato di più l’amicizia che non l’amore: ho avuto degl’intrighi, ho derubato e ho regalato, ne ho fatte di tutti i colori…

[Bordelli]

… Allora riaprono le persiane, perché “persiane chiuse” si chiamavano anche i film che si svolgevano in casino, e tutte queste belle ragazze bionde si affacciano… Cristina Gajoni, Pascal Petit, tutte le piccolette, le bamboline dell’epoca che duravano un anno, due tre… le nate di marzo… allora i militari, dice: “Hanno riaperto, hanno riaperto!”… Poi c’era l’osceno monumento,

[Immagini di bordelli]

un pisciatojo di quelli châlet d’aisance di ferro battuto e così ho sempre pensato aristocraticamente; mentre mio fratello venuto dopo di me, poverino, arrivava nei posti dove io, come una lumaca diabolica, avevo lasciato le orme – ecco, lui s’è sempre vestito di grigio: scarpe grigie, cravatta grigia… Invece io, qualsiasi cosa, mi facevo un fiocco, una roba, e apprezzavo molto quando Dante nel finale della Vita nuova dice “Dirò di lei cosa mai detta d’alcuna” e difatti di Beatrice ha fatto la religione – una rottura di coglioni; però non era stato mai fatto.

AA: Vabbè non ho capìto la risposta alla domanda che t’ho fatto, prima, sui diritti umani che in occasione della parata vengono rivendicati dai gay. Ma non fa niente, si sa: fa parte del tuo meraviglioso delirio creativo. Comunque hai parlato di Dante, ti piace Benigni quando lo recita?

PP: Benigni è bravissimo perché sa tenere duemila persone,

[Benigni]

però ci sono altre persone, che io ho amato molto, che parlavano con più cognizione di causa.

[Benigni: “Io sono al terzo cerchio de la piova / etterna, maledetta, fredda e greve / regola e qualità mai non l’è nova…”]

PP: Lui ha seguìto non le mie orme come lui dice gentilmente quando gli fanno delle interviste, ma quelle di Carmelo Bene,

[Immagini di Carmelo Bene]

perché ha fatto, come Carmelo Bene, Dante e Pinocchio. Carmelo Bene, più geniale, diceva Sono apparso alla madonna; e la madonna non lo ha smentito.

AA: È vero, povero Carmelo, però chissà che avrebbe fatto. Lui avrebbe avuto più o meno la tua età, oggi?

PP: Era più giovane…

AA: Più giovane.

PP: … però era anche più alcolista.

[Con LP].

AA: Paolo mi ha parlato di Benigni che secondo lui è nato, così almeno ho capìto, ispirato da Carmelo Bene. Io so invece dell'”Alberichino”, so che Roberto Benigni ha cominciato lì, che era un po’ il tuo teatro, vero?

LP: Tutti hanno cominciato dall'”Alberichino”. Questo “Alberichino” era questa cantinetta talmente piccola che non consentiva di fare spettacoli se non a un personaggio solo, quindi monologhi.

[Immagini di Benigni].

AA: E com’era lui da ragazzo?

LP: Roberto era bruttino, da giovane: magro magro, con le buche nelle guance, i capelli già un po’ radi, famiglia molto povera… Era arrivato talmente giovane dal paesello che non aveva visto niente e non sapeva niente… e però tale era la curiosità di apprendere che acchiappava, rubava da tutto e da tutti, e si è formato, si è fatto una … grande cultura, da solo, proprio un autodidatta, lui.

AA: E oltre a Benigni c’era anche Carlo Verdone, no?

LP: Anche Verdone ha debuttato lì,

[Immagini di Carlo Verdone]

faceva il suo primo spettacolo con tutte quelle macchiette, che dopo ha portato nel cinema: il coattone, lo scemo, il corrotto, e tutti…

AA: E piaceva?

LP: Moltissimo! Sai com’era umanamente, come tutte le persone di valore? Umile! Insicuro, aveva paura di sbagliare… diceva: “Oddio, farò bene?”. Noi tutti ci scompisciavamo: “Ma bellissimo, fa ridere!”. “No, ma farà ridere?”. Carino!…

[Incontro con una donna]

AA: Ciao, come stai?

Cristiana Borghi: […] perché non posso fare a meno…

AA [la presenta]: Cristiana Borghi.

[Altro incontro].

AA: Adele.

LP: Adele! Ti do un bacio.

Adele: Grazie.

LP: Ciao.

Adele: Ciao.

LP: Ti volevo dire questa cosa, che sono gli anni, quelli, in cui ho cominciato a lavorare anche con Paolo.

AA: E non avete mai litigato?

LP: Litigato no, mai. Giocava con me quando io ero piccola, appunto, a pettinarmi, a tagliarmi i capelli, a vestirmi… e poi mi disegnava: “Mettiti lì ferma!” — mi toccava stare ferma ore. Giocava come con una bambola, però era un segno d’affetto, a me faceva piacere.

AA: Ma adesso che ha quasi ottant’anni ti preoccupa che va in giro da solo? Lui non ha un compagno, non ci ha amici…

LP: No.

AA: … si mantiene che sembra un ragazzino…

LP: Guarda, si mantiene, sta bene. E poi lui è uno molto responsabile, va sempre dal medico…

[Di nuovo da PP].

AA: Sai che tua sorella è molto fiera di te – va be’ ti dico una scemenza, perché tanto lo sai benissimo. Ma come fai a mantenerti così giovane? Oh, hai compiuto ottant’anni, eh!

PP: Mangio poco.

AA: Ah, è quello il segreto?

PP: Bisogna lavorare molto e mangiare poco.

AA: E mangiando così poco riesci ancóra a scavalcare montagne e montagne, per mesi e mesi… L’altra sera per esempio dov’eri?

PP: Ero dentro la chiesa di san Galgano, “la spada nella roccia”, a Montevarchi, in una bella piazza davanti alla collegiata… E allora a un certo momento il prete: dan, dan, dan…

AA: T’ha suonato le campane.

PP: Eh, ma tutti a ridere, ché ho detto: “Ah la madonna, ho visto la madonna”, sai…

AA: Senti, adesso ti lasciamo, mi sembra di averti spompato anche troppo…

PP: Posso baciarti?

AA: Ma certo, ma mi devi strabaciare…

PP: Come le signore in chiesa…

AA: Mi date un…

PP: … quei saluti che si spengono in preghiera.

AA: Mi dài un foglio di carta?, perché mi sono dimenticato la liberatoria…

PP: Sì.

AA: Ti devo far firmare qualche cosa…

[PP cerca il foglio.

PP, Laura Betti: Ballata dell’uomo ricco]

[Titoli di coda:]

Regia Antonello Agliotti

Produttore esecutivo Anna Maria Acciari

A cura di Francesca Ceci

Assistente alla regia Angelo Amoruso

Consulente musicale Fabio Sartori

In redazione Francesco Locci

Ricerche di repertorio Francesca Griffante Camilla Mazzitelli

Per la comunicazione Stefania Gallo

Per la sigla ideazione grafica Guido Cosentini

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491. Il caso Mercadante.

20 Nov

Saverio Mercadante – Virginia – Terzetto

 

Di Saverio Mercadante (1795-1870) si è tornato talora a parlare, in àmbito musicologico. Ha i suoi cultori. Per chi di opera non sa nulla, o conosce poco, dev’essere detto che, allievo di Nicola Antonio Zingarelli, terribile didatta, che diede filo da torcere a Rossini durante l’ardua permanenza napolitana – con quello viennese, il pubblico napolitano era quello più musicalmente avvertito d’Europa – ed ebbe tra mano anche Donizetti e il giovane Bellini (con esiti abbastanza enigmatici, per quanto riguarda quest’ultimo, perché non apprese mai bene l’orchestrazione, e Zingarelli era un pedante di prima categoria), ebbe una carriera lunga ed onorata, ma sempre a ridosso dell’accademia, ed è il solo compositore italiano che ad un numero alto di melodrammi associò un grande impegno nella musica pura, con quartetti, concerti, sinfonie, &c., oltreché nella musica sacra.

Mercadante ebbe pessimo carattere, come traspare dalle nevrotiche lettere, e come riflettono numerosi aneddoti specialmente risalenti al suo periodo a capo del Conservatorio di Napoli – dove fu preferito a Donizetti, che ne risentì parecchio – ma linea musicale elegantissima e cerebrale. Colse molti successi, innanzitutto con Elisa e Claudio (1821), sorta di commedia borghese, Donna Caritea regina di Spagna (1826), opera seria con venature quasi favolistiche, comportate dal carattere vigoroso della protagonista; a quest’altezza era considerato una specie di prolungamento di Rossini, che a sua volta lo elogiò per aver continuato la propria maniera. Salvo il fatto che Mercadante ha eliminato il crescendo e le progressioni (il “solfeggio”, secondo il dire di Verdi), e si muove nella direzione di una maggior pregnanza espressiva della melodia, procedendo per frasi piuttosto brevi, spesso incisive, e facendo passare in cavalleria il “motivo spiegato”, la frase melodica lunga. Gestisce a meraviglia l’orchestra, che ha una potenza fonica superiore a quella di Rossini, e richiede voci dalle estensioni iperboliche, come farà Verdi. Il percorso tonale è complesso. Non ama molto le struggenti seste napolitane, di cui Donizetti fa un vero e proprio abuso, e manca totalmente della visionarietà di Bellini: la sua musica sembra più un ragionamento sulla situazione drammatica che un modo di dire la verità.

Seguiranno le sue opere più verdiane: Il giuramento, 1837, Elena da Feltre, 1838, e Il bravo, 1839. In esse Mercadante, dichiaratamente, si era proposto di combattere la volgarità delle cabalette – bisogna tener conto che a Napoli la cabaletta riscoteva, e credo riscuota ancóra, meno applauso della sezione moderata che precede, dove le doti del compositore risaltano meglio – e conseguire una perfetta aderenza drammatica. Il resto, a mano a mano che l’astro di Verdi compiva la sua ascesa, è conseguenza; si segnalano almeno gli Orazi e Curiazi del 1846, il Pelagio del 1857, e la Virginia, composta tra il 1845 e il 1850, ma rappresentata solo nel 1866.

Di fatto Mercadante, divenuto completamente cieco nel 1862, si rivolse esclusivamente alla musica strumentale, dettando agli allievi, e abbandonò il melodramma. Quando morì, Florimo, l’uomo che incarnava la memoria storica di tutto quello che era passato per il Conservatorio di Napoli, ossia sostanzialmente tutto il melodramma ottocentesco italiano della prima metà del secolo – la seconda di fatto non conta quasi nulla, comparativamente, ad eccezione della maturità di Verdi – mise bene in chiaro che Mercadante doveva essere considerato un compositore di seconda categoria; i veri grandi, disse, sono stati Rossini Donizetti Bellini Verdi, e Mercadante non è stato alla loro altezza. La storia gli ha dato ragione: Mercadante non è molto eseguito, e solo nell’ottica della riesumazione, della testimonianza storica. Anche e soprattutto per ricostruire una preistoria verdiana, essendo Mercadante di fondamentale importanza per Verdi.

Attualmente sono disponibili in commercio diverse esecuzioni di sue opere (Elisa e Claudio, Caritea, Giuramento [più versioni], Elena da Feltre, Bravo, Vestale, Emma d’Antiochia, Orazi e Curiazi, Virginia), tutte variamente insoddisfacenti e brutte, ma indispensabili.

Victor de Sabata, che rimase affascinato dalla perizia della sua scrittura, manifestò almeno in un’occasione l’intenzione di eseguirlo alla Scala, laddove secondo aveva colto i massimi successi, prestando all’esecuzione cure speciali. Non credo abbia mai eseguito nulla, men che meno un’opera integralmente, ma è certo che le opere di Mercadante richiedano più cure rispetto a quelle dei suoi più fortunati colleghi. I quali si mantennero sempre, consciamente o inconsciamente, fedeli alla linea mozartiana, secondo la quale “genio è quello che nessuna interpretazione può svisare” – ma era anche praticaccia: l’orchestra della Scala, per esempio, non fu mai una grandissima orchestra, e rispetto a quelle di Napoli e di Vienna si confondeva con un’ampia provincia immersa in un grigiore semidilettantesco. Nel 1812., cioè in piena èra rossiniana, il tentativo di rappresentarvi Il ratto dal serraglio abortì miseramente, e solo per l’imperizia degli orchestrali.

Solo che quella provincia riguardava il 95% delle orchestre e dei teatri; mentre Mercadante, già alla nascita artistica designato come successore di Zingarelli, anfibio tra insegnamento accademico e pratica artistica, viziato da una delle orchestre migliori del mondo, non ebbe nessun motivo di cedere d’un passo da una prassi musicale ricercata, sfumata e complessa. Suppongo che a Torino, e nelle numerose città della Spagna in cui compì – voleva probabilmente emanciparsi, con una drastica cura, dall’ombra del Maestro – un lungo e arduo tour, fosse eseguito maluccio (recente [2016] è un’edizione, francamente orribile, di un suo stupendo Don Chisciotte, una appunto delle sue opere spagnole), ma il successo dipendeva, allora, principalmente dai cantanti, e Mercadante successi ne ottenne parecchî.

Visse costantemente nell’insensibilità nei confronti dell’effetto romanticamente inteso; la sua era applicazione, ancóra, dell’antica teoria degli affetti, agìti dall’artefice impassibile come dati oggettivi. Mercadante è espressivo, dunque, ma nessuna delle sue opere fa “mondo a sé”, ha una tinta sua speciale. Un esito al quale avrebbe potuto approdare, sull’esempio di Bellini, interagendo con forza con il librettista: nell’opera non sono le nuove invenzioni puramente musicali a creare la novità, ma le novità delle situazioni drammatiche, che ispirano musica nuova, o più vera. Mercadante non pensò mai a mettere in discussione le decisioni del librettista; e c’è il caso-limite di uno dei suoi capolavori, Il bravo, su libretto di Gaetano Rossi, che oltre a fornire una delle sue cose più disorganiche, mal fatte e male scritte, lasciò persino a livello di brogliaccio diverse scene, oltre a molti versi monchi, che Mercadante musicò tali e quali.

E pare da questo che Mercadante considerasse il lavoro sul libretto come una specie di sfida; persino Donizetti, sfidando le ire del Cammarano, manipolò alcune parti della Lucia di Lammermoor, e Donizetti non era un rivoluzionario come Bellini, né aveva l’elevatezza di concezioni di Mercadante. Il quale Mercadante era litigioso e tiranno, ma non correva rischio di scontro con i librettisti, proprio per la sua considerazione del loro lavoro come di una cosa conclusa, dopo la quale doveva cominciare il suo lavoro di musicista. Mercadante aveva un concetto altamente normativo della composizione e dei rapporti tra i varî prendenti parte alla creazione dell’opera. Allo stesso modo continuò per tutta la carriera a musicare, accanto ad opere d’argomento medievale secondo il gusto romantico, anche le sue Nitocri, i suoi Ercoli, spesso su libretto metastasiano. Con la Restaurazione era venuto di moda recuperare libretti prerivoluzionarj, specie del vecchio abate, adattandoli al gusto corrente con l’immissione di duetti ed assiemi; ma era stata una moda, appunto, durata un decennio. Mercadante non abbandonò però praticamente mai quest’eredità grosso modo “classica”. E c’è da aggiungere anche la presenza, tra le sue opere, di titoli – Vestale, Medea – che sembrano voler mostrare la sua volontà di incorporare la tradizione, aggiornandola e ripensandola secondo gli schemi compositivi da lui messi a punto: divisione in tre parti, non più di due o tre cabalette in tutta l’opera, assiemi e parti corali di scrittura sofisticata, poco motivo spiegato, nessun crescendo, temi incisivi e ben ragionati, mai orecchiabili – non c’è una sola pagina (almeno cantata) di Mercadante che si possa fischiettare – espressività sobria e perentoria.

Liszt definì le sue opere les mieux pensées du répertoire, le ‘meglio pensate’; e in effetti di Mercadante si apprezza innanzitutto il perfetto gioco d’incastro, la disposizione estremamente calibrata delle parti, la solidità formale, l’eleganza. Non fa stupore che da ultimo la sua bella scrittura, sensibilissima alle sollecitazioni espressive del libretto ma per nulla propensa a svincolarsene, rifluisse – non voglio dire scadesse, perché non è il verbo – nel calligrafismo.

Non molto tempo fa la – da una parte benemerita – casa inglese Opera Rara (un nome che non potrebbe essere italiano, in effetti), già responsabile di alcuni ripescaggj mercadantiani, ha dato fuori la sua estrema Virginia, l’opera che aspettò sedici anni per essere messa in scena e che il compositore non vide mai fisicamente rappresentata. Quei tre lustri abbondanti, dominati incontrovertibilmente dal genio di Verdi, che nel frattempo aveva eliminato altre cose, e ulteriori ne aveva aggiunte, erano stati decisìvi, e l’opera di Mercadante, accolta con rispetto, dovette risentirne, quanto a ricezione.

Ma per un curioso effetto della “bella scrittura” dell’autore, oltre ad una vena melodica – sempre stata molto pensive e “avara” – apparentemente non inaridita, ma come sovraccaricata manieristicamente, quest’opera venuta in luce già vecchia ha precisi aggancj più retorici che formali a quello che sarebbe stato fatto di lì a un decennio – esatto, magari, se ci si vuol riferire al carrozzone della Gioconda (1876) di Amilcare Ponchielli, alla quale, se si vuole, si può accostare la coetanea Cleopatra di Lauro Rossi. È certamente, questo ultimo Mercadante, almeno dai fragorosi Orazi e Curiazi in poi (in un’esecuzione, sempre Opera Rara, che lo stravagante Elvio Giudici ha portato a cielo per motivi noti solo a lui) – ma bisogna tener conto dei buchi lasciati da una discografia non ancóra esaustiva – un pompier dichiarato, un calligrafo e un tardo neoclassicista romantico; ma si tratta di un Kitsch, come dire?, dal volto umano, sempre retto da una scrittura su cui il cattivo gusto è posato come una pellicola facilmente rimovibile, sotto cui la bella, aristocratica scrittura d’ascendenza settecentesca dell’autore è sempre visibile e sensibile, e sempre è palpabile – e ben ripagato, a monetoni d’oro fulvido e sonante – il suo amore per la musica pura.

Mercadante è il fratello maggiore/antesignano e, insieme, il contrario di Verdi, a seconda di come lo s’inquadri; passando direttamente alle differenze, Mercadante è freddo, non crea personaggî, non fa opere-mondo, ha un’estetica schiva e non personalistica, rimane sostanzialmente di qua da una vera consapevolezza romantica, non sa rinunciare alla mitologia classicista, è un artigiano impassibile, è un formalista, non trascura l’effetto ma considera il mezzo come fine; è un compositore di vena robusta ma non corriva, e nemmeno scorrevole – è ingegnoso, è sottile, è ragionatore, riflessivo, pensoso, raffinato. Se è stato notato che, senza Orazi e Curiazi, l’Aida non sarebbe mai stata scritta, è vero anche che la seconda si svolge tutta o di notte, o all’ombra, o nel crepuscolo, mentre la prima è tutta, almeno musicalmente, dominata dalla luce piena di un meriggio abbacinante; e sicuramente le somiglianze cessano laddove Verdi cessa di chiedere soccorsi al pompier, allo “splendor di scena”; il suggestivo canto della sacerdotessa, che veramente sembra sorgere dalla voragine dei secoli, fu trascritto da Verdi dal richiamo tipico del peracottaro, che vagava per le campagne circostanti Sant’Agata durante le torride giornate estive. Mercadante non avrebbe mai fatto una cosa del genere; e se l’ultimo coro, pieno di frastuono, termina in urli da stadio non è intenzionalmente, ma per accumulo enfatico.

Sono tutti concetti straribaditi dalla critica e dalla storiografia; sono tutti concetti utili a sapersi per chi s’accosti la prima volta a Mercadante, e sono tutti concetti condivisibili una volta che si esce da un ascolto mercadantiano – sia pure reso sempre problematico dagli esecutori, che probabilmente non saranno mai in grado di assecondare una scrittura che ha reso la tipica espressione melodrammatica secondo l’antica italiana una sorta di scienza esatta.

Ma non sono questi concetti, unitamente alla sequenza prevedibile delle tappe obbligate di una carriera di professore-musicista, a render conto veramente della musica di Mercadante; a dirci se essa, intrisa di malinconia e della rigorosità nervosa propria dell’autore, sia in grado di comunicare qualcosa del suo mondo; se, pudica nelle espansioni sentimentali, trovi il suo vero centro in una sorta di ampio gusto narrativo, riflesso dall’elaborazione degli insiemi; se, pedissequa nell’adeguarsi al vocabolario espressivo melodrammatico – che però in gran parte elabora ed afferma; per cui sono espressioni divenute, non nate, scontate – trovi la sua strenua originalità nella tournure sempre ricca e al fondo leggermente tortuosa della melodia; se, acquiescente alle situazioni drammatiche, mai paragonabili a quelle che Bellini e Verdi sanno escogitare ed imporre ai Romani, ai Piave, debba solo a sé l’autorevolezza e la nobiltà scontrosa del dettato; se, melodicamente non trascinante, non abbia cedimenti nel ritrovare sempre nella costruzione, la plus pensée, proprio delle melodie il suo stimolo maggiore, la sua fonte d’ispirazione sostanziale, e la più abbondante di rare fruttificazioni; se, non troppo sensibile al medievalismo di maniera caro ai romantici, finisce col prodursi su una lira ricca di più corde rispetto ai suoi colleghi, e col portare, posto ci arrivi, oltre il golfo mistico colori più meridiani, e una sorta di sua oggettività costruttivo-espressiva: un operismo che è insieme un vocabolario e una sintassi dell’opera nella sua stupefacente fase terminale, una storia dell’opera anche nelle fasi ormai remote, e un valore, in sé, poetico-artistico solido.

“Il battistrada di Verdi”, come fu definito, ha lasciato troppe pagine importanti, e troppe opere di tenuta perfetta per poter essere completamente obliterato; benché la sua totale mancanza di abbandono continuerà, forse per sempre, a renderlo incomunicabile col grosso pubblico. Qui sopra rifulge uno degli ultimi assiemi, un terzetto (bellissimo), della sua tarda Virginia, l’ultima a vedere le scene; si ha l’impressione che si prova di fronte a certi fiamminghi, o di fronte a certi arazzi, in cui appunto il valore mimetico-espressivo è sottoposto alla giurisdizione del decoro formale, all’equilibrio delle parti in gioco, all’eleganza sostenuta del risultato.

Si pregj comunque, di “già” verdiano – ed è proprio un linguaggio che è suo e di Verdi, e di nessun altro; non il tessuto di notte e di luna belliniano (diversità), e non la cartapesta di Donizetti (superiorità; secondo me) -, il colore dalle venature lignee, il giusto grado di enfasi, l’accento, giusta la definizione di Verdi stesso, scolpito; oltre al puro splendore e alla severa drammaticità di una musica che è, veramente, quella di uno dei più grandi.

Tag:mercadante, musica, verdi

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470. Trattato dell’epigramma. Sezione XVI.

11 Nov

SEZIONE XVI. CATULLO E MARZIALE.

 

Ciò che non si può precisamente dire del Poeta Catullo, la più parte degli Epigrammi del quale è bella, e dotta quanto al senso, e nobile quanto ad elocuzione, ma la cui conclusione non è sempre così viva ed acuta. Ciò che il giudizioso Scaligero non ha mancato di rilevare; fino al punto di dire che ve ne sono di così languidi da fargli pietà, multa languida quorum miseret. Ed altri così costretti che ha pena a leggerli. Ed è proprio quello che si può dire con ragione anche di parecchî Epigrammi Greci, che spesso traggono valore solamente dalla loro polita franchezza, o dalla grazia e dalla bontà della loro espressione, o da qualche altro e similare ornamento. Ne consegue che quando vogliamo oggi segnalare un Epigramma che non ha né sale né punta lo chiamiamo scherzosamente Epigramma alla Greca. So bene che questa non è l’opinione di Michel de Montaigne, poiché nei suoi Saggî dice preferire di gran lunga gli Epigrammi di Catullo a quelli di Marziale.

Ma per quanto rispetto abbia per la memoria di così gran Personaggio, i cui dotti Scritti mi sono sempre stati tanto cari, e tanto preziosi, mi perdonerà, pur che gli piaccia, se in questo non sono della sua opinione; e se dico che il giudizio dei Poeti spetta solamente ai Poeti; e che i più esperti Filosofi, e anche gli Oratori, si scaldano vanamente nell’esame che fanno dei nostri Componimenti. Ciò che appare con sufficiente evidenza dal giudizio favorevole che lo stesso de Montaigne espresse altra volta sugli scipiti Sonetti del dotto Étienne de la Boétie, del quale inserì nella prima edizione dei suoi Saggî alcuni miserevoli lacerti, che chiamò preziosi brani; ma che in séguito egli stesso escluse dal corpus delle proprie opere, come macchie oscure che offendevano lo splendore, e i vivi raggî di così belle fattezze.

Tag:epigrammi

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405. Il Male.

27 Ott

Va bene, stamani dovevo andare a farmi assegnare un altro medico della mutua, perché la dottoressa che avevo scelto, solo per il fatto che era in zona molto centrale, prima che ne avessi bisogno la prima volta, si è ritirata, e quello che l’ha sostituita mi ha detto che comunque il trasferimento devo farlo. Insomma, già che c’ero, mi sono fatto consigliare il medico di famiglia da qualcuno che mi sembra goda ancòra di buona salute, e prendo quello.  A me è ignoto se all’Asl di v. s. Donato siano aperti, nel pomeriggio; se sì, bene, sennò faccio tutto domani in giornata. Continua a leggere →

Tag:dormitorj, febbre, tbc

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396. Dalla Clio di Quevedo I.

19 Ott

Francisco de Quevedo, Il Parnaso spagnolo, monte in due cime distinto, con le Nove muse castigliane.
 
Clio, musa prima. Canta poesie eroiche, vale a dire elogj e memorie di principi e uomini illustri.
 
ALLA STATUA DI BRONZO DEL RE DON FILIPPO III.
Oh quanta maestà! Oh quanto il nume
Proprio al terzo Filippo, invitto & santo,
Arriva il bronzo ad imitare! Oh quanto
Del raggio suo quest’apparenza assume!
Non smorzi il tempo, ma rispetti il lume
D’un volto il quale amore al pari, e pianto,
Destò, nemico e amico, altrui, fintanto
Ch’estese del suo essere il volume.
Osò imitar l’artefice toscano
Uno che dio imitato ha in tal maniera
Che tanto santo quanto re è sovrano.
Cólla riproduzione veritiera
S’erge il bronzo in reliquia, e questo piano
Col lampo maestoso illustra altèra.

Tag:clio

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369. Capriccio XI.

15 Ott

PIANTO.
Quanta tristezza è coessenziale
Alla mia vita; lacrimo all’interno,
E la pioggia che cade e il mondo esterno
Inumidisce è specchio mio fatale.
Riflette la mia tetra esistenziale
Condizione l’appropinquante inverno:
Non solo ha fiamme il desolato inferno,
Non solo l’ira dentro me prevale.
Il mio destino è tale che non riesco
In altro che nel pianto, ed il mio pianto
Di tragedia non è: scorre grottesco.
Finché, inzuppato il suo stracciato manto
Per piogge, e pianto che alla pioggia mesco,
La vita affoghi, e cessi il mesto canto.

Tag:capriccj

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294. Impresa X.

12 Set

SOLE & DIO.
 
Entro valli e in città, declivî e piani
Spesso appicca il grand’Astro i suoi comburî,
Poiché non solo langue tra gli Arturi,
Ma latra anche ardentissimo tra i Cani.
 
Più Soli in cielo, oltrech’ad esser vani
A scaldare la terra ai dì più duri,
Sarebbero un’esizie ai morituri
Viventi, piante, bestie, esseri umani.
 
Così più Dèi preposti a noi mortali
Vorrebber dire più scomodi eventi:
Più cristi, più peccati originali,
 
E centinaja di comandamenti;
Più vangeli, e diluvî universali;
Più inferni; & relativi patimenti.

Tag:imprese

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273. La caverna.

27 Giu

Daniello Bartoli, De’ simboli trasportati al morale.

La spelonca delle tragedie d’Euripide.

L’effigie di un malinconico rappresentata a lui stesso.

… Seneca1 in que’ suoi trattati Della filosofia naturale2, presosi3 a rinvenir la cagione4 di certi straordinari e grandemente spaventosi effetti5 che a tanto a tanto6 si veggono o si odono raccontare: improvvisi assorbimenti7 di laghi e di fiumi, scosse di tremuoti8 e subitane9 voragini, torrenti di cocentissimo fuoco sboccati10 dalle viscere delle montagne or profondate giù e divenute pianure, or nate nuove e grandi in mezzo alle pianure: “Cessa” dice “ogni maraviglia di questi maravigliosi11 effetti il sapere che la terra qual è di sopra, tale ancor è sotterra12. Havvi13 qui sotto cavità e valli profonde; havvi pianure immense e balzi14 e dirupi e seni15 e spelonche incavate dentro a quelle gran viscere; havvi laghi e fiumi e paludi e mille acquidocci16 e mille strosci17 d’acque cadenti; e del fuoco altresì, fornaci e fucine sempre ardenti, e fiamme e riverberi18 e incendi e continui struggimenti19. Crede infra quicquid vides supra. Sunt et illic specus vasti; sunt ingentes recessus et spatia suspensis hinc et inde montibus laxa; sunt abrupti in infinitum hiatus, qui saepe illapsas urbes receperunt et ingentem in alto ruinam condiderunt”. Or così va del20 cuore come del volto d’un malinconico: “Crede infra quicquid videris supra”.21

Settantacinque tragedie compose e diede a recitare in diversi teatri della sua Grecia Euripide22

E donde mai scaturì a quel gran poeta una così larga23 vena di lagrime, quante ne abbisognavano a rappresentare i funesti argomenti di settantacinque tragedie? Chi gli sumministrò tante e così orribili fantasie d’atrocità, d’ammazzamenti, di stragi, e tanti modi da24 esprimerli, che più veri de’ suoi finti non l’erano25 i veri in fatti26? L’abbiamo27 da chi, non credendolo fuori che a’ suoi medesimi occhi28, ne volle essere spettatore e testimonio di veduta29. Una spelonca – dice Aulo Gellio30 – è in Salamina, isola dell’arcipelago, nel cui profondo Euripide, per memoria lasciatane da Filocoro31, si nascondeva a comporre ivi dentro le sue tragedie32. Entrava33 quella spaventevole grotta per entro alle cupe viscere della terra. Angusta n’era la bocca, torte34 le vie, scoscesi i fianchi35: tutta per entro36 nera, orrida37, disuguale; e nel profondo sì buia che nel mezzodì38 non vi faceva né pure un barlume di sera39. Colà, scorto40 da un piccolo lumicino, entrava Euripide tutto solo, se non quanto41 era seco il furore poetico42 che vel portava. Quivi era il teatro dove, prima che in Elide, in Corinto, in Atene, rappresentava a se stesso le sue tragedie. Questa la sotterranea caverna nelle cui sacre43 tenebre co’ poetici incantamenti richiamava dal vicino inferno le ombre a comparire in palco e rifare i medesimi fatti e misfatti di quando erano corpi vivi44. Qui45 gli Edipi46, qui gli Atrei e i Tiesti, qui i Tantali47, qui le Medee48 qui gli Aiaci49 e gli Agamennoni50 e gli Egisti51 e tutta a piacer suo la gran turba de’ tragici personaggi. Quel silenzio, quell’orrore, quel buio, quella stessa quasi moribonda fiammella del suo lumicino, e quell’aver sopra ‘l capo una montagna e per tutto intorno pendentigli pietre mezzo divelte e rovinosi dirupi: e con ciò la malinconia, lo spavento, l’orrore; gli sumministravano52 le fantasie funeste, le specie53 atroci, le imagini fiere; e le disperazioni e le smanie al farsi54 delle catastrofi55 e de’ precipizi delle fortune reali56: co’ sensi57, con le parole, collo spirito58 e co’ modi de’ tradimenti, de’ parricidi, delle crudeltà de’ tiranni; e i lamenti e i compassionevoli guai59 de’ miseri e de’ moribondi. Così le Muse gli si voltavano60 in Furie; e tutto era quel che faceva lavorar dentro di sé il suo furore, quel che dovean proferir recitando i personaggi delle sue tragedie61.

Tal era la spelonca d’Euripide in Salamina: tale la fucina de’ suoi lavori e lo spaventoso modo62 del machinarli63, e ‘l potersi dire ancor di lui “crede infra”, del compor nella grotta, “quidquid videris supra”, rappresentar nel teatro64. Pur, come quella sua era una malinconia, per così dirla, fatta a mano, presa ab estrinseco65 e posticcia, in uscendo66 fuor della spelonca all’aperto, al sereno, al dì chiaro, tutte quelle ombre funeste gli si dileguavan dal capo: quelle fantasie lagrimevoli67 gli sparivan dagli occhi68 e, in lasciando d’esser Euripide in opera di poetare, lasciava d’esser Euripide in atto d’infuriare. Ma un malinconico, il cui misero cuore è la profonda e nera grotta dov’egli fa a se stesso continue e non finte tragedie d’imagini spaventose, d’ombre infernali, di fantasie funeste, e qui ansietà, qui sospetti e disperazioni e furori e desideri di morte69, come può uscirne e camparsene70, se dovunque vada porta seco se stesso71, e nel suo petto la fucina e i fabbri delle sue miserie72? Che pro dell’infelice Scilla73 il fuggire, per fuggire i rabbiosi cani che le assordan gli orecchi latrando e le straziano i fianchi mordendola, se gli ha incarnati a’ suoi medesimi fianchi,

et quos fugit, attrahit una74?

Ma non è così. Tutto è volontario e non suggetto da75 compatire il patire de’ malinconici76: ché chi fa il carnefice a se stesso non ha scusa77 del suo morire. Non l’ha chi si finge e si pon davanti le ombre spaventose, se ne spirita per ispavento; anzi, come gli spettatori delle tragedie rappresentate ne piangono con diletto e ne godono con dolore, così i malinconici al farlesi78 da se stessi. Che pietà dunque vuole aversi delle loro miserie e de’ lor pianti?79…

Da: Trattatisti e narratori del Seicento, p. c. Ezio Raimondi, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli aprile MCMXL. Pp. 639-641.

Daniello Bartoli80, Ferrara 12/02/1608-Roma 13/01/1685.

1623. Entra quindicenne nella Compagnia di Gesù.

1624. Entra nel noviziato della Compagnia a Novellara. Studia a Piacenza e a Parma.

1637. Predica a Piacenza.

1642. Sotto il nome del nipote Gio. Batt. Saggio delle poesie morali, forse poi ripudiate, Bologna.

1643. E’ professo.

1645. Prima opera a stampa a suo nome è L’uomo di lettere difeso ed emendato, Roma. Tradotta in tedesco, inglese, spagnolo, portoghese, francese, latino.

1646. Predica a Palermo. // Dell’huomo di lettere difeso et emendato parti due. In Venetia, per Giunti e Baba, 1646. In-12°.

1647. Predica a Napoli.

1648. Predica a Malta. Gli è proibita la predicazione per motivi di salute. // Dell’huomo di lettere difeso et emendato parti due. In Venetia, per Giunti e Baba, 1648. In-12°.

1649. E’ trattenuto a Roma per dedicarsi alla storia della Compagnia di Gesù.

1650. E’ nominato storico della Compagnia; in questa qualità risiede a Roma. La povertà contenta descritta e dedicata ai ricchi non mai contenti, Roma; tradotta in inglese, tedesco e francese. // L’eternità consigliera. In Venezia, per Francesco Baba, 1650. In-12° // La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, per Francesco Baba, 1650. In-12°.

1650-1673. Istoria della compagnia di Gesù.

  1. Asia, 8 voll., 1650 + La missione al Gran Mogor del padre Rodolfo Acquaviva (1653)

  2. Giappone, 5 voll., 1660

  3. Cina, 4 voll., 1661

  4. Europa:

      1. Inghilterra, 6 voll., 1667

      2. Italia, 4 voll., 1673

    1650-1653. Della Vita e istituto di sant’Ignazio (Roma, 5 voll.), tradotta in tedesco, inglese, francese, spagnolo; forma una sorta d’introduzione all’Istoria.

    1651. Della vita del padre Vincenzo Caraffa (Roma, 2 voll.), tradotta in latino, francese, spagnolo. // Dell’huomo di lettere difeso et emendato parti due. In Venetia, per Francesco Baba, 1651. In-12°. // Dell’huomo di lettere difeso et emendato parti due. In Venetia, per Giunti & Hertz, 1651. In-12°. // La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, per Francesco Baba, 1651. In-12°.

    1653. L’eternità consigliera, Venezia, tradotta in tedesco, spagnolo e francese: L’eternità consigliera. In Venetia, per Francesco Baba, 1653. In-12° // Sotto il nome del nipote Gio. Batt. Saggio delle poesie morali, forse poi ripudiate, Bologna, II stampa.

    1654. L’eternità consigliera. In Venetia, per Francesco Baba, 1654. In-12°

    1655. Sotto lo pseud. di Ferrante Longobardi, Il torto e il diritto del non si può dato in giudizio sopra molte regole della lingua italiana, Roma. // Dell’huomo di lettere difeso et emendato parti due. In Venetia, presso i Giunti, 1655. In-12°. // La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, per Francesco Baba, 1655. In-12°.

    1657. L’uomo al punto, Roma. // L’eternità consigliera. In Venetia, per li Baba, 1657. In-12°

    1658. Dell’huomo di lettere difeso et emendato parti due. In Venetia, per il Baba, 1658. In-12°. // La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, per il Baba, 1658. In-12°. // Il torto e il diritto del non si può, dato in giudicio sopra molte regole della lingua italiana … seconda editione accresciuta. In Venetia, presso Paolo Baglioni, 1658. In-12°.

    1659. La ricreazione del savio in discorso con la natura e con Dio, Roma. // La povertà contenta. Descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, per li Baba, 1659. In-12°.

    1660. L’eternità consigliera. // L’eternità consigliera. In Venetia, per li Baba, 1660. In-12° // La ricreatione del savio in discorso con la natura e con Dio, libri due. Venetia, appresso Nicolò Pezzana, 1660. In-12°

    1661. La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, per li Baba, 1661. In-12°.

    1662. Sotto il nome del nipote Gio. Batt. Saggio delle poesie morali, forse poi ripudiate, Milano, III stampa.

    1663. Dell’huomo di lettere difeso ed emendato parti due. Venetia, per Combi e Lanoù, 1663. In-12°. // La ricreatione del savio in discorso con la natura e con Dio, libri due. Venetia, appresso Nicolò Pezzana, 1663. In-12°

    1664. La geografia trasportata al morale, Roma. // L’eternità consigliera. In Venetia, appresso Nicolò Pezzana, 1664. In-12° // Della geografia trasportata al morale. Venetia, per Nicolò Pezzana, 1664. In-24°. // La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, appresso Nicolò Pezzana, 1664. In-12°. // Il torto e il diritto del non si può, dato in giudicio sopra molte regole della lingua italiana … seconda editione accresciuta. In Venetia, presso Paolo Baglioni, 1658. In-12°.Il torto e il diritto del non si può, dato in giudicio sopra molte regole della lingua italiana … terza edizione accresciuta. In Venetia, presso Paolo Baglioni, 1664. In-12°.

    1665. L’eternità consigliera. In Venetia, per Valentino Mortali, 1665. In-12° // La geografia trasportata al morale. Venetia, per Nicolò Pezzana, 1665. In-12°. // Dell’huomo di lettere difeso et emendato parti due. In Venetia, presso Zaccaria Gonzati, 1665. In-12°. // La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, per Francesco Armanni 1665. In-12°. // La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, presso Michel Angelo Barboni, 1665. In-12°. // La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, presso il Brigonci, 1665. In-12°. // La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, presso Valentino Mortali, 1665. In-12°.

    1666. L’eternità consigliera. In Venetia, per Valentino Mortali, 1666. In-12° // La geografia trasportata al morale. Venetia, per Nicolò Pezzana, 1666. In-12°.

    1667. Aggiunta all’Asia la Missione al Gran Mogor.

    1668. L’huomo al punto cioè l’huomo in punto di morte. Venetia, appresso Nicolò Pezzana, 1668. In-12°.

    1669. L’huomo al punto cioè l’huomo in punto di morte. Venetia, appresso Nicolò Pezzana, 1669. In-12°. // La ricreatione del savio in discorso con la natura e con Dio, libri due. Venetia, appresso Nicolò Pezzana, 1669. In-12°

    1670. Trattato dell’ortografia italiana, Roma. // Della vita e de’ miracoli del beato Stanislao Kostka (Roma, 2 voll.), rist. con appendice Venezia 1754; tradotta in tedesco; compendiata dallo stesso autore. // L’ultimo e beato fine dell’uomo, Roma. // L’eternità consigliera. In Venetia, appresso Michel’Angielo Barboni, 1670. In-12° // L’huomo di lettere difeso & emendato parti due. In Venetia, appresso Michiel’Angelo Barboni, 1670. In-12°. // La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, presso Michel Angelo Barboni, 1670. In-12°. // Dell’ultimo e beato fine dell’huomo libri due. In Venetia, presso Paolo Baglioni, 1670. In-12°

    1671-1673. E’ rettore del Collegio romano.

    1671. Il torto e il diritto del non si può, dato in giudicio sopra molte regole della lingua italiana … quinta editione accresciuta. In Venetia, presso Paolo Baglioni, 1671. In-12°.

    1672. Dell’huomo di lettere difeso et emendato parti due. In Venetia, presso Nicolò Pezzana, 1672. In-12°.

    1673. L’huomo al punto cioè l’huomo in punto di morte. Venetia, 1673. In-12°. // Della vita e dell’istituto di S. Ignatio, fondatore della Compagnia di Giesù libri cinque … Terza editione. Venetia, per li heredi di Francesco Baba, 1673. In-12°

    1674. Dell’huomo di lettere difeso et emendato parti due. In Venetia, presso Gio.Pietro Brigonci, 1674. In-12°. // Dell’ortografia italiana, trattato. In Venetia, presso Paolo Baglioni, 1674. In-12°. // Dell’ortografia italiana, trattato. In Venetia, presso Nicolò Pezzana, 1674. In-12°. // La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, per Gio. Pietro Brigonci, 1674. In-12°.

    1675. Le due eternità dell’uomo, Roma. // La grandezza di Cristo, Roma. // Delle due eternità dell’huomo l’una in Dio, l’altra con Dio. Considerationi. In Venetia, appresso Bartolomeo Tramontino, 1675. In-12°. // L’eternità consigliera. In Venetia, presso Gio. Pietro Brigonci, 1675. In-8°

    1676. La geografia trasportata al morale. Venetia, appresso Iseppo Prodocimo, 1676. In-64°. // Delle grandezze di Christo in se stesso e delle nostre in lui. In Venetia, appresso Benedetto Miloco e Giacomo Zini, 1676. In-12°. // La ricreatione del savio in discorso con la natura e con Dio, libri due. Venetia, appresso Iseppo Prodocimo, 1676. In-12°

    1677. Della tensione e della pressione, Roma. // L’huomo al punto cioè l’huomo in punto di morte. In Venetia, per Iseppo Prodocimo. In-12°. // De’ simboli trasportati al morale. In Venetia, presso Gio. Giacomo Hertz, 1677. In-12° // La tensione e la pressione disputanti qual di loro sostenga l’argentovivo ne’ cannelli dopo fattone il vuoto. In Venetia, appresso Gio. Francesco Valvasense, 1677. In-12°

    1678. Della vita di Roberto cardinale Bellarmino (Roma, 5 voll.). // L’eternità consigliera. In Venetia, presso Steffano Curti, 1678. In-12° // L’eternità consigliera. In Venetia, presso Biagio Maldura, 1678. In-12° // Dell’huomo di lettere difeso et emendato parti due. In Venetia, per Giacomo Zini, 1678. In-12°. // La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, per Giacomo Zini a S. Zulian, 1678. In-12°. // La tensione e la pressione disputanti qual di loro sostenga l’argentovivo ne’ cannelli dopo fattone il vuoto. In Venetia, appresso Gio. Francesco Valvasense, 1678. In-12°

    1679. Del suono, de’ tremori armonici e dell’udito, Roma. // Scrittura contro i quietisti, inedito.

    1680. De’ simboli trasportati al morale, Roma. // Il torto e il diritto del non si può, dato in giudicio sopra molte regole della lingua italiana … sesta editione accresciuta. In Venetia, presso Paolo Baglioni, 1680. In-12°.

    1681. Del ghiaccio e della coagulazione, Roma. // Della vita di s. Francesco Borgia (Roma, 4 voll.), tradotta in tedesco. // Delle due eternità dell’huomo l’una in Dio, l’altra con Dio. Considerationi. In Venetia, per FrancescoTramontino, 1681. In-12°. // De’ simboli trasportati al morale. Libro terzo. Venetia, presso Gio. Giacomo Hertz, 1677. In-12° // Il torto e il diritto del non si può, dato in giudicio sopra molte regole della lingua italiana … settima editione. Venetia, Giovanni Francesco Valvasense, 1681. In-12°.

    1682. Della vita di padre Nicolò Zucchi (Roma, 2 voll.).

    1683. Delle grandezze di Christo in se stesso e delle nostre in lui. In Venetia, appresso Benedetto Miloco, 1683. In-12°.

    1684. Degli uomini e fatti della Compagnia di Gesù, compendio dell’Istoria, in forma annalistica (Roma, 5 voll.). Rist. Torino 1845. // Dell’ortografia italiana, trattato. In Venetia, presso Paolo Baglioni, 1684. In-12°.

    1685. Pensieri sacri, Roma. // Delle due eternità dell’huomo. Considerationi. In Venetia, per Francesco Vidali, 1685. In-12°. // Pensieri sacri. In Venetia, appresso Gasparo Storti, 1685. In-12°.

    1686. L’huomo al punto cioè l’huomo in punto di morte. In Venetia, per Andrea Barroni, 1686. In-12°.

    1687. Le opere morali. Venetia, 1687.

    1689. L’eternità consigliera. In Venetia, appresso Antonio Bortoli, 1689. In-12° // Dell’huomo di lettere difeso et emendato parti due. Venetia, per Girolamo Albrizzi, 1689. In-12°. // De’ simboli trasportati al morale… libro primo e secondo. In Venetia, appresso Gioseppe Tramontin, 1689; 2 tt. in-12°

    1690. Dell’ortografia italiana, trattato. In Venetia, per Sebastiano Menegati, 1690. In-12°. // La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti. In Venetia, per Sebastian Menegati, 1690. In-12°.

    1691. Il torto e il diritto del non si può, dato in giudicio sopra molte regole della lingua italiana … Settima editione accresciuta… e per entro in più luoghi e al fine di quasi cento nuove osservationi. In Venetia, per Gio. Francesco Valvasense, 1691. In-12°.

    1692. Dell’huomo di lettere difeso et emendato parti due. In Venetia, appresso li Prodotti, 1692. In-12°.

    1693. Sotto il nome del nipote Gio. Batt. Saggio delle poesie morali, forse ripudiate, Ferrara.

    1699. Dell’ortografia italiana, trattato. Venetia, per Lorenzo Basegio, 1699. In-12°.

    1717. Opere non storiche, 3 voll., Venezia.

    1754. Rist. con appendice di Della vita e de’ miracoli del beato Stanislao Kostka, Venezia.

    1825-26. Opere complete, Torino, 39 voll.

    1847. Stampa postuma di Degli uomini e de’ fatti della Compagnia di Gesù.

    1939. Scritti vari di Daniello Bartoli, a cura di M. Rigillo, Milano.

    1943. Scritti in: Antologia della prosa scientifica del ‘600, a c. Antonello Falqui, Firenze.

    1960. Scritti in: Trattatisti e narratori del Seicento, a c. Ezio Raimondi, Milano-Napoli.

    1967. Daniello Bartoli / Pietro Segneri, Prose scelte, a c. di M. Scotti, Torino.

    1969. Scritti in: Scienziati del Seicento, a c. M.L. Altieri Biagi, Milano.

    1973. Scritti in: G. Cavallini, Prosa scientifica del Seicento, Torino.

    1977. Daniello Bartoli, Scritti, a cura di Ezio Raimondi, Torino.

    Luigi Settembrini, Lezioni di letteratura italiana dettate nell’Università di Napoli da Luigi Settembrini. Sedicesima edizione stereotipa. Vol. II. Cav. Antonio Morano Editore, Napoli 1894. Dal Quinto periodo. Il gesuitesimo nella vita italiana. LXX. Davila, Bentivoglio, Bartoli:

    “… Tutte le opere del gesuita Daniello Bartoli furono ristampate in trentotto volumi nel 1825, tempo di scura servitù per l’Italia, in Torino da Giacinto Marietti, che in fronte di parecchi volumi pose alcune lettere di rinomati scrittori italiani che gli davano lodi per la ristampa delle opere del gran Bartoli: ed in fine di ciascun volume sono queste parole: corretto da Ferdinando Ottino torinese, il quale fu un omiciattolo il quale volle afferrarsi alla coda del Bartoli per acquistarsi la buona grazia della Compagnia, e salire alla gloria del paradiso. Di questi trentotto volumi ventidue contengono la storia della Compagnia di Gesù, e sedici le opere minori.

    La storia comincia così: “Scrivo l’istoria universale della Compagnia di Gesù, e soddisfo a quest’obbligo che ella ha col mondo di fargli a certi tempi saper ciò che ella ha operato per lui”. Prima è la Vita di S. Ignazio in cinque libri: poi segue l’Inghilterra, dove la Compagnia sparse il primo sangue, e si distende in sei libri; poi l’Italia, e in quattro libri si narra quanto fecero i Gesuiti nel Concilio di Trento fino alla morte del Laynez, ed alla elezione di Francesco Borgia generale della Compagnia. Segue l’Asia, che comprende l’India in libri otto, il Giappone in libri cinque, la Cina in libri quattro. E questa storia universale, come si vede, non è compiuta, perché ci manca la Germania, altre contrade d’Europa, l’Africa, e l’America.

    Il Bartoli dimenticato nel passato secolo come altri secentisti, nel secolo presente fu lodato come il primo scrittore del mondo da Pietro Giordani81. Se mi domandate perché, io rispondo: Guardate la Compagnia che nel passato secolo fu scacciata82, ed anche abolita da un Papa83, e in questo secolo dopo il 181584 fu restaurata e carezzata: così quel che pare un capriccio di cattivo gusto nel Giordani, ha riscontro in un fatto che operò sopra di lui inconsapevole85. Al ritornare dei Gesuiti si volle cercare il bene che essi avevano fatto, quasi cagione del loro ritorno: e il Giordani, che era tutto inteso a restaurare la buona lingua e il buono stile in Italia, credette vedere nel Pallavicino e nel Bartoli miracoli di scrittori86.

    La Storia della Compagnia di Gesù è una delle più importanti opere che il mondo aspetta, e non è fatta ancora: questa del Bartoli non è storia, ma una compilazione fatta su i racconti dei missionari; senza critica, senza affetto, un fantastico rimpasto di quei racconti pieni di miracoli e di superstiziose credenze. Nondimeno il concetto di questa storia ha qualcosa di grande: ella è storia universale: e il Giove che tiene in mano la catena da cui pende quest’universo è Ignazio: gl’Imperatori che dopo di lui la sostengono sono i Generali87 dell’Ordine: nel mondo non ci sono altro che i Gesuiti e coloro che essi combattono: ed è bello vedere le grandi nazioni dell’Asia coi loro superbi regnatori assalite da umili fraticelli che cercano mutare la coscienza dei popoli Asiani88 e renderli soggetti a Roma. Chi prenderà a scrivere la storia della Compagnia legga bene quest’opera del Bartoli, e in mezzo alle descrizioni lussureggianti, ed ai racconti assurdi e puerili, troverà gli ambiziosi disegni e la grande idea gesuitica.

    Per questa idea l’opera del Bartoli è importante, secondo a me pare, e non per lo stile che è tutto ipocrisia e civetteria. Il Bartoli, come tutti i Gesuiti, non ha un affetto mai, non ti fa sentire mai un affetto neppure per Gesù e per i Santi dei quali egli parla, onde tu non sai se egli creda davvero quello che dice: nessun pensiero mai, né ti fa mai meditare. Egli ebbe memoria forte, e fantasia gagliardissima, però89 il suo stile è tutto immagini, tutto frasi, tutto parole; è un giuoco, una fantasmagoria, e niente altro. Dentro è vuoto, senza pensiero, senza vita, senza verità, senza ordine: è un fascio di fattarelli tratti da tutti gli scrittori sacri e profani, e descrizioni di ogni minima inezia. Se il vizio può avere una sua bellezza, quel vizio che chiamammo secentismo, nel gesuita Bartoli ha uno splendore che pare bellezza; perché le frasi sono veramente smaglianti e tutto oro macinato e perle strutte, come il Giordani dice bartoleggiando; e la lingua è veramente la più ricca e sfoggiata; quella forma somiglia uno di quei vestoni ricamati in oro che stanno ritti da sé soli, e si mettono sopra un fantoccio non sopra un uomo che non ci si potrebbe movere dentro. Nello stile del Bartoli non c’è l’uomo, ma il gesuita: però90 è imitato da tutti i gesuiti e gesuitanti che quando parlano e scrivono fanno mille attucci come le civette, e studiano piacere con l’arguzia e i concettini, non sanno dir mai le cose con le parole naturali, non hanno anima che senta.

    Oltre le Storie scrisse alcuni trattati di Fisica, nei quali egli vuol ridurre le sue medesimo esperienze a’ principii peripatetici91, che già Galileo aveva banditi dalla Scienza: scrisse vari trattati morali, come l’Uomo di lettere, la Ricreazione del Savio, i Simboli trasportati al morale, La Povertà contenta, L’ultimo e beato fine dell’uomo, l’Eternità consigliera, l’Uomo in punto di morte; nei quali di morale v’è un pochino, e poi quanta erudizione sacra e profana si può raccogliere tutto v’è messo dentro. Il Bartoli era prontissimo a scrivere d’ogni cosa, perché credeva che l’arte del dire non fosse altro che lingua e frasi: e con lui tutti quelli che tentano prostrare l’anima umana negandole il libero volere92, non sanno pregiare altro che le parole e le frasi. Per me il Bartoli è la più chiara pruova che il Secentismo è il gesuitesimo nello stile93. Nacque in Ferrara nel 1608, morì in Roma nel 1685. Pp. 367-370.

    1Seneca: Lucio Anneo Seneca di Cordova nella Spagna, figlio del grande retore Anneo S., senza prenome, nacque intorno all’anno 0, morì suicida su ordine di Nerone, del quale era stato precettore, nel 65; massimo filosofo morale romano. Non stupisce che il massimo ragionatore di etica che Roma abbia dato sia stato anche una delle personalità più contraddittorie, che abbiano scritto in materia. Figura decadente, scrive di morale e politica, teatro, lettere filosofiche (ad Elvia, a Lucilio), trattati; l’opera a cui il Bartoli qui si rifà è l’unico compiuto trattato di fisica della latinità. Il suo stile, franto e interrotto, non piacque a Nerone, che lo chiamò sabbia senza calce (arena sine calce), benché, quando non tratta di materie direttamente attinenti all’esperienza privata, abbia quella tendenza al prolisso, al fiorito, che mostra quanta somiglianza ci sia tra la romanità “spagnola” del I sec. dell’E.V. e il ‘600 barocco; anche, verosimilmente, nei presupposti etici.

    2Si tratta delle Naturales quaestiones, che “si collocano nell’ambito della letteratura meteorologica antica” (Questioni naturali di Lucio Anneo Seneca, a cura di Dionigi Vottero, UTET, Torino 1989, p. 9. Dell’op. rimangono soli 8 ll., con numerazione 1-7 perché la successione prevede un l. IV a e un l. IV b. Quanto alla datazione dell’opera, Seneca dichiara nel testo di aver posto mano all’opera da vecchio (III, Praefatio, 1: “Non praeterit me, Lucili virorum optime, quam magnarum rerum fundamenta ponam senex…”: “O Lucilio, che sei il migliore tra gli uomini, no mi sfugge di che imponente opera io, ormai vecchio, getti le fondamenta…”, ib. pp. 376-377); fermo restando che per i romani la senectus cominciava a 60 anni (ib., p. 10n.), e Seneca doveva essere nato nel 5 a.C., ci sono tre passi dell’opera che illuminano sulle date possibili. Il primo è in VI De terrae motu, 1, 1-2, dove si dice: “[I, 1] Pompeios, celebrem Campaniae urbem, in quam ab altera parte Surrentinum Stabianumque litus, ab altera Herculanense conveniunt et mare ex aperto reductum amoeno sinu cingunt, consedisse terrae motu vexatis quaecumque adiacebant regionibusm, Lucili virorum optime, audivimus, et quidem hibernis diebus, quos vacare a tali periculo maiores nostri solebant promittere. [2] Nonis februariis hic fuit motus [Regulo et Virginio consulibus], qui Campaniam… magna strage vastavit”, cioè: “[1] O Lucilio, che sei il migliore tra gli uomini, abbiamo udito che Pompei, frequentata città della Campania, dove si congiungono da una parte le coste di Sorrento e di Stabia, dall’altra quelle di Ercolano e cingono con un’amena insenatura il mare che lì si ritrae dal largo, è sprofondata in seguito ad un terremoto che ha colpito tutte le regioni adiacenti, e che questo è accaduto proprio durante i giorni invernali, che i nostri antenati erano soliti garantire esenti da un pericolo simile. [2] Questo terremoto si è verificato alle None di Febbraio [sotto il consolato di Regolo e Virginio], e ha devastato con ingenti rovine… la Campania”; è stato uno dei terremoti che si sono susseguiti prima della famosa eruzione del 79 E.V.; il terremoto a cui si riferisce qui Seneca, appunto, ha una data precisa, quella del 5 febbrajo (le “none”, sotto il consolato di Regolo e Virginio) 62 E.V. Il secondo passo è in VI, 1, 13: “anno priore in Achaiam et Macedoniam, quaecumque est ista vis mali, [quae] incurrit, nunc Campaniam laesit”, che conferma la notizia precedente, dicendo: “l’anno scorso la violenza di questa sciagura, quale che essa sia, si abbatté sulle province di Acaia e di Macedonia, ora ha lesionato la Campania”. Il terzo passo collega cronologicamente l’apparizione di una cometa con i terremoti d’Acaja e Macedonia e poi Pompej sopra riferiti, ed è in VII De cometis, 28, 3: “[3] Fecit hic cometes, qui Paterculo et Vopisco consulibus apparuit, quae ab Aristotele Theophrastoque sunt praedicta; fuerunt enim maximae et continuae tempestates ubique, at in Achaia Macedoniaque urbes terrarum motibus prorutae sunt”, vale a dire: “[3] Questa cometa, che apparve sotto il consolato di Patercolo e di Vopisco, ha prodotto gli effetti previsti da Aristotele e Teofrasto; infatti si verificarono dovunque continue e fortissime tempeste, mentre in Acaia e Macedonia crollarono delle città a causa di terremoti”. La cometa apparve l’anno 60 E.V.; M. Manilio Vopisco e C. Vellejo Patercolo furono consoli suffetti per lo stesso 60, II semestre (sicuramente nel periodo 15/07-02/09). Ib., pp. 576 e n., 577 e n., 578, 579 (VI, 1, 1-2), 584 e n., 585 (VI, 1, 13), 720 e n., 721 (VII, 28, 3). Seneca è il classico preferito dai Secentisti, con Pindaro e Tacito; l’idea stessa dell’opera trascorre nel Bartoli: “La forme même que Sénèque a donnée à ses Question naturelles prouve qu’il les a écrites en moraliste, beaucoup plus qu’en homme de science”, Sénèque, Question naturelles, t. I (ll. I-III), texte établi et traduit par Paul Oltramare Professeur honoraire de l’Université de Genève, Société d’Edition “Les Belles-Lettres”, Paris 1929, pp. Xxiv-xxv.

    3Presosi: “avendo intrapreso”.

    4Cagione: “causa”, “motivo”, “ragione”.

    5Effetti: “fenomeni”.

    6A tanto a tanto: “di tanto in tanto”.

    7Assorbimenti: “sprofondamenti”.

    8Tremuoti: forma corrotta sempre di terrae motus, rispetto a cui l’italiano dell’uso attuale è più conservatore.

    9Subitane: sic; da un singolare maschile subitano.

    10Sboccati: “fuorusciti”, “sgorgati”.

    11Maraviglia… maravigliosi: gioco etimologico. Giova ricordare che una delle caratteristiche più spiccate, specialmente della prosa (ma non solo: v., per es., Antonio Abati, m. 1667, molto bisticciato anche nel verso, e con lui varj burleschi, satirici e giocosi), del Barocco è il gioco paretimologico, normalmente, dove si stabilisce, cioè, in base alla rispondenza fonica, una capricciosa corrispondenza di significato tra vocaboli in realtà derivati da radici differenti, o differenziatasi, o diversamente specializzatasi. Uno dei campioni di quest’artificio fu il frate minimo Francesco Fulvio Frugoni (Genova, 1620 ca. – Venezia, 1684 ca.), che nel suo Il cane di Diogene, diviso in sette “latrati”, e in particolare al quinto, intitolato Il tribunal della critica, nel quale sfilano tutte le personalità importanti del pantheon letterario del frate, dà del Bartoli stesso, riferendo a modo suo delle opere migliori (tra le quali L’uomo di lettere è indicato come il capolavoro), e mostrando infine un Bartoli sorridente, indifferente alla fama [il testo del Frugoni è accompagnato da noticine in margine, nei ‘vivagni’, occorrenti più che altro a scandire ritmicamente il testo, che riproduco in corsivo tra parentesi quadre]: “Ragunossi quella mattina di nuovo il critico Tribunale per pesar e censurare altri libri che restavano alla bilancia avanzati. Furono posti sopra di essa quelli di Daniello Bartoli [L’uomo di lettere del Bartoli celebrato], che non erano pochi, ma numerosi più anche per lo stile che per lo numero. L’uomo di lettere, che di statura picciola, come il Bartoli medesimo, era, com’egli, di lettura e letteratura così grande che sorpassava non solo le altre opere di lui, ma eziandio molte e molte altre, ancorché più voluminose e ripiene. L’erudizione in esso era così propria, così ben adattata, così vivace che non si potea né più bella, né più giudiciosa, né più opportuna considerare. L’invenzione spirava ingegnosa maestria e lo stile atico, perciò succhiosamente fiorito, esalava una fragranza mirabile: talché in quel angusto sito di pochi fogli si ristringean tutte le delizie dell’eloquenza più florida e della dicitura più erudita. Bilanciato l’Uomo di lettere però più solo, come singolarmente ponderato, che tutte l’altre opere di questo celebre autore, che anche a parte pesavano molti aurei talenti; ma degeneravano da quello per lo stile declinante all’asiatico, benché d’erudita suppellettile pompeggiante. La povertà contenta [La povertà contenta del medesimo doviziosissima] era così doviziosa che potea chiamarsi con ragione contenta: povertà filosofica, e perciò da preferirsi alle ricchezze di Creso e di Crasso. La conversazone del savio [La conversazione del savio e le Storie del Bartoli] mostrava bene che ‘l Bartoli appresa l’avea dal conversar seco medesimo, in cui solo si compendiava tutta la compagnia dei savi ed avean conferenza tutt’i savi della Compagnia. Le Storie dell’America scaturivano, come il Rio della Plata d’argentea piena, con ridondante profusione. Vedeasi correr un Gange imperlato in quelle dell’India orientale, travasante dagli argini per la veeemenza dell’alveo prezioso. La Cosmografia morale [La Cosmografia morale, l’Uom al punto lodati; aggiungansi anche i Simboli, etc.] contenea un mondo numeroso d’insegnamenti celesti per riformar i costumi terreni. L’uom al punto era così puntualmente delineato che conduceva l’uom al centro. // Questo fu il parere del Giudicio, dopo il quale, insorta la Lingua Italiana, con vezzo dolce glorificò il Bartoli, che sotto nome di Ferrante Longobardi l’avea indorata ed avesse cacciati d’Italia i longobardi barbari, cioè gli errori della buona lingua che tiranneggiavano le scritture. “Col suo non si può – dicea – egli ha vendicato il mio torto [Il torto Elogio della Critica al Bartolie il diritto del non si può lodatissimo], m’ha tolti di faccia molti nei; tanto più degno di lode quanto ch’egli non nacque toscano ed insegnò a’ toscani medesimi come s’abbia a scrivere: siché il Po è divenuto maestro all’Arno”. // La Critica disse [Elogio della Critica al Bartoli] : “Grand’onor merita quest’autor rinomato, aiutante dell’Istoria, consiglier dell’Erudizione, segretario della Lingua Italiana, camerier della Chiave d’oro del nostro serenissimo Apollo ed uno de’ miei sensatissimi collaterali. Tra gli oratori egli ebbe vanto d’usignuolo; ed anche tra’ poeti potea conseguirlo di cigno, se l’avesser lasciato cantare. Non invano ei porta il nome di Daniello, per essere vir desideriorum, come apparisce dalle sue opere, che sono tutte aspirazioni. L’incolpano in esse (toltone L’uomo di lettere) di troppo asiatico, e che prorompa talvolta in certi fiorentinismi affettati che diminuiscono a quelle il pregio. Hassi però a scusare la passione di voler parer rigorosamente troppo toscano e ‘l profluvio del di lui grand’ingegno troppo facondo. Egli fa eccezione a quella regola che sia meglio pescar nel poco che nel molto. Non sanno trattenersi que’ torrenti che pieni d’acque limpide, perché non arenose, gorgogliano con rimbombo e vengono a disarginarsi con ridondanza. Il Bartoli, che in un corpo ristretto chiude un’anima grande, d’accredita pur in ciò l’Alessandro delle lettere [Magnus Alexander corpore parvus erat], ond’a guisa d’Alessandro che non capisce nel mondo, non capisce ne’ suoi libri, che son un mondo saggio, erudito ed eloquente”. // Così divisava la Critica, e ‘l genio del Bartoli, che tra quee’ savi seduto trovavasi, ià molto pria registrato nel Tribunale, rideasi degli encomi che udiva tributati al di lui merito. Ridea o per contento di sentir le sue fatiche acclamate come profittevoli o per disprezzzo di generosità, non curante altra gloria che l’eterna. Sapea ben egli che la mondana sia fumo [La gloria mondana è un fumo che si dilegua più quanto più ascende], che la celeste sia luce; onde rivolto col guardo interno all’eternità dell’altra vita, in cui solo si ricompensa il merito, non facea conto degli applausi alla temporale, in cui non si distribuisce il premio a misura del merito, il quale quantoo è più insigne tanto più è negletto”. Francesco Fulvio Frugoni, Il tribunal della critica, per c. Sergio Bozzola ed Alberto Sana, Fondazione Pietro Bembo/Ugo Guanda Editore, Parma 2001, vol. I, pp. 432-435 (corr. alle pp. or. 408-410). Il brano, come probabilmente qualunque passo del Frugoni, illustra a puntino l’importanza del gioco paretimologico, che ha varie implicazioni, e quanto esso pesi sulla costituzione del testo, materialmente, anche come scelta dei materiali e loro impiego, o anche loro deformazione, e non solo come ‘scelta stilistica’. “Numerosi più anche per lo stile che per lo numero”: la radice è la stessa, ma è utilizzata in due accezioni diverse. Lo stile, o il verso ‘numeroso’ è il verso pieno di suono, sostenuto e ricco; il secondo “numero” rimanda invece alla quantità. “Di lettura e letteratura così grande”: come sopra, dal noto legere, ed è modesto il bisticcio sulle accezioni, dove la ‘lettura’ grande implica la proficuità della lettura data del testo lodato; la ‘letteratura’ indica l’erudizione. Ad un’amplificazione, giocata sulle due forme geminate in italiano da flos, serve quel riferimento a “lo stile atico, perciò succhiosamente fiorito … dell’eloquenza più florida e della dicitura più erudita”, dove le due specializzazioni della radice creano una variatio tra elementi che, anche nel significato, si riducono a una sola cosa. Stessa cosa con “pesò più solo, come singolarmente ponderato…” (ambi a pondus). Una possibilità ulteriore è offerta dal gioco su La povertà contenta, la quale è talmente ricca (“doviziosa”), s’intende nello stile, che per forza è contenta: dove il secondo ‘contenta’ indica la soddisfazione di ordine materiale. Il gioco era abbastanza fatale in àmbito ecclesiastico genovese, quello in cui il Frugoni s’era formato, data la vigorosa adesione dei predicatori alla normativa antisuntuaria e alla campagna di moralizzazione conseguente di cui la Repubblica s’era fatta carico; si ricordi la tirade al fulmicotone, di decine di pagine, dello stesso Frugoni tra gli apparati dell’Epulone, e il caso limite del suo amico e protettore Anton Giulio Brignole-Sale, passato nella Compagnia di Gesù nel 1652, a cui il ‘papa nero’ Giovan Paolo Oliva sconsigliò la pubblicazione del Quaresimale (nel II vol. delle Lettere di quest’ultimo, 1704), che forse l’autore finì col distruggere, o non conservare con abbastanza cura da farcelo pervenire, proprio a causa dell’ossessività della polemica contra ‘l lusso moderno. La frase seguente, “povertà filosofica, &c.”, riporta la natura di questa contentezza al suo significato più logico e aderente. Il gioco tra Creso e Crasso è della tradizione (come l’antitesi del piccolo corpo del grand’Alessandro in conclusione). Ma il massimo interesse riveste la frase seguente, in cui è presentato un libro che chi conosce la bibliografia del Bartoli non s’aspetta di trovare: “La Conversazione del savio mostrava bene che ‘l Bartoli appresa l’avea dal conversar seco medesimo, in cui solo si compendiava tutta la compagnia dei savi ed avean conferenza tutt’i savi della Compagnia”. Chi conosce la bibliografia, almeno, del Bartoli, sa che il gesuita non ha mai scritto nessuna Conversazione, semmai una Ricreazione del savio. Ci si chiede, ovviamente, se il Frugoni, che è arrivato a definire Emanuele Tesauro il primo intellettuale d’Europa e Giovan Battista Vidali l’oscuratore del Marino, abbia almeno letto i testi di cui parla; e quanto fossero letti dai suoi lettori, e se ne avesse, lettori (cosa di cui, data una lettera, molto bella, dello Stigliani sarebbe possibile anche dubitare). Non si tarda, poi, a capire come lo svarione, abbastanza perdonabile data l’orchestrazione retorica tipica, sia in realtà intenzionale, per via del complimento al Bartoli, racchiuso nel cerchio metallico dell’autoriferimento, e, soprattutto, della disseminazione fonica che ingraondisce e fa riverberare il gioco paretimologico (la prima accezione di “conversazione”, secondo un uso noto in tutt’Europa, c’entra con la frequentazione di uomini dotti, vale a dire con quella civiltà che il secolo seguente avrebbe identificato, francesemente, con quella del salotto; il secondo “conversare” sembra più generico e letterale): “La Conversazione del savio mostrava bene che ‘l Bartoli appresa l’avea dal conversar seco medesimo, in cui solo si compendiava tutta la compagnia dei savi ed avean conferenza tutt’i savi della Compagnia”; ma nota anche se-co, co–mp-endiava, co–mp-agnia, co–mp-agnia. Per una filza così ben azzeccata, valeva la pena di fare un po’ di forza al vero. Ma non è solo la rispondenza fonica a decidere. Il Bartoli, il Salgàri della Compagnia di Gesù, è narratore fluviale? Ecco compresi due pezzi della sua Istoria tra due fiumi-simbolo: il Rio de la Plata (cioè “il fiume d’argento”, nel castigliano che il Frugoni ben conosceva) per le Americhe e il Gange per l’Oriente. Tutto a posto, allora? Nossignori: si dà il caso che una così perfetta simmetria nelle parti degl’Infedeli istorizzate dalla penna del gesuita esistano solo nella penna del minimo; perché il Bartoli non ha mai scritto nulla sulle missioni d’America. La scrittura bifocale, e quindi simmetrizzante (e asimmetrica) ed antitetizzante, e geminante, barocca s’impossessa del reale e v’insinua, dove non la scorge, la duplicità strutturale. Ad un puro caso di attrazione (ma quanto era consapevole un simile modo di procedere, dovesse aver ragione Umberto Eco, quando sostiene che tutto questo strumentario, esposto con ordine e sensibilità d’artista dal Tesauro, a suo tempo era diventato un modo di ragionare? Con tutte le conseguenze filosofiche del caso, il bene e il male nel disegno divino, come nei romanzi, secondo Leibniz, sù sù fino a Hegel, Marx… E il Marino, certamente, era uno che aveva questo modo di ragionare!) l’attribuzione di questa terza ed ultima opera inesistente, da Libraria del Doni, dove però le opere, invece di essere inventate di pianta, sono riviste – solo quanto a copertina, perché questo Tribunal è una vetrina, non vero luogo di processi – nello specchio deformante delle rispondenze aggroppate a due a due: quella, cioè, della Cosmografia morale, che ricorda la (Geo)grafia (trasportata al) morale, ma che non è quella, sicuramente: è un’opera in grado, meglio di quelle reali, di raffigurare emblematicamente il senso del Bartoli scrittore, projettandone magnificamente la sua figura su uno sfondo ancòra più ampio di quello, già vasto, da lui effettivamente esplorato: non quello della Compagnia di Gesù, che ha coperto con le sue missioni tutto l’orbe terracqueo, ma il cielo infinito, in antitesi ovvjssima con la terra; se parla del cielo (cosa che il Bartoli s’è mai sognato di fare, anche in altre opere) è pensando alla terra; ma la rispondenza fonica, che realizza l’ideologico uguale-e-contrario proprio dell’antitesi, è nella sillaba cos della celeste Cos-mografia e dei terreni cos-tumi. Non fa mestieri il dire che il Bartoli, non artista ma “storico” e retore, tenuto per ragioni professionali ad un oprare di assoluta coscienziosità, quando non tutto verificabile almeno conveniente alla Compagnia, non volendo rinunciare a questo artificio, che di tutti gli artificj barocchi è uno dei meno rinunciabili, si limita dimolto, riducendosi a volte al limite della ridondanza, o di qualcosa di molto prossimo ad un accusativo dell’oggetto interno (quel [com]patire il patire del malinconico, dove lo scarto è minimo, ed è garantito appena dalla composizione del patior col cum). Basta questo esempio ad illustrare lo jato profondo tra Bartoli scrittore militante e stipendiato, animato da spirito di servizio, e il Frugoni, l’uomo che in teoria non potrebbe – dove lo trova il tempo, tra tanti rivolgimenti? – scrivere, eppure lo fa lo stesso; l’uno incaricato di ricostruire il mondo dei gesuiti in carta – come, anche con marchingegni, il Kircher in latino; l’altro autoincaricatosi di distruggerlo nella pagina via via sovraccaricantesi di glifi contorti. Forse il Frugoni lo sapeva, di essere l’antiBartoli, destinato a dispiacere al Manganelli e al Pieri (ma non al Croce, piuttosto attento, e quasi affettuoso); e in effetti il Bartoli che ridacchia, sul finale della sua scena, risulta, chissà perché, abbastanza odioso.

    12“Cessa… tale ancor è sotterra”, ammenoché non si rifaccia a una tradizione diversa, o interpolata, rispetto alle edizioni moderne, questo periodo non dovrebbe corrispondere esattamente a nessun passo dell’originale, ma riassumere il concetto poi esposto rifacendosi, con coerenza retorica, a quanto precede nel testo senecano, che pone parecchie domande circa i complessi rapporti tra acque e terra introducendole con un “miramur” (“ci meravigliamo”), per esempio (in 4), o provocando l’ammissione dell’interlocutore Lucilio con “quos quid miraris” (“delle quali cose perché meravigliarti”, 8, 1), o “Quid, si … mireris” (“Che dire se … ti meravigliassi”, 10, 2), &c., sempre imperniate sul miror, “mi stupisco”. Questo “Cessa … ogni maraviglia” tronca questa sequela di stupori passando direttamente alla soluzione, e cioè che il seno della terra è altrettanto variegato e frastagliato quanto la superficie, verità che in Seneca è preparata da una lunga serie di esempj appassionatamente prodotti in filza. Dev’essere fatto riferimento all’opus magnum del Mundus subterraneus del p. Athanasius Kircher, S.J., che a sua volta prende origine da quest’attrazione barocca per la realtà alternativa delle profondità, e ha in queste pagine di Seneca sulle acque terrestri il suo più antico e sodo punto di riferimento; o anche la nuova attenzione manieristico-barocca alle città viste “da sotto”, come la Roma sotterranea del Bosio, &c.

    13Havvi: “vi è” o “vi sono” (in questo caso la seconda), vecchia costruzione unica ricalcata sul francese (il y a).

    14Balzi: o “balze”, per noi.

    15Seni: “insenature”, genericamente, “meandri”, “rientranze”, “anfrattuosità”.

    16Acquidocci: un acquidoccio per il Battaglia è una “fossa (spesso in muratura) per convogliare le acque dei campi; canale, gora; conduttura, acquedotto”. Cita anche il Tommaseo-Rigutini, 1896, che tendono a darne una definizione più nettamente distinta dal simile acquedotto: “quantunque possa esser sinonimo di acquedotto, pur ne differisce, in quanto può ricevere un più general significato, intendendo per esso qualunque canale che serva a sfogo dell’acqua, come: fogna, chiavica, gora e simili”; il significato dato come attuale è quello che il Battaglia presenta per primo, e che ho riportato. Dal latino volgare acquiducium, derivato da acquiductus.

    17Il Battaglia dà come significato 2, dopo il toscanismo per l’usuale “scroscio”, secondo un fenomeno fonetico assolutamente tipico (v. anche schiacciata-stiacciata; schiaffo-stiaffo &c.), quello di “Rovescio d’acqua, scroscio di pioggia (e anche di altri liquidi); quindi non c’è quell’inopinata, scenografica attenzione al dato auditivo che pareva a prima vista. Esempj di Ojetti, Gadda, Montale.

    18Riverberi: anche qui, la presenza a breve distanza di fornaci e fucine induce a rifiutare la lettura suggestiva, stavolta in senso visivo, per diversa accezione, Battaglia 2, “- fiamma, fuoco di riverbero: calore intenso che viene riflesso da un’apposita superficie sul materiale da cuocere o da fondere in un forno. Fornace, fornello, forno a, di riverbero”. Esempj: Biringuccio, Garzoni, Bergantini, Spallanzani, Fanfani.

    19Anche queste frasi non si riferiscono esattamente a nessun luogo precedente del l. III, ma ripropongono i concetti in sunto. Struggimenti = “fusioni”.

    20Così va del: “la stessa cosa accade con”.

    21Dalle Nat. Quaest. l. III, 16, 4: “… credi pure che là sotto c’è tutto ciò che vedi qui sopra. Anche laggiù vi sono vaste spelonche e cavità enormi e valloni incassati fra le montagne che li sovrastano da una parte e dall’altra; vi sono baratri e crepacci di proporzioni gigantesche, che spesso hanno inghiottito intere città sprofondate e hanno seppellito per sempre, in quegli abissi, enormi cumuli di macerie”; così il Vottero cit., pp. 410-413; o, se si preferisce, il Raimondi 639n.: “Devi credere che sotterra si dà quanto vedi alla superficie. Anche costì sono vaste caverne, antri immensi e distese aperte con montagne a strapiombo da ogni lato. Vi sono voragini senza fondo, che spesso hanno accolto città inghiottite e nascosto nelle loro profondità crolli giganteschi”.

    22Euripide: sommo poeta tragico greco; di Atene, nato forse da umile famiglia intorno il 485 a. l’E.V., morì dopo una vita difficile intorno il 406 in Macedonia, dove pare sorgesse il sepolcro. Il Bartoli fa riferimento alla raccolta erudita delle Notti attiche di Aulo Gellio al l. XV, 5 (v. poi); Aulo ha un tesoretto di frammenti euripidei da opere perdute. La cifra di 75 sue opere si ha in XVII, 4, 3: “Euripidem quoque M. Varro ait, cum quinque et septuaginta tragoedias scripserit, in quinque solis vicisse, cum eum saepe vincerent aliquot poetae ignavissimi”: “Anche Euripide, come riferisce Marco Varrone, pur avendo composto 75 tragedie, con cinque sole di esse riportò la vittoria: in genere avevano la meglio su di lui dei poeti di nessun valore”, in: Le notti attiche di Aulo Gellio, a cura di Giorgio Bernardi-Perini, vol. II, UTET, Torino 1992, pp. 1216-1217.

    23Larga: “copiosa”, “abbondante”. Solito latinismo (perché in lat. largus vale anche “fluente”, “generoso”. Cfr. il solito Calonghi, Rosemberg & Sellier, poi altri, 1950 &c., “largus” vale largo, abbondante, copioso, ricco. Val la pena di notare, forse, come il “secco” François de Malherbe, gran normatore della lirica francese, nell’età del Marino aveva, nelle sue Observations a Ménage, prescritto di evitare l’espressione larges pleurs, qui est bon en latin mais qui ne vaut rien en français: il Bartoli con questa “così larga vena di lacrime” rievoca l’espressione latina, seguendo una (anti)precettistica contraria, che nelle vie torte dell’erudizione e nelle riposte pieghe dei vocabolarj riscopriva continuamente una ragion d’essere nel suo innalzarsi da qualunque quotidianità d’uso.

    24Da: “di”; per noi è complemento di specificazione, per il Bartoli e chi per lui complemento di mezzo.

    25L’erano: “erano”, semplicemente; robusto fiorentinismo.

    26In fatti: locuzione avverbiale: “fattivamente”, “di fatto”, “nei fatti”.

    27L’abbiamo: “lo sappiamo”; latinismo; terminologia giuridica, o filologica.

    28Non credendolo … suoi medesimi occhi: intendi: “non potendo / non volendo credere a ciò senza esser testimone di vista”.

    29Testimonio di veduta: “testimone di vista” o, appunto, “veduta”, terminologia giuridica superata dal nostro “testimone oculare”.

    30Aulo Gellio: erudito romano, e filologo, di famiglia cospicua, del II sec. dell’E.V., fu allievo di Sulpizio Apollinare in Roma, di Calvisio Tauro in Atene; nella città capital della Grecia, Erode Attico lo accolse con molto garbo. In Roma ebbe incarichi giudiziali, ma poté proseguire a piacimento i nutritissimi studj eruditi, che, corroborati da molte letture e dal commercio con tutti i maggiori dotti dell’età sua, portarono alla composizione dei 20 ll. (19 superstanno, perché l’VIII andò perduto) della compilazione de Le notti attiche, titolo ghiribizzoso motivato, a dire dell’autore, dal fatto che le tessere che le compongono furono stilate per alleviare il tedio delle lunghe notti invernali dell’Attica. Gellio riferisce scrupolosamente e attentamente quello che sente, e non aggiunge un pelo di proprio; questo ne fa un tesoro di notizie, fondate, su tutta l’antichità, specialmente sull’età arcaica, della quale si ha maggior desiderio di conoscenze. È scrittore ammanierato, fu dei cosiddetti “frontoniani”.

    31Filocoro: studioso di letteratura, storico ed esperto di mantica, ateniese; del III sec. a.E.V., sopravvive in 200 frammenti.

    32La notizia è in Aulo Gellio, Nottes atticae, XV, 5: “Philocorus refert in insula Salamine speluncam esse taetram et horridam, quam nos vidimus, in qua Euripides tragoedias scriptitarit”, cioè: “Filocoro riferisce dell’esistenza nell’isola di Salamina d’una caverna tetra e paurosa (noi l’abbiamo vista) nella quale Euripide stava a scrivere le tragedie”, in Le notti attiche cit., pp. 1116-1117.

    33Entrava: “si prolungava”, “si spingeva”.

    34Torte: “tortuose”.

    35Scoscesi i fianchi: “scabre le pareti”.

    36Tutta per entro: “all’interno, tutta quanta”. Il per implica, latinamente, complezione, totalità.

    37Orrida, specialmente in àmbito manieristico-barocco (si tratta infatti di uno dei preziosismi ricorrenti), non ha lo stretto senso latino e italiano, ma tende ad espandersi ad un’idea di “luogo solitario, oscuro, selvaggio”, non necessariamente spaventevole, tanto da produrre stravaganti binomj,

    38Nel mezzodì: nota la costruzione, come a dire “nel mezzo del dì”.

    39Un barlume di sera: espressione paradossale, che con un ossimoro ricercato descrive un fatto perfettamente naturale: la spelonca, si dice, era talmente scura che anche quando il sole era al massimo dello splendore dentro non penetrava nemmeno quella poca luce che può esserci la sera.

    40Scorto: “scortato”; uso consueto all’epoca di “scorgere” in quest’accezione.

    41Se non quanto: nota la costruzione: “fatta eccezione per”.

    42Furore poetico: latinamente, il furor, che equivale alla mania greca, o all’entusiasmo, è una condizione estatica, di estremo trasporto, appunto, identificata con l’ispirazione poetica.

    43Sacre: l’aggettivo apre una finestra sui culti misterici (letteralmente: “notturni”), celebrati nelle profondità degli ipogei. L’ombra della caverna come sede privilegiata nello scambio col divino, che in parte coincide peraltro anche cól “furore” poetico.

    44Questa la sotterranea … corpi vivi: impossibile non richiamarsi, quantomeno, al Marino, al suo Adone, e, di questo, al c. XIII di Falsirena. L’identificazione tra poesia e necromanzia è importante, per esempio, anche in Bartolomeo Dotti secondo l’interpretazione di Valter Boggione.

    45La sequenza di personaggj fatta sfilare dal Bartoli può colpire stranamente il lettore odierno non digiuno di tragici greci; a partire da quell’Edipo che non è certo associato al nome di Euripide, essendo noto come il capolavoro di Sofocle. Il fatto è che di Euripide sopravvivono 19 drammi, più o meno certamente datati (traggo le informazioni da Lessico ragionato dell’antichità classica di Federico Lübker, traduzione di Carlo Alberto Murero pubblicata da Forzani e C. – Roma, 1898, condotta sulla sesta edizione tedesca. Ristampa anastatica con una premessa di Scevola Mariotti, Zanichelli, Bologna sett. 1989): 1) Ecuba, 423; 2) Oreste, 408; 3) Le fenicie, Atene, ?; 4) Medea, 431; 5) Ippolito incoronato, 428; 6) Alcesti, 438; 7) Andromaca, post420; 8) Le supplici, 420 ca.; 9) Ifigenia in Aulide, rappr. Postuma; 10) Ifigenia fra i Tauri, ?; 11) Reso, attribuita; 12) Le trojane, 413; 13) Le baccanti, ?; 14) Gli eraclidi, 421; 15) Elena, 412; 16) Jone, 420 ca.; 17) Ercole furente, 422; 18) Elettra, ?; 19) Il ciclope, dramma satiresco; più una quantità ingente di titoli e frammenti, di cui in varie opere non sue, sotto forma di citazioni. Aulo Gellio, che fu uno degli autori para-classici più amati nel Seicento come erudito e raccoglitore di curiosità e minuzie, è una delle fonti principali, o meglio è stata, con il bizantino Suida e Tommaso Magistro, fino alla scoperta della Vita di Euripide di Satiro in un papiro egizio (1912). A questo proposito, leggi quel che ne scrive il prof. Louis Méridier, Professeur à la Faculté des Lettres de l’Université de Paris, in introd. all’ed. critica delle opere e dei frammenti di Euripide per i tipi delle Belles Lettres, Parigi 1956 e aa. ss. (la traduzione, dal chiaro francese del chiarissimo, per maggior scioltezza, è mia): “La vita e l’opera di Euripide. Le fonti. Una Vita tràdita da qualche tardo manoscritto, un capitolo di Aulo Gellio, un articolo di Suida, una notizia di Tomaso Magistro, e infine lunghi frammenti del βίος Ευριπίδου di Satiro scoperti qualche anno fa in un papiro egiziano: sono queste le nostre principali fonti d’informazione sulla vita d’Euripide. Le più antiche sono i frammenti di Satiro e la Vita. Le indicazioni forniti da Aulo Gellio, Suida, Tomaso Magistro derivano, in gran parte, dalla Vita, che si basa a sua volta su una compilazione di Filocoro, Satiro e altri eruditi d’epoca ellenistica. Essa cita espressamente Filocoro, Eratostene ed Ermippo, ed in più luoghi presenta una somiglianza quasi letterale cól testo di Satiro. Satiro stesso ha dovuto attingere a Filocoro, e anche alle didascalie. Grazie a questi due documenti possiamo risalire fino alle opere degli Alessandrini e anche oltre. Tali testimonianze non sono da trascurare. Tuttavia possiamo pervenire a conclusioni certe solo su un piccolo numero di fatti: assai per tempo, intorno ad Euripide si era formata una leggenda che Filocoro, Satiro e gli eruditi alessandrini raccolsero; ed essa è fondata in parte sull’autorità della commedia antica, vale a dire su notazioni buffonesche e maligne, le quali lasciano trasparire il vero solo con molta difficoltà e che devono essere usate con estrema cautela”, pp. i-ii. Riferirsi alla commedia antica qui equivale a riferirsi ad Aristofane (452ca. a. E.V.-388), l’altra cuspide del dramma greco, genio assoluto, poeta di lussureggiante fantasia, incontenibile vis comica, acre, velenoso e violento, che con Le nuvole (423) berteggiò la sofistica, identificata col peraltro innocente Socrate, e con Le rane (405), per denunciare la decadenza di un’istituzione civile fondamentale come la tragedia, distrusse la fama personale di Euripide (Lübker cit.).

    46Edipi: nota peraltro i plurali, molto usitati in epoca barocca in funzione antonimica (secondo la tecnica speculativa e compositiva del tempo, che procedeva per tessere e rimandi en abîme, il nome evocava emblematicamente un aspetto morale); qui l’uso è prossimo a quello moderno. Edipo, re di Corinto, esposto alla nascita in quanto predetto avrebbe ucciso il padre, giunto alla maggiore età uccide in effetti il padre, Lajo, senza sapere, e sposa, sempre senza sapere, la madre Giocasta. Saputa da Tiresia la verità, si acceca e va ramingo fino a Colono, dove trova la morte. Drammi a noi noti sono quelli di Sofocle (Colono, 497 a.E.V. ca.-406/405), del quale sopravvivono 7 tragedie sole, tra cui, appunto, Edipo re ed Edipo coloneo (Lübker cit.).

    47Atrei… Tiesti … Tantali: Atreo, Tieste e Tantalo sono connessi tra loro, e con altri personaggj citati: Tantalo, re di Sipilo e grosso modo della Lidia, è padre di Pelope, che ha figlj, tra loro rivali, Atreo e Tieste; Atreo è padre peraltro di Agamennone, Tieste di Egisto. Tantalo dà Pelope in pasto agli dèi per vedere se si accorgono che carne sia, ed è condannato alla famosa pena che lo tiene in stato perenne d’insoddisfatte fame e sete. Riportato in vita, salvo la spalla mangiata dalla sbadata Demetra, rifatta in avorio, conquista Ippodamia facendone morire il padre Enomao, che ama incestuosamente la figlia; ma fa morire anche Mirtilo, che l’ha coadiuvato nel regicidio. Mirtilo è figlio di Ermete, che da allora perseguita tutta la schiatta dei tantalidi. Da Pelope e Ippodamia nascono Atreo e Tieste, che sono tra loro rivali. Ermete perfidamente dà ad Atreo un ariete d’oro, che dà diritto al trono; Tieste, amante di Aerope sposa di Atreo, riesce ad impossessarsi dell’ariete. Atreo lo bandisce, ma più tardi finge riconciliazione, e dà un banchetto; ma durante esso fa servire le carni dei figlj di Tieste, al che il sole torna indietro per l’orrore. Di tutti questi personaggj, l’unico al quale sia intitolata una tragedia antica interamente pervenutaci è Tieste: un Thyestes, infatti, lasciò proprio Seneca. (Dizionario d’antichità classiche di Oxford, per c. M. Cary, J.D. Denniston, J. Wight Duff, A.D. Knock, W.D. Ross, H.H. Scullard, assistiti da H.J. Rose, H.P. Harvey, A. Souter; ed. it. per c. Mario Carpitella, Edizioni Paoline, Roma 1963, 3 voll.).

    48Medee: Medea, principessa della Colchide (paese orientale, corrispondente a parti delle attuali Turchia, Georgia, Armenia), discendente del Sole e di Ecate, dea “dalle belle caviglie” già in Esiodo, Teogonia, figlia di Eete, sorella di Absirto, sedotta da Giasone incaricato di conseguire il Vello d’oro, accompagna l’amante nella fuga dopo aver ucciso e fatto a pezzi il fratello. Tradìta da Giasone, fa fare una morte atroce alla sposa di questi, Glauce o Creusa che dir si voglia, e uccide i figlj proprj e di Giasone, 50 nel racconto, solo 2 nella tragedia euripidea (sicché circolò anche voce che fosse stato pagato dai Corinzj perché diminuisse drasticamente il numero dei figlj massacrati per non suscitare le ire della maga tremenda). Dramma dello scontro di civiltà, e dell’oblio delle origini ctonie da parte della civiltà urbana, la tragedia è con le enigmatiche Baccanti il capolavoro assoluto di Euripide; trattandosi di una dea, più che di un’eroina, che affonda nello squallore e nella miseria morale degli uomini, e si riscatta cupamente (per tornare al cielo, ma trasformata – questo il mito, che Euripide interpreta in modo quasi “borghese”, concentrandosi sulla venuta di Medea in Corinto a consumare la sua vendetta), servì per secoli come canovaccio per la rappresentazione bizantina della vita di Cristo.

    49Aiaci: Ajace, di Telamone re di Salamina, eroe omerico, comandante il contingente della sua città (è da non confondersi coll’altro Ajace, il locrese, o “Ajace minore”), è di grande statura e forza, duella con Ettore (II, 206 ss.) e gareggia con Odisseo (XXIII, 708 ss.). Anche in questo caso il dramma a noi noto intitolato a quest’eroe è di Sofocle, che si rifà a una tradizione che riferisce del dopoguerra, e infatti ha riscontri nell’Odissea (XI, 543 ss.), quando l’eroe salamino, visto che le armi di Achille sono date a Odisseo (astuzia contro forza) e non a lui, impazzisce dalla rabbia e suicida.

    50Agamennoni: Agamennone, re acheo, per conciliarsi i venti alla guerra di Troja accetta di sacrificare la figlia Ifigenia. La sposa, Clitemestra o Clitennestra, non gliela perdona. Presosi per amante Egisto, consente a quest’ultimo di usurpare il trono con il regicidio, al quale presta opera a sua volta. L’altra figlia, Elettra, vendicherà il padre attraverso il fratello Oreste. È, per noi, dramma di Eschilo, il più vecchio dei tre tragici; ed è parte dell’unica trilogia completa pervenutaci (Agamennone, dell’uccisione del re; Coefore, dell’uccisione di Clitemestra da parte di Oreste ed Elettra; Eumenidi, di Oreste perseguitato dalle Furie, che gli si volgono in “benevole”, Eumenidi appunto, con l’assoluzione e l’espiazione, davanti all’Areopago di Atene. Il trittico, l’esito più ispirato, monumentale, alto e sublime della tragedia greca, fu recitato nel 458, quando il regime diventava finalmente compiutamente democratico abbattendo nell’Areopago stesso l’ultima delle istituzioni aristocratiche (Lübker cit.).

    51Egisti: v. n. 45. L’edizione delle opere euripidee nelle citate Belles Lettres, al vol. VIII, tomi 1,2,3, riporta i frammenti che superstanno oltre ai 19 drammi completi; il totale delle opere complete, dei frammenti e dei titoli ammonta a 80 (Euripide, Fragments, texte établi et traduit par François Jouan et Herman van Looy, Les Belles Lettres, Paris 1998, corr. al vol. VIII, tomo I, p. XXII), che sceverata di apocrifi riporta al numero di 75 di cui testimonia Aulo Gellio, segno che si rifaceva ad elenchi affidabili. Tra i titoli elencati in Fragments cit., pp. XXII-XXIV, nel novero dei nomi prodotti dal Bartoli ricorrono un Tieste (n. 31) e un Edipo (n. 49).

    52Sumministravano: “fornivano”.

    53Specie: latinismo (species) per “visione”. La rad. /spc/ è anche di spettacolo, speciale, prospiciente, cospetto, rispetto, sospetto...

    54Al farsi: “in sull’accadere”, “quando avvenivano”.

    55Catastrofi: vale nel significato corrente, è ovvio; ma trattandosi di tragedie, non deve sfuggire che la καταστροφή, ovvero “rivolgimento”, coincide con lo scioglimento nelle tragedie, ed è termine tecnico. Giova ricordare che Aristotele non si serve di questo termine nella Poetica, preferendo (18) inquadrare la tragedia nella dialettica tra “nodo” (δέσις) e “scioglimento” (λύσις), Aristote, La poétique, texte établi et traduit par J. Hardy, Préfet de l’Athénée royal de Charleroi, deuxième édition, Société d’édition “Les Belles Lettres”, Paris 1952, pp. 55 a&b.

    56Fortune reali: cioè la sorte, tragica in questo caso, dei prìncipi; perché la tragedia è azione scenica triste riguardante eroi, e gli eroi sono tutti re, regine o di sangue reale. Durante il Barocco, l’equazione è ribaltata, sicché i re e le regine, destinatarj dei complimenti, diventano eroi. Poema heroico è anche l’Adone, nella filigrana del quale si leggono le figure di Maria de’ Medici, di Enrico di Navarra, di Luigi XIII, benché sia l’esatto contrario di quello che con la stessa rubrica identificava il Tasso (infatti l’A. è poème de la paix, non di guerra; e l’eroe dell’epica s’identifica con il guerriero valente. Qui si tratta di tragedia: l’eroe tragico, gravato o no da un’antica colpa, volontaria o no, agisce in pieno il suo destino di morte. Ma il ribaltamento dell’equazione “eroe = re” vale anche per questo caso).

    57Sensi: vale, in antico, “sentimenti”, cioè, trattandosi di tragedia, le “passioni”.

    58Spirito: “intento”, “intenzione”.

    59Guai: nel significato originario; dunque è in endiadi con lamenti.

    60Voltavano: “tramutavano”, “trasformavano”.

    61E tutto … delle sue tragedie: costruisci: “E tutto quello che il suo furor elaborava in lui era quello che poi i personaggj delle sue tragedie dovevano recitare in scena”.

    62Modo: “mezzo”.

    63Machinarli: “concepirli”, “comporli”, ma più ancóra “ordirli”, “congegnarli”.

    64“Crede infra”… nel teatro: dove il sotterraneo è l’ipogeo che Euripide sceglie per comporre; e la superficie è la piena luce del teatro: quello che sta sotto sta anche sopra.

    65Ab estrinseco: “da fuori”.

    66In uscendo: costruzione antiquata e infranciosata del gerundio.

    67Lagrimevoli: “tragiche”, semplicemente; non c’è nessuna significazione

    68Dagli: “d’innanzi agli”.

    69Qui ansietà … morte: nota l’inserto irrelato, senza verbo; quasi a dire “e via con…”, “e giù con…”.

    70Camparsene: “scamparne” (cioè “scamparsela”, col rafforzativo del dativo etico).

    71Dovunque vada porta seco se stesso: tema di tutto il Seicento, barocco, parabarocco, antibarocco. Era un tema che faceva soffrire di per sé. Wallis nella disputa con l’autor del Leviatano altro non dovette farlo che intitolargli l’ennesimo libello Hobbes heautontimoroumenos per tacitarlo una volta per tutte. Senza rifarci all’oltranza elisabettiana – e a Marlowe, e a Webster – o alla melancholia degli Slesiani, nella quale giocavano un ruolo di primo piano anche fattori esterni a problematiche ‘nostre’, vediamo il tema (doppio; e molto centratamente senecano del potente malinconico nel livido sonetto di Lope su Sejano, per esempio (se non vogliamo rischiare l’affogamento nella precettistica romanzata dei Malvezzi e dei Gracián, naturalmente).

    72Il tema del malinconico persecutore di sé stesso, che non può sfuggire alla tortura che porta “incarnata”, appunto, “ai suoi stessi fianchi” è tema ossessivamente ricorrente nel Barocco, in tutto il Barocco.

    73Scilla: Raimondi: “La vergine, amata da Glauco ovvero Posidone, trasformata in mostro per gelosia di Circe”.

    74Et quos fugit, attrahit una: Ovidio, Metamorfosi, XIV, 63: “e al tempo stesso attrae su di sé quelli da cui vuol fuggire” (Raimondi). Ovidio è con Pindaro il poeta amato dai barocchi. Così il Marino, in una famosa lettera di Napoli, estate 1624 al peraltro inquieto seguace Girolamo Preti: “Rompansi pur il capo i signori critici disputando fra loro se con quel nome si debba battizzare [cioè se l’Adone possa chiamarsi poema heroico]: so che chi volesse far l’apologista averebbe mille capi da poterlo far passar per epico. E se bene favoleggia sopra cosa favolosa, si sa nondimeno che la favola antica ha forza d’istorica; ma se altri non vorrà chiamarlo “eroico” perché non tratta d’eroe, io lo chiamerò “divino”, perché tratta de’ dèi. Voi l’intitolate “poema fantastico e fuor di regola”, e dite che non può cadere la comparazione, perché sarebbe come un voler rassomigliare l’Eneide alle Metamorfosi. Adunque, secondo voi, di necessità ne segue che quello delle Metamorfosi sia poema irregolato e fantastico, né vi soviene di quello che lasciarono scritto molti di coloro che di quest’arte hanno trattato, cioè che si può fabricar poema non solo d’un’azione d’una persona e d’un’azione di molte persone, ma anche di molte azioni di molte persone, se bene non sarà così perfetto secondo la mente d’Aristotile. Parlo delle Metamorfosi (intendetemi bene) e non dell’Adone, percioché l’Adone non è azione di molte persone ma d’una sola; e parlo in quanto alla parte della disposizione, perché circa l’arte, come sono l’invenzione, il costume, la sentenza, l’elocuzione, io non credo che Virgilio passi molto davantaggio ad Ovidio, né che il poema delle Trasformazioni a quello dell’Eneide abbia da ceder punto. Anzi, se non avessi paura d’esser tenuto matto molto più di quel che dubbitate d’esser tenuto voi per aver detto quello sproposito, direi con ogni libertà che tra l’uno e l’altro è quella differenza che è tra l’A. e ‘l suo P. Ma perché non voglio esser lapidato dai fiutastronzi e dai caccastecchi, mi basterà dire che troppo bene averò detto che le poesie d’Ovidio sono fantastiche, poiché veramente non vi fu mai poeta, né vi sarà mai, che avesse o che sia per avere maggior fantasia di lui. E utinam le mie fossero tali! Intanto i miei libri che sono fatti contro le regole si vendono dieci scudi il pezzo a chi ne può avere, e quelli che son regolati se ne stanno a scopar la polvere delle librarie”. Giovan Battista Marino, Epistolario. Seguito da lettere di altri scrittori del Seicento, a cura di Angelo Borzelli e Fausto Nicolini, Laterza, Bari 1912, vol. II, p. 54-55.

    75Suggetto da: “compatibile cól”.

    76Tutto è … de’ malinconici: costruisci: “Il patire de’ malinconici è tutto volontario e non suggetto da compatire”.

    77Scusa: letteralmente, “scagionamento”; quindi, il malinconico dev’essere precisamente accusato come meritevole della sua morte.

    78Farlesi: “farsele”.

    79Il fine morale del Bartoli gesuita e impegnato non può non riprovare la malinconia. Di qui il suo ottimismo d’ufficio, di prammatica.

    80Enciclopedia italiana, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma 1949.

    Enciclopedia europea. Diretta da Livio Garzanti. Garzanti, Milano 1976.

    Grande dizionario enciclopedico UTET fondato da Pietro Fedele, UTET, Torino 1985 (4a ed.).

    Le edizioni veneziane del Seicento. Censimento. A cura di Caterina Griffante. Con la collaborazione di Alessia Giachery e Sabrina Minuzzi. Introduzione di Mario Infelise. Vol. I, A-L. Regione del Veneto – Editrice Bibliografica, Venezia dic. 2003.

    81Pietro Giordani: piacentino, 1774-1848. Le sue Opere, stampate in 14 voll. tra 1854 e 1863, riflettono il suo sforzo di conciliare una lingua nazionale piena di eleganze, in grado di mutuare anche dai secoli presunti argentei, se non fangosi, fiori di stile, con alte istanze civili e morali. Piacque molto al Settembrini, che aveva avuto formazione puristica sotto il gran Basilio Puoti, 1782-1847, maestro anche del De Sanctis. Fu amico del Leopardi, che a sua volta esagerò nell’esaltare il Bartoli, che non persuase però critici più ferrati come, appunto, Settembrini e De Sanctis. Ci sono belle epigrafi del Giordani (e una del Leopardi) nell’Epigrafia moderna, vecchio manualetto Hoepli.

    82Fu scacciata: cominciò il ministro Pombal in Portogallo, nel 1758, a buttar fuori i Gesuiti dalla sua nazione, ciò che costrinse peraltro i Fonseca y Pimentel a lasciare Roma (che per rappresaglia buttò fuori dai territorj della Chiesa tutti i portoghesi), segnando proprio quell’anno il fatale abbraccio tra Lenor e la città, e poi la libertà, di Napoli; seguirono tutte le altre nazioni d’Europa.

    83Un papa: Clemente XIV, che con grande dolore non poté che prendere atto della generale disgrazia in cui era caduta la Compagnia, i cui interessi risultavano ormai inconciliabili con quelli degli Stati nazionali. Peraltro, la Compagnia, con le sue famose Aziende d’oltremare, stava già diventando una potenza politica di fatto.

    841815: Ovvero con la Restaurazione, sancita dal Concilio di Vienna, che demolì l’Europa napoleonica e reinsediò l’assolutismo per quanto poté. Il ritorno dei Gesuiti fu una scelta politica precisa, e un segnale molto forte.

    85Operò … inconsapevole: ovvero non ci fu piena deliberazione, da parte del Giordani, di esaltare la reazione; egli, come tanti , si accostò alle opere, ormai neglette, dei Gesuiti, e rimase sedotto dall’immensità del fenomeno.

    86Miracoli di scrittori: infatti il Giordani non difese il gesuitismo, ma mostrò di apprezzare enormemente lo stile dei secentisti appena riscoperti; di fatto il Settembrini non disconosce affatto la preziosa funzione dello sperimentalismo barocco a livello di lingua.

    87Generali: nota come l’etichetta di ‘generale’ sia brachilogia per ‘direttore generale’; e come la fortuna della dizione alla breve faccia immediatamente pensare alla vocazione antica, militante se non quasi militare, della Compagnia al suo sorgere (1534). Imperatore è latinismo per ‘generale’, appunto, in senso militare (passò a significare quello che significa oggi per via dell’acclamazione che condusse l’imperator autor del De analogia a capo della civiltà Romana, e di molti paesi ad essa sottomessi.

    88Asiani: “asiatici”. Per noi asiano sopravvive solo nelle locuz. inerenti allo stile letterario.

    89Però: la prosa settembriniana si dipana fresca e delicata come sbocciano i fiori, ma purista è e purista, in ogni caso, rimane: in lui il però è etimologicamente per+hoc, ed introduce la consecutiva (come il nostro “perciò”), non l’avversativa (come il nostro “però”).

    90U.s.

    91Principii peripatetici: cioè aristotelici. Anche se il Bartoli non fu mai antigalilejano, tutt’altro.

    92Negandole il libero volere: questo il gesuitismo. Dietro la piacevolezza favolistica del Bartoli, il Settembrini vede le tetre mene dei Gesuiti di sempre, aggressivi, ambiziosi, votati alla morte.

    93Tesi che sostiene anche a proposito del marinismo.

    Tag:barocco, Daniello Bartoli, euripide, Seneca

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    270. Ragguaglj.

    22 Giu

    Chiedo scusa per il (non lungo) silenzio, ma sono stato un po’ in giro. Novità di rilievo non ce ne sono, o meglio, ce ne potrebbero essere se non avessi troppo rispetto del mio smisurato potere mediatico e non avessi la ferma, & magnanima intenzione di tacere circa il fatto che jersera sono stato verbalmente aggredito da un operatore della Parella, che chiaramente non posso nominare (ma magari querelare), che mi ha scagliato addosso accuse spaventose, insulti (tra cui “cazzone”) e almeno un litro di bava filacciosa biancastra (era un po’ eccitato) – tutto ciò in conseguenza di un mio post – del 4 dicembre 2006, prego notare!! – da cui si sentiva sputtanato.

    Mah.

    Ma naturalmente non ne dirò nulla, perché ovviamente non posso – è anche una questione di dignità, certe questioni non dovrebbero essere dibattute in un posticino di livello come questo (fottuti barboni). Però è stata anche un’esperienza, perché di là dal rischio di linciaggio da parte di alcune decine di Gabriolesi (non lo sanno che ai linciaggj io ci ho fatto altro che il callo, poveri ingenui), era la primissima volta che ero posto di fronte alla responsabilità di quello che avevo scritto sul blog. Finalmente! Toccare con mano che tutto questo ha ricadute sul mondo esterno costituisce una sorta di spartiacque tra un prima e un dopo (e se non voglio ripeterla, almeno non troppo spesso, mi sa che mi conviene scappare alla svelta, perché questo è un pirla e soltanto un pirla; ma metti che c’è gente che mena).

    Tag:gabrio, ragguaglj, remo bassini, segnalazioni

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    255. Di un curioso effetto ottico.

    3 Giu

    Di un curioso effetto ottico, riscontrato mentre osservavo le fronde confuse di due alberi agitarsi al vento nella luce di un lampione.

     

     

    Tra due piante, un lampione il ballo ai venti
    Illustra dei fogliami, e – vita ai suoli
    Pur non traendo – d’Enterichia coli
    Capo erge enorme, e scote in movimenti.
    – Ma solo finch’io fisso le stormenti
    Più presso al lume vegetanti moli;
    Delle verdi ali i vincolati voli
    Lascia l’occhio; e il lampione è sull’attenti!
    Donde arguisco illusorj, & apparenti
    Esser in vista i moti, risultando
    Dell’occhio successìvi aggiustamenti.
    Petreo è il mondo. E’ l’occhio che, vagando,
    Moto crea da più immobili momenti,
    Crea l’immobilità moto fissando.

    Tag:sonetti

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    206. Intorno a un relativamente noto sonetto di Ciro di Pers.

    9 Ott

    Tra tutti i marinisti, Ciro di Pers ha sempre goduto una posizione abbastanza privilegiata, sempre considerando che dei marinisti si è cominciato ad occuparsi, eccettuate le fatiche antologiche degli anni Dieci da parte del Croce e quelle degli anni Cinquanta da parte della Ricciardi e di Gio. Getto, solo nella seconda metà del secolo scorso. Tanto per dire, è stato il primo il cui canzoniere (nudamente intitolato Poesie, e la cui prima stampa fu postuma, 1666) sia stato stampato integralmente ai nostri giorni, per la cura di Michele Rak, nel 1978 e per i tipi di Einaudi.

    Il motivo di questa relativa fortuna, vale a dire della notevole considerazione di cui ha goduto, si deve a una relativa semplicità di dettato e, pur in compresenza di una certa, ma non incontrollata, fioritezza, il compatto restringersi della robusta raccolta intorno a temi del tutto barocchi, ma trattàti senza dispersioni. Come notò l’Asor Rosa (1968) lo scrittore, il poeta barocco è ossessionato dagli endoxa perché li ha perduti di vista: le nozioni certe della consuetudine, del quotidiano commercio, del buonsenso, quella parte assiomatica, e ricevuta, del pensiero umano — tale è il disorientamento che domina durante l’età del fango — si disperdono in un mondo di segnali contraddittorj, tutti da ricatalogare e risistematizzare. La maraviglia barocca, ribadirà il Pieri (1995) è di tipo catastematico, a partire dal Marino re del secolo, vale a dire che la sistematizzazione stessa, l’incasellamento, la raccolta ragionata dei dati — come anche la distruzione delle insufficienti categorie pregresse, la loro messa in discussione tramite antifrasi e altre forme di ironia distruttiva — sono di per sé stesse fonte di piacere, e sono facilmente identificate con la bellezza poetica. Ne deriva un’idea di bello poetico che nessun’altra età aveva mai avuto e che tutte le età seguenti si rifiuteranno, appunto categoricamente, di far propria.

    Ciro di Pers è friulano; proviene cioè da una regione che nel Seicento fu molto importante, sfornando soprattutto molti capitani di ventura, sive mercenarj; lo stesso Ciro, che deve il suo curioso cognome al fatto di essere castellano nato e vissuto nella rocca avita di Pers, combattè in varie parti d’Europa. Il Friuli dell’epoca copriva una regione più ampia di quella attuale; da una novella del Gozzi, risalente al 1764, si sa che almeno fino a quest’anno il friulano era parlato in città in cui in séguito, & oggi ancòra quando pure si parla dialetto, si sarebbe parlato veneto. Il Friuli è inoltre regione importante per la poesia; e accanto a Ciro, ma su un piano inferiore, devono almeno essere citati il marinista “vero” Giuseppe Salomoni, ossia ben distinto dal “rancido pastone” (Pieri ’95, u.s.) dei marinisti generici, classe 1570, attivo presso la più importante accademia udinese, vero decadente, autore di un volume di Rime che emulano in via direttissima quelle del Marino; e il curioso Ludovico Leporeo, classe 1582, l’inventore dei leporeambi, o metri leporei, ossia sonetti i cui versi sono complicati da numerose rime interne e bene spesso da rime obbligate (così si definiscono le rime sdrucciole o bisdrucciole non solo in rapporto di rima ritmica, ma realmente rimanti), che piaceranno di lì a qualche secolo alla Sbolenfi, che senza riconoscere il primato del vecchio rimatore non avrà onta di ribattezzarli “sonetti sbolenfj”.

    Non solo rispetto a questi due Ciro sotto diversi aspetti si distingue in meglio, tanto che la stampa, assai prematura sulle integrali di secentisti, risalenti poi agli anni Ottanta e soprattutto Novanta del secolo che ci siamo lasciàti alle spalle, non parve aver necessità di tante giustificazioni. Lo stesso, se si vuole, vale per altri marinisti di livello molto alto, come il Lubrano adottato dal Pieri (1982 e 2002) e il Dotti curato da Boggione (1989 e 1997): ma questi altri giungono alla grandezza per via di una sorta di sibaritismo metaforico-contrapositivo, finendo coll’essere facilmente, e quasi ad ogni verso, più barocchi di qualunque loro contemporaneo e predecessore. Ciro di Pers, appunto, si distingue per una facilità e una schiettezza di toni che rende i suoi barocchismi molto più imparentabili a certa rimeria affine ma del tutto al difuori del marinismo e dei suoi confini sovente asfittici, europea e specialmente spagnola, tanto da evocare certo Lope, e soprattutto certo Quevedo rimatori.

    E’ un marinista, se proprio la si vuole mettere così, di seconda generazione, vale a dire che nasce esattamente trent’anni dopo il Marino, nel 1599; si spegne in località s. Daniele nel 1663, sessantatré-sessantaquattrenne. Come tutti i non troppi uomini del Seicento che passarono la cinquantina, da ultimo Ciro era talmente incatorcito da non potersi nemmeno applicare agli studj letterarj, che teoricamente erano, almeno per la mentalità del tempo, proprio cosa da climaterio, da pensione. Difficilmente si trovano testimonj di poeti e scrittori secenteschi che abbiano avuto la ventura di arrivare nel pieno delle forze a sessant’anni. Il Marino muore dopo una castrazione totale che doveva salvarlo dalla stranguria, a cinquantasei anni d’età; dopo Ciro, il Frugoni muore semidimenticato proprio intorno ai sessanta dopo anni di impari lotta contro una gotta terribile; intorno ai sessant’anni il Lubrano comincia ad essere perseguitato da malattie nervose.

    Nei casi più fortunati il poeta barocco da vecchio approfitta delle intermittenze del male che lo porterà alla tomba, spesso lasciando tracce sconsolate, talora veramente strazianti, delle proprie condizioni (non il Marino, uomo freddissimo e salace, naturalmente): così il Lubrano chiedendo dilazioni a Cristofano Ivanovich per certe lettere e per la raccolta delle migliori prediche proprie; così il Frugoni, fiorendo con acrimonia, ma non esagerando, e sfuriando in prefazioni e proteste al lettor discretto e non numerico, che doveva a tutti i costi sapere della gravità di tutti gli accessi, della dolorosità di tutti gli spostamenti. L’opera, robusta e variegata, del Cavalier Sanguinario, nacque quasi interamente dopo la quarantina, in una corsa contro la morte per sifilide. Lo stesso vale per Ciro, che ritirandosi per vivere a sé stesso aveva messo in conto di dedicarsi ad alcuni progetti tragici, forse a prose, e non potè fare altro che approntare la stampa delle sue rime intere e ultimare una tragedia che nessuno ricorda. Anche lui lascia una serie di lettere, molto avvilite, degli ultimi anni della sua vita, in cui si dà dell’infingardo con una cara gentildonna, ma in realtà per noi è impossibile qualificare esattamente, risentire nel nostro cervello e nella nostra carne lo stato di prostrazione psicofisica di un uomo del secolo smisurato. Nel suo caso la malattia, del tutto incurabile ai tempi suoi, invalidante e dolorosa, erano i calcoli renali.

    Ed è proprio questa malattia, con i suoi dolori e le sue intermittenze che lasciavano, pure, lo spazio e la lucidità non per opere di ampio respiro, ma sì per il componimento, veloce e succhioso per lunga consuetudine ed espertezza di mano, di un sonetto di tanto in tanto — il componimento che, per antonomasia, il poeta si lasciava “cadere di penna” ad intervalli, e che secondo la morale retorica dell’epoca era della categoria degli epigrammi, e doveva avere l’aculeo in punta, ossia il concettino, in funzione del quale, come retorico-moralisticamente ha notato qualcuno, spesso l’intero componimento era congegnato.

    Ciro non si sottrae a nessuna, ma proprio nessuna delle regole esistenzial-letterarie del secolo e della maniera, ma si distingue da tutti gli altri per alcune scelte forti che opera, che ne fanno indiscutibilmente un poeta e non un rimatore ingegnoso sotto cui può essere nascosto un poeta. Prima di tutto non è ossessionato dallo stile; non dà in stravaganze per paura di non risultare troppo esile armonicamente o troppo poco scelto (anche se all’occasione era in grado di concepire cose in perfetto esperanto, anzi battendo sul loro terreno i più vacui e tonanti versificatori coevi; vedi per esempio il secondo sonetto “Per i moti di Transilvania”, dove “moti” vale “turbolenze”, “sommosse”, “sollevazioni” — è, di tutti i non certo molti sonetti che ricordo a memoria quello che ripeto più volentieri tra me e me, e proprio per quella pienezza di suono, quell’orchestrazione magnifica, satura: “D’incendio marzial ferve l’algente / Tibisco, e mentre da’ destrier bistoni / Imparano a nitrir gli antri pannonj…”); in un raro, per l’argomento, sonetto rivolto a un giovane arriva persino a dire che poetare, cioè, come dice, “cantare”, non è difficile, e lo esorta — diremmo — a lasciarsi andare. Che la sua poesia sia ricca di abbandono è un dato di fatto; e questo fatto si deve all’impossibilità psicologica da parte di Ciro, nobile dilettante e uomo d’armi a riposo, di cedere alla tentazione assolutizzante propria del secolo, cioè all’impossessamento del mondo con armi poetiche, all’ “enciclopedia impazzita”. Le sue Poesie contengono componimenti più lunghi ed elaborati, tra cui una Italia calamitosa che sarebbe piaciuta ai nostri Romantici indispettiti (assai giustamente, per verità) dagli schifosi, vigliacchi versi dei tardivi Filicaja e compagnia eunucoide sull’Italia serva, se solo avessero mai letto Ciro; ma un suo poema, un poema-mondo come l’Adone, o l’Endimione o Della guerra trojana sarebbero inconcepibili (ma anche solo un “normale” canzoniere a cassettoni della specie più tipicamente marinista). Il Pers, come il solo Dotti alcuni decennj più tardi, è un poeta autobiografico, che non ama mediazioni troppo coprenti: la sua musa, essenzialmente lirica e personale, si aggira tra le urne di cimiteri non troppo tetri, s’inchina a una gentildonna certamente di carne e d’ossa (Taddea Colloredo), medita sugli orologj, sul tempo che passa, sui fiori secchi — ma rifiuta le derive da “ometto curioso”, da collezionista barocco. Non ha problemi di categorizzazione, perché non ha una quantità di oggetti così soverchiante da gestire. Non ha curiosità scientifiche. Non ha incarichi cortigiani. Non deve leccare i piedi a nessuno. Non ha emuli e non ha rivali. Non deve arrivare da nessuna parte: è padrone in casa sua. Corrisponde con Salomoni e signori di nome Sbrojavacca e simili. Non sta molto in città, dove si ha “sdrucita l’alma”; non ha aspettato di patire l’inferno cortigiano e nobilesco, gli è bastato leggere, bene, Orazio, e qualche coevo meno abbiente e titolato di lui.

    Dopo una vita presumibilmente ricca e piena, appunto, la morte comincia a bussare alla sua porta. Lo fa sotto forma di calcoli renali, come si è detto. Basta il sonetto che dedica a questo evento infausto, che il Pers mira con occhio lucido ma non lagrimoso, e non certo per rispetto alle convenienze, per capire che cosa lo renda così straordinario, con la sua loquela pacata e un po’ triste, ma sempre sostenuta, stoica e in fondo serena (Pace Pasini forse a tratti gli somiglia, ora che ci penso, ma escludo anche lui perché è uno di quei tacitisti coll’anima tutta cicatrizzata) in mezzo alla folla dei poeti contemporanei.

    Facendo un passo indietro, proporrei a chi volesse fare il punto della questione la lettura di un libro che, sì, per me è stato vagamente sconvolgente, l’in fondo stranissimo ma rilevantissimo Per Marino, del 1976, di Marzio Pieri, massimo marinologo vivente; specialmente quando considera i componimenti, tra i più belli del Re, dedicàti alle (vere, e lunghe, e ripetute) esperienze carcerarie: il Camerone, bellissimo capitolo in terzine dalla prigione napolitana, e un capolavoro come la lettera a Ludovico S. Martino d’Agliè dal carcere torinese. Basterebbe, dice il Pieri, che GBM si guardasse, per un attimo da fuori — che dimenticasse la necessità di comunicare e recuperasse una sua necessità di esprimere — e potresti avere tutto il tragico della situazione, l’ehi della vita nessuno mi risponde. Mentre e il capitolo e la lettera sono due grottesche favolose, due incubi da apprendista stregone affollati da topi danzerini, carcerieri deformi, legulej pederasti, chiassi malcoperti: cose che forse facevano sorridere le corti e facevano ammirare lo stoicismo “diverso” dell’autore. Oppure si recuperi il lambiccato sonetto, ancòra giovanile, “Apre l’uomo infelice allor che nasce”, del tipo che proprio al provinciale Salomoni (con esiti però davvero troppo risibili) piacerà emulare: un GBM moralista che deve continuamente smussare gli spigoli dei luoghi comuni perché stiano dentro la stretta griglia di rispondenze logiche e foniche — senza, però, infine riuscirci, perché il geometrico sonetto rimane difettoso, e la punta è rintuzzata da una falla logica peraltro abbastanza madornale. E’ del tutto ovvio che, con l’enorme problema costituito dalla trasmutazione alchemica di tutto un universo intorno a lui e ai suoi simili, a GBM interessasse sperimentare un esempio di “poesia nomica”, ossia ritagliare un’altra tessera da inserire nella “sua” enciclopedia; e che, molto giustamente, della poesia propriamente intesa, come la intendevano i Greci, le tre corone, i Romantici e noi, non gliene fregava proprio niente.

    Il Pers non ha queste preoccupazioni, perché non è poeta di professione; ergo può permettersi la poesia. Paradossale, no? No, ovvio che no. Da qui viene fuori un sonetto che di autoironico non ha nulla, un piccolo Quevedo appena più lambiccato nelle forme, ma anche nelle sue forme lambiccate, giusta l’argomento, caratterizzato da una sua bella rocciosità:

    Son ne le reni mie dunque formàti
    I duri sassi a la mia vita infesti,
    Che fansi ognor più gravi & più molesti,
    Ch’han de’ miei giorni i termini segnàti?
    S’altri con bianche pietre i dì beàti
    Segna, io segno con esse i dì funesti;
    Servono i sassi a fabricar, ma questi
    A distrugger la fabrica son nati.
    Io posso ben chiamar mia sorte dura
    S’ella è di sasso. Ha preso a lapidarmi
    Da la parte di dentro la natura.
    Io so che in quelle pietre arrota l’armi
    La morte, & ch’a formar la sepoltura
    Ne le viscere mie nascono i marmi.

    E a ben considerare, in effetti, questo certamente bel sonetto, venato di malinconia grottesca quanto si vuole ma di sapore molto appropriatamente tragico, rivela proprio nella sua struttura non organica la sua sincerità: è vero che tutte le immagini, di una certa piacente rozzezza, vertono sull’idea della pietra: ma la pietra è anche il problema, letterale, che affligge il Pers; e tutte le, a questo punto presunte, immagini rimangono irrelate, giustapponendosi con grande naturalezza l’una all’altra: Nelle mie viscere si sono formati sassi che mi porteranno alla tomba. Si vanno facendo sempre più pesanti e dolorosi. Ecco: le pietre bianche servivano a segnare i giorni fausti. Le mie pietre sono pure bianche, ma servono a segnare i giorni infesti. Io sì che posso chiamare “duro” il mio destino: sfido, è segnato dalla presenza dei sassi che ho nelle reni. E’ come se il decorso della malattia prevedesse che cominciassi ad essere murato nella mia tomba a partire dall’interno. Quei sassi sono la cote su cui la morte arrota la falce. Quei sassi sono i marmi della mia sepoltura.

    Non c’è rischio di contraddizione interna perché il sonetto non è “costruito” in un certo modo: il Pers non costruisce, propriamente — magari le odi lunghe, ma anche lì molto meno di altri.

    Soprattutto il rischio di contraddizione interna non esiste perché, sostanzialmente, il problema non è il sonetto, ma il male che sta mandando all’altro mondo il Pers. La vita, calandosi nei quattordici versi, ha scacciato qualunque fossesi potenziale artista, e ha lasciato il poeta.

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    Tag:marinisti, morte, poesia, riflessi, sonetti

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    184. j

    29 Mag

    Qui pensieri oziosi, che nel frattempo ho linkato benché non me l’abbia mai esplicitamente ottriato, mi riprende per via del mio vizio di terminare i plurali dei sostantivi e degli aggettivi (ma anche dei verbi il cui tema esca in i-) in -io con una j. La questione è stata affrontata sul blog di alcor, ma io non credo che, dato che lì di norma si discutono cose di maggior momento, interessi a tutti: non voglio intrudere, non voglio invadere; ergo mi ritiro qui, in buon ordine, e in buon ordine, e con la solita, asfissiante prolissità, affronto la questione.

    Faccio presente che utilizzo la j o i lunga, scrivendo a mano, solo per rappresentare la i intervocalica, quella, cioè, che trovandosi tra due vocali fa le veci di una consonante, e di fatto è: guajo, noja, appajo, macellajo, trojajo. Mentre per rappresentare l’uscita con doppia i, -ii, dei sostantivi e degli aggettivi in -io dove tuttavia la -i- non è tonica (nel qual caso scrivo per esteso -ii, come p. es. zii, pii, spicinii, tramestii, &c.), mi riferisco sempre a quando scrivo a mano o con un piccì, uso il circonflesso. Questo perché non mi piace utilizzare lo stesso segno per due fenomeni differenti: dato che il segno deve servirmi a rappresentare con la massima esattezza un fenomeno specifico, e non più fenomeni disparati.

    Solo che, servendomi delle postazioni pubbliche per scrivere sul blog, non posso ricorrere a nessun circonflesso, essendo i comandi diversi da quelli a cui sono abituato e non essendo contemplate funzioni che invece sul mio piccì avevo. Sicché, anche per non aver voglia di andare a vedere esattamente come si fa, per sveltezza ricorro alla -j anche per designare la doppia i d’uscita nei plurali dei sostantivi e degli aggettivi in -io: macellaj, prestinaj, vecchj, straccj, presagj, e, ciò che pensieri oziosi mi ha rimproverato, figlj. Non tutte le parole che escono in -io, mi fa presente, possono uscire in -j. Ad occhio e croce potrei anche non essere in disaccordo (c’è ancòra qualcuno che aspetta la mia caduta?), solo che mi si dovrebbe dimostrarlo, in primis; secundum, precisare la norma che regola il fenomeno, e, a rischio di apparire intollerante e suscettibile, ciò che — mi dispiace — non sono, mi corre l’obbligo di far notare che pensieri oziosi non ha fatto nulla del genere. Mi ha detto che figlj è sbagliato, e che — come si legge nel suo commento — “basta leggere la letteratura italiana”. Riportando due esempj (appunto), uno dell’Alfieri e l’altro del Manzoni, da cui si evince quello che già sapevo: cioè che, almeno di norma, “figlj” non si trova: si trova solo “figli”. Per esempio, quasi nessuno, scommetto, ha scritto mai “vecchj”, o “ginocchj”, od “occhj”, o “maschj”: eppure io lo faccio!

    Pensieri oziosi dice che dovrei studiare le forme grammaticali desuete. Lo studio, nella sua opinione, dovrebbe consistere (non so esattamente, suppongo che lei studj così) nell’andare a raccogliere quello che le autorità hanno lasciato, senza nulla domandarsi dei principj da cui muovono, o quello che hanno semplicemente assorbito da una prassi dell’epoca senza entrare nel merito e nello specifico.

    Non discuto il principio di autorità. Le autorità (dico le auctoritates) ci sono, e hanno peso e momento, ed è necessario richiamarsi ad esse quando sussistono dubbj. Solo che le autorità fanno autorità sulla base di fatti precisi, incontestabili & oggettivi. Investigare se, e se sì quante volte, l’Alfieri il Manzoni il Leopardi hanno usato la j e in che funzione significa compulsare le loro opere per una questione decisamente secondaria. Non mi risulta, e sfido però chiunque a dimostrarmi il contrario, che la questione della j sia stata centrale nella poetica di questi scrittori.

    Sicché non ho forse torto io quando dico che in tutti questi scrittori la j, reminiscenza di un’educazione ancora radicata nella tarda stagione settecentesca, si trova, molto semplicemente, perché era nell’uso — magari per andar via via tralasciandola a mano a mano che appariva, altrettanto semplicemente, inutile. La j non appartiene all’alfabeto italiano, s’è cominciata ad usare per influenza soprattutto della Spagna; qui, impiegata per rappresentare un suono diverso, ha tirato a campare per un secolo abbondante, dopodiché ha cominciato a sparire — ha anche trovato severi oppositori, in taluni puristi; ma l’ultimo autore ad impiegarla, ma solo in funzione intervocalica, è Pirandello. L’uso culto dei nostri (?) giorni prevede l’utilizzo della i circonflessata.

    L’Alfieri, il Manzoni, il Leopardi, il Foscolo e chi per essi possono fare autorità in questo specifico e delimitatissimo senso solo se si dimostra che utilizzarono la j in modo rigoroso. Be’, quello che io ho trovato sfogliando qualche edizione critica e qualche concordanza non è affatto confortante in questo senso; come dimostrano più e più luoghi, neanche uno scrittore scultoreo, come l’Alfieri, particolarmente motivato a rilevare graficamente la singola parola nel suo aspetto fonetico, utilizza la j — e doppia e intervocalica — in modo regolare, benché ci si avvicini parecchio. Meno rigoroso ancòra sembra il Manzoni. (Il Leopardi, poi, mi fa un regaluccio facendomi trovare, bell’e impacchettato, un figlj sano sano, ma si sa che tra vecchj gobbonaccj ci s’intende sempre). Quello che sospetto è che fosse invalso servirsi dell’uscita in -j solo in determinate circostanze, senza chiedersi, in fondo, se lo stesso criterio potesse essere applicato ad una quantità di altri casi. Ma anche questo sarebbe tutto da dimostrare, chiaramente.

    *********************************************

    Finisco il discorso, come dicevo sotto nei commenti.

    Purtroppo mi dovevo portare dietro il Grandgent, un manualetto Hoepli d’Introduzione al latino volgare, vecchissimo ma molto bello; né quello di Cesare Battisti (Bari 1949) né quello del Vaananen, che fa autorità in questi giorni (Bologna 1982, 2003…), mi sembrano altrettanto belli e consultabili. Di fatto, a p. 125 si diceva quello che alla breve riferisce anche Battisti come “normale riduzione di -ii ad -i [lungo]”, con cfr. a Bonnet 334, che non ho in mano. Benissimo ha fatto Mario Bianco a ricordare i fili delle pute — io ricordavo filii, ma non ha importanza, la riduzione è un fenomeno ovvio. Noi stessi, parlando, non diciamo stadii, studii, &c. Quello che premeva rilevare è che in àmbito di espressione dotta, vale a dire dove la lingua, scritta, è utilizzata in prospettiva e con consapevolezza storica (una condizione sempre in divenire, è ovvio, anzi conativa, auspicata), sono moneta corrente gli atteggiamenti conservativi, e anche i ripescaggj.

    Secondo quanto riporta il Grandgent, l’oscillazione nella riduzione è propria già del latino volgare: ministerii diventa ministeri, consilii diventa consili, &c., però i grammatici (forse Appiano? Ma domani riporterò il par.) continuarono per parecchio a raccomandare una grafia classica dei nomi, Claudii in luogo di Claudi, &c.; la stessa conservazione, però senza interposta autorità di grammatico, si nota in altri nomi, per cui Parisiis porta a Parigi (proprio perché la pronuncia della doppia i porta a una sorta di torsione, per cui si tende a pronunciare qualcosa che assomiglia vagamente a un Paris[w]is), Dionysii a Dionigi, &c.

    Il Migliorini (Firenze 1960) dice che queste oscillazioni continuano per tutto il tempo in cui la j, sia in funzione intervocalica che alla finale per compendio di ii, fu impiegata:

    “Nell’alfabeto tradizionale è incerto l’uso di j, sia all’iniziale e all’interno della parola per esprimere l’i semiconsonantico, sia alla finale, come compendio di ii: forse quelli che l’adoperano, specialmente alla finale, predominano di poco sugli altri. Il Leopardi, che negli scritti giovanili adoperava j, più tardi l’abbandona risolutamente (nelle istruzioni al Brighenti, lettera 5 dic. 1823, per la stampa delle canzoni prescrive: “Non si usino j lunghi né minuscoli né maiuscoli, in nessun luogo né dell’italiano né de’ passi latini”); tuttavia quando l’editore Stella gli domanda un articolo “per bandire… dalle buone scritture quel barbaro j”, risponde che egli condanna “quella lettera come inutile, ma che veramente non le manca l’autorità e l’antichità” (lettera 9 febbr. 1827). | Il Manzoni oscillò molto nell’uso dell’j, e nelle stampe giovanili troviamo il segno, mentre in quelle più tarde esso non appare più; ma nei manoscritti autografi esso persiste anche in anni assai tardi. Avversi alla j si dichiarano il Puoti, il Gioberti, il Carena, favorevoli il Peyron e il Lambruschini.”. B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze 1960, pp. 622-623.

    [Il Puoti, il più grande dei puristi, il maestro del De Sanctis e del Settembrini, non voleva la j perché in latino e nell’italiano aureo non esisteva. In più perché era arrivato a noi dalla Spagna, e lui ce l’aveva coi Borboni].

    Il più antico degli scrittori considerati è l’Alfieri, il quale, come autore settecentesco, è ovviamente il più continuativo e rigoroso nell’uso dell’j. Se ne serve sia come segno intervocalico sia come compendio di -ii; non avendo concordanze dell’Alfieri qui, ho considerato quello che trovavo nel Saul, dove come j intervocalico trovo catervatim “gioja”, un “muoja”, &c.; per quanto riguarda lo j-compendio trovo i seguenti esempj:

    … i molli / Tappeti assirj, ispidi dumi al fianco… (nota il cultismo, per cui “assir-i-o” è preferito ad “assiro”)

    più che i proprj tuoi figli. Ah! padre, lascia…

    del genitor gli involontarj errori

    le angosce, i dubbj, il palpitar mio lungo

    Dove gli spregj, e l’insultar, che al giusto

    infra i domestich’ozj? Il pro’ Saulle

    cui da Dio tenne, — ad annullar degli empj, / che in falsi tempj — han simulacri rei

    sacerdoti crudeli, empj, assetati

    il vuoto seggio: infra i levitichi ozj

    … e tuttavia, proprio in fine (ed è un verso stupendo e pieno di abbandono):

    la luna cade, e gli ultimi suoi raggi.

    Il Manzoni, di cui non ho trovato edd. critiche del capolavoro a scaffale, noto che oscillava non solo nel senso in cui oscillò il Leopardi, ossia perché utilizzava la j negli anni giovanili e poi l’andò via via abbandonando, ma perché talvolta si ricorda di usarla, e talvolta no. Nelle Concordanze degli Inni sacri di A. Manzoni per cura dell’Acc. della Crusca, Firenze 1967, trovo poche parole (5) con uscita -ii, segnalate contraddittoriamente: cerchj, pallj, presagi, tripudj, varii.

    (Un attimo).

    ************************************

    (Concludo).

    Mi limito a dire che le concordanze cruscanti sono condotte sulla stampa 1815 del Manzoni, e il criterio di trascrizione è del tutto conservativo (sono anche fotoriprodotte alcune pagine, un j almeno, ricordo, vi s’incontra).

    Per quanto riguarda il Leopardi, che come si vede dal secondo stralcio di lettera, 9 febbr. 1827, riteneva che non mancasse alla j né autorità né antichità, mentre a rigor di termini le mancano entrambe, essendo nell’uso solo dalla seconda metà del ‘500 (solo come compendio di -ii, non come intervocalica; il Trissino proponeva la j in nesso con l, a sostituzione di gl, quindi per scrivere consiljo, filjo, &c.), quindi dall’alba della decadenza, ed essendo prodotto sostanzialmente d’importazione per cui poi s’è trovato un uso ctonio.

    Traggo alcuni piccoli riscontri dalle opere puerili e giovanili del Leopardi dalle concordanze per cura di Gius. Savoca e Nunziata Saccà, Concordanza dei versi puerili e delle poesie varie di Giacomo Leopardi. Concordanze, lista di frequenza, indici, Olschki, Firenze MMVII:

    DUBBIO: ampie pareti appese i dubbj eventi; le sanguinose pugne, e i dubbij eventi; ricuopra un doppio velo i dubbi miei, &c.

    FIGLIO: o Marte, vieni tu, se a’ figli tuoi; dei vincitori i figli; i figlj ed i penati; &c.

    EMPIO, CONSIGLIO: dannò apporto con gli empj suo[‘] consiglj; fuggir gli empi ribelli, e sotto a’ colpi.

    Gli esempj con le j sono rilevati nelle opere più antiche; procedendo, le j tendono a scomparire, magari con qualche piccola oscillazione, per essere totalmente e consapevolmente (come si vede dagli esempj tratti dal Migliorini) escluse dai Canti. Quello che mi preme notare è che il Leopardi dimostra una notevole coerenza, nel presunto errore, affibbiando un’uscita in -ii (compendiabile in -j) anche a consiglj, che è del tutto analogo a figlj.

    In sintesi, credo di poter dire che si tendeva, e non sempre e tutt’altro che rigorosamente, a rilevare l’uscita -ii con -j o con -ij, o con i circonflessato non in tutti i casi che a rigoril’avrebbero richiesto, ma preferibilmente nel caso di parole attinenti a registri alti: dato che fuori dalla Toscana, o da un certo numero di città della Toscana, l’uscita in -ii non si pronuncia, è decoroso ed elegante rilevare l’uscita -ii di presagj (quando pure se ne ricordano, e il Manzoni no), empj, tempj (plur. di tempio), e per analogia anche esempj, &c., ma di fronte a varii, per esempio, la grafia è varii, non c’è j; né ci si fa scrupolo di lasciare i vecchj, i maschj &c. privi della loro artistica appendice: per il semplice fatto che parlando quasi certamente né l’Alfieri né il Manzoni né il Leopardi la pronunciavano; laddove si tratta di Claudj, di Fabj, di Furj Camilli, e di presagj, di sacrificj, di tripudj, pensavano al latino, e non alla pronuncia toscana, e mettevano la doppia -i compendiata con un -j o per esteso, -ii.

    L’unico che si sia preoccupato, e se ha fatto marcia indietro non è stato per questo o per quel caso, ma per l’uso in sé e in generale della -j intervocalica e d’-ii in compendio, di verificare se questa grafia fosse applicabile anche ad altri casi morfologicamente del tutto analoghi, cioè ad interrogarsi sul principio e non ad assumere passivamente un uso, è stato il Leopardi. Il quale, s’è visto, ha anche scritto figlj e consiglj. Le grammatiche storiche dicono che parole in -cio e -gio con i atona hanno l’uscita, teoricamente, in -ii; quelle in -glio no, perché la -i-, lì, sta solo a indicare che si deve pronunciare consiljo, filjo, e non consighlo, fighlo e altro. Io ci credo anche, però in latino l’uscita era pur sempre -ilius, o -ilium. Poi, naturalmente, ci sono casi, come dire?, accessorj (mi sa che ci torno sù, mi sa), per esempio versi sdruccioli in cui parole teoricamente non sdrucciole sono lette sdrucciolamente: anche fì-gli-o, consì-gli-o, &c. (Sulla relativa correttezza di questo procedimento ricordo una paginetta della Frusta letteraria). In questo caso la lettura figlj, cioè fì-gli-i, non parrebbe così stravagante.

    ******************

    [Giunta di ven. 6. giugno 2014.: ho corretto, rileggendo velocemente, qualche refuso. Volevo avvertire che nel frattempo, con sempre maggior coerenza a partire da una mia versione italiana della <i>Summa</i> di Antonio da Tempo (opera di qualche anno fa), mi sono deciso a scrivere regolarmente <i>esempli</i> – analogamente al caso di ampio/ampli, tempio/templi, &c. . In questa paginetta ricorrono parecchj “esempj”, di cui m’è pertanto forza scusarmi].

    Tag:noterelle erudite, questioni tecniche

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    182. Conversione. Carme religioso.

    15 Mag

    Pur giungo al fin d’ogni tormento mio,

    E il peso di tal lacrimarum valle

    Farmi cader da le dolenti spalle

    Posso, e ogni peso mio depor, ch’ho dio.

    Lascio i sensuali amor’: ché inseguir gonna

    Unqua disdisse; pianga, chi a mollizie

    Cede, che ve’ che selva di delizie

    Gli aggrava e piega il capo, or ch’ama donna!

    Pur giungo al fin d’ogni tormento mio,

    E ogni tema spogliar di disonore,

    E senz’ambagi amar di tutto cuore.

    Posso ogni voluttà depor, ch’ho dio.

    Lascio le vanità: blandizie insane

    Donde non trassi che forti amarezze;

    Chi da dio sol ritrae tutte dolcezze,

    Da ogni altro gaudio trae un tedio cane.

    Pur giungo al fin d’ogni tormento mio,

    Più non ha possa in me fama, decoro,

    Ricchezza, potestà, empia fame d’oro.

    Posso ogni vanità depor, ch’ho dio.

    Lascio ogni mio furor: tuoi mali tanti

    Forse non san già tutti? Non ti sanno

    Da’ tuoi lai? Ahi che in te l’ira del danno

    Calò quale mannaja, ah, tutti i santi!

    Pur giungo al fin d’ogni tormento mio:

    Non m’ange più, più non m’assal la rabbia

    Del leon che s’aggira e rugge in gabbia.

    Posso ognun odio mio depor; ch’ho dio!

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    Tag:odi tetrastiche, sterquilinarie

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    127. Search Terms for 7 days ending 2007-06-13

    13 Giu

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    104. E invece ci sono: seconde note (in ordine sparso).

    13 Apr

    A p. 7, sulla base dei dati Eurisko, gli autori del consuntivo, Giuseppe Cornacchia ed Angelo Rendo, manifestano ottimismo circa la creazione di siti letterarj di qualità. La cosa che a dir poco ammazza è che poco dopo indicano un sito a cui tale salto di qualità sarebbe riuscito in quell’orrida fogna della Holden; la quale, è pur vero, adesso è un ordinato, quasi anodino situccio di letteratura, bazzicato (come doveva essere sin dall’inizio) dalla fauna che nel cosiddetto real-mondo (sì, so che non evoca esattamente il suon dell’arpe angeliche; basti dire, se può bastare, che tale espressione non è farina del mio sacco) frequenta la vera Holden. All’epoca, ossia quando io cominciai a frequentarla, era un campo minato per metà occupato da Alessandro Cazzi/abraxas, poi mitnick e porcozio & piri piri con i suoi esperimenti di ingegneria sociale, e per l’altra metà da uno che si faceva chiamare cav. peppino siliberto, denait, nebbiachesale, palmadoro, e che adesso si chiama palmasco e tiene un blog (che poi è quello linkato). Va bene che c’era anche Gino Tasca, decisamente il migliore; ma la fuffa prevaleva di gran lunga. E poi liti, sberleffi, insulti, minacce sanguinose, cose orribili dette o mandate a dire alla madre, alla sorella, al cugino in terza; archivj con dati personali lasciati aperti alla discrezion de’ cani. L’ambiente ideale, per me, che avevo (povero ragazzo anch’io) tanta aggressività da sfogare, e non mi sono mai tirato indietro.

    Mai.

    *****************

    A p. 8 scopro che il poeta Maurizio Cucchi il 18 luglio del 2001 ha dichiarato che “la poesia è un’avventura altissima, e che l’uomo non può farne a meno, se vuole continuare a sperare di essere civile e se non vuole iniziare un cammino di Darwin alla rovescia”. A parte che non ho mai sentito definire l’evoluzione come “cammino di Darwin”, ma non sono per nulla d’accordo! Quanto a me, per esempio, da quando ho ricominciato a far versi il grande cammino dell’uomo (‘somma — mezzo uomo, diciamo) verso la scimmia non solo è cominciato, ma è addirittura quasi compiuto! Io quando poeto mi trasformo, manca poco che ululi alla luna! (Cosa che in ogni caso comincerò a fare presto, lo sento).

    ***************

    Sempre a p. 8 si dice: “Il risultato sarebbe stato, si pensava, un’opera comune nella quale -diluiti i singoli impulsi- sarebbe confluita la vis creativa generazionale (e non)“; ciò che per la verità sa un po’ di unanimismo. Nulla di male, intendiamoci; anche se, per esempio, sono d’accordo con la Benedetti quando nota che le opere letterarie a più mani hanno qualcosa di poco etico. Qui non si tratta di opera a più mani, ma sì del superamento di quei “singoli impulsi” che invece sono il materiale più prezioso con cui si deve costruire, da soli, l’opera letteraria. Farigoule, in effetti (e lui se ne intendeva), diceva che nel gruppo i singoli impulsi sono lasciati da banda, ma aggiungeva che parallelamente ciascuno tende ad accostumarsi al livello più basso rappresentato all’interno del gruppo. Anche quanto all’ispirazione, suppongo. Dev’essere per questo che i romanzi dei Wu Ming sono così nojosi; e che le antologie dei giovani povèti taliani sono così tutte monocordi, uguali, sciape.

    **************

    Molto lodevole, a p. 11, l’esortazione implicita a projettare qualunque velleità letteraria sul più vasto piano della produzione internazionale. Molto onestamente si dice che gl’italiani, come scrittori, non esportano quasi nulla — nulla di troppo rilevante, a parte i classici e Umberto Eco.

    *********

    Come esplicitato nel modo meno controvertibile possibile, owners e collaboratori sono tutti laureati. Mi corre l’obbligo di dire che mi sento un pirla tra cotanto senno.

    *********

    Incredibile a dirsi, sempre a p. 13 si viene a sapere che una delle cose apparentemente più difficili da riscontrarsi, ossia quanti siano i poeti occasionali in Italia, è nota: “si calcola che quattro milioni siano gli italiani che almeno una volta nella vita hanno scritto una poesia; la metà continua e ne fa un “hobby” più o meno continuativo, cercando aggregazione a livello non ufficiale, fuori dai circuiti editoriali (…)“. Non so come ci siano arrivati, ma le cifre dànno sempre sicurezza.

    *****************

    Non per fare il poeta a tutti i costi, ma devo confessare che leggere (pp. 14 sgg.) parole come fidelizzazione, know-how, prodotto, concorrenza, turbolenza tecnologica, approvvigionamento, marketing, commercializzazione, factory artistica, pacchetto e.commerce, starting-up e via di questo passo mi ha fatto un poco raggrinzire i coglioni (si può dire “raggrinzire“, su un blog?).

    Ma mi hanno linkato.

    Che cosa faccio?

    Mi metto a piangere sùbito o aspetto domani?

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    Tag:riflessi, segnalazioni

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    78. Cose che mi piacciono.

    13 Mar

    Non ho tempo né voglia di scrivere perché sono un po’ in incubazione. (Ho anche buscato un raffreddore, ho la testa un po’ confusa).

    Mi limito a segnalare cose che ho letto su blog dove vado regolarmente, e che mi sono piaciute:

    Su azu c’è questo.

    Su ezrarhesus c’è questo.

    Tag:segnalazioni

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    65. Ode tetrastica.

    19 Feb

    IL VOLTO INFRANTO.

    Ode tetrastica.

    Pronto, per liberarmi, a tutti i mezzi,

    Di faccia essendo a tutti quanti noto,

    Del mio volto lo specchio ecco percuoto,

    Per confonderli, e mando in mille pezzi.

    Non potendo nascondere quel volto

    Dopo che fu dal mondo occhiuto visto,

    Scisso in più volti plurimo ora esisto,

    E il noto altrui, togliendo a me, ho ritolto.

    Mezzo fin troppo rozzo, in questo modo

    Tutto l’essente mio, ed il mio pregresso

    Ho reso inconoscibile a me stesso,

    E, s’ora ho libertà, nulla ne godo.

    La mia persona all’occhio mio impotente

    Con capriccio perverso & ostinato,

    Rendendo sempre un volto al mio ispirato,

    Nega ogni superficie riflettente.

    Essendo, cosicché, di me spezzata

    La primeva unità, odio e disprezzo

    Quel che vedo non-me – ogni specchio spezzo,

    La cui virtù mi sembra adulterata.

    Col frantumare in essi, quasi impresso,

    Del volto mio il frantume, voglio, al modo

    In cui col chiodo può scacciarsi il chiodo,

    Uno rifarmi? Ahimè; non ho successo.

    Col volto – e quanto vera al volto annetto

    Parte di me – fu l’anima, a dolenti

    Giorni dannata, in piccoli frammenti

    Ridotta; al che mutò il mio interno aspetto.

    Io dentro e fuori sono a punto tale

    Reso difforme da quant’ero prima,

    Che parte in me con me più non collima,

    Che non dettaglio in me resta a un mio eguale.

    E se pure non rischio in qualche specchio

    Rincontrare la larva deformata

    Della mia prisca faccia cancellata,

    Più me non tornerò, manco da vecchio.

    Non mi conosce più il mondo importuno,

    E vivo solitario ed uomo nuovo,

    Senza in nulla ridire quanto provo,

    Ché, se fui alcunché, sono nessuno.

    Dovrei ridire a questa folla sorda,

    Causa indiretta del mio stolto gesto,

    Ch’ero, e che m’ispirò l’atto funesto;

    Ma un altro lo compì, né altri ricorda.

    Sicché i miei giorni futili consacro

    Cercando riscattare il me più mio

    Dall’errore commesso, e dall’oblio,

    Inane inchiesta, inutile lavacro.

    Se volgo gli occhj sopra le più care

    Immagini, da che spero soccorso,

    Se a non miei occhj posso far ricorso,

    E per essi non posso, oh dio, guardare?

    Se spingo il naso dentro le corolle

    Più aromatose, non m’appartenendo,

    Cosa più percepire ormai pretendo,

    Sian pure onuste d’una Sabea molle?

    Se protendo le labbra, al bacio, all’ésca

    Di ricco desco, il vermiglione alieno,

    La papilla non mia in nettare ameno

    Mai stilla di piacere o coglie o pesca.

    O se avanzai le mani a qualche oggetto,

    Come granchj sfilandosi dai polsi,

    Corsero via, e per esse io mai raccolsi

    Nulla a far mio, od un’ombra di diletto.

    Così i miei piedi, ovunque mai si vada,

    Sempre mai per peripezie segrete

    Ostinati m’occultano le mete,

    Sicché non vado mai per la mia strada.

    Nemmeno i sensi, male calibrati,

    Segnano dell’incespico a me il sasso,

    Schiudendo precipizj ad ogni passo

    Ed abbattendo i limiti fissati.

    Ma quanto più m’angustia è il mio cervello,

    Che interrogo e compulso inutilmente;

    Che in sé di mio non serba, ohimè, più niente;

    Che fu il mio; che ora, oh dio, non è più quello.

    Occhj, bocca, cervello, mano, piede

    E naso intercambiai con occhj, bocca,

    Cervello, mano, piede, naso – & tocca

    L’incredulo, e ritocca, e non ci crede.

    Posso dirla, in frantumi, immeschinita,

    Languida larva & apparenza vana,

    Questa vita sospetta, incerta, e strana

    Non mia non solo, ma in sé stessa vita?

    E non inferirò che la non mia

    Vita, poich’è la sola che mi regga,

    Fa non tanto che in me mia non risegga

    La vita, ma che vita in me non sia?

    Ed ecco il vero inferno; ché conforto

    Non c’è per chi a serbarsi individuato

    Divise il proprio sé, e moltiplicato

    Quanti sé assunse, tante volte è morto.

    Sicché l’anima a spizzichi e bocconi,

    Sfibrando l’appendice di Minosse

    D’Ade gelò in mill’angoli, ossia cosse,

    Onorando da sola più gironi.

    Doveva l’Ode armonizzare il pianto

    Di due dozzine di miei me, e di questa

    Diedi a intonare una quartina a testa;

    Tacquero solo i meno inclini al canto.

    Tag:odi tetrastiche

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    CCLXXII. Ad interim. Guardie & ladri.

    16 Feb

    Scrivo qui sopra perché qui dalla Civica è possibile farlo (le altre connessioni di cui mi servo non mi caricano i post).

    Stavo pensando ad un fatto che si è ripetuto, negi ultimi giorni, anzi nelle ultime notti, al Maria Vittoria, nella cui sala d’aspetto vado a passare la notte a periodi. E’ una riflessione un po’ del cacchio, che faccio en passant.

    Benché l’attività di un pronto soccorso non smetta, ovviamente, mai, perlopiù di notte la situazione si fa più tranquilla. C’è una sala d’aspetto in cui i parenti sono esortati a trattenersi per non ingolfare il corridojo del pronto soccorso stesso, e c’è, per l’appunto, il corridojo, nel quale i parenti, perlopiù preoccupati, tendono a trattenersi in barba alle esortazioni, in modo da stare vicini ai parenti in visita, o in attesa di visita. Verso le 20.00, le 21.00, le 22.00 chi ha l’occhio esercitato può in effetti vedere dei musi loschi che si aggirano, con l’aria di chi non ha niente di meglio da fare che stare lì. Alcuni, più macilenti, fanno a gara ad occupare i cessi (dopo quarti d’ora di attesa penosa si sentono degli "occupato!" sempre più flebili, ed accompagnati da gemiti talora abbastanza angoscianti, se ci si guarda); altri, più sicuri e ben piantati, hanno delle mostrine, e manganelli e pistole che pendono loro dalle cinture. Altri ancora conversano amabilmente nella sala d’aspetto, dalla quale sono capaci di non rimuoversi, nemmeno per andare a pisciare, per quattro o cinque ore di séguito — alla fine non un cane entrerebbe a sedersi o a prendersi un caffè, non tanto per timore dei due o tre salottieri conversatori, quanto per via dell’insostenibile fetore di cadavere, che è il primo tra i motivi per cui i guardiani, spesso, si rifiutano di far rimanere lì gli originali a passare la notte, o almeno la gran parte della serata.

    Alcuni di questi ceffi duri hanno buoni vestiti puliti e la gelatina sui capelli, occhiali scuri e magari una moglie grifagna e sovrappeso che è lì per una visita: ma li riconosci per l’appartenenza alla famiglia perché, mentre vien giù il caffè nella macchinetta, loro, con aria distratta ma non troppo, verificano tastando a tutte le bocchette che qualcuno non abbia dimenticato degli spiccioli di resto. Altri si muovono a coppie, hanno l’aria divertita e vigile, e a differenza di altri, che cercano di racimolare qualche dieci centesimi chiedendo agli astanti concentrati sui fattaccj loro, sembrano pieni di monetina, e infatti saccheggiano coscienziosamente i distributori, raccontandosi barzellette ma vistosamente annojandosi.

    Càpita che alcuni di quelli che stanno svaccati sulle poltroncine della sala d’aspetto squadrino minacciosamente quegli altri, riconoscendoli dal naso rapace, dagli occhj piccoli e distanti, dalla bocca senza labbra, dall’incarnato di cuojo grezzo; càpita che alcuni di quegli altri che vanno e vengono smettano di raccontarsi barzellette e sbadigliare, e comincino a ribattere ai primi con sguardi di sfida. Càpita che i primi dicano quello che in effetti è, e cioè: "Gli sbirri vanno e vengono", ai due tizj taurini. Càpita che uno dei due tizj così apostrofati dicano: "E’ con me che ce l’hai?". Oppure: "Guarda che io sono un galeotto. A me gli sbirri mi fanno allergia". Nel secondo caso i due si salutano cordialmente, magari si dànno la mano, si offrono a vicenda, compatibilmente colle finanze, il caffè, e cerchino di piazzarsi un’autoradio o un pajo di occhiali firmati. Nel primo caso, di norma, tutto dà a pensare, nei primi secondi, che si stia sfiorando la rissa; ma non è vero niente, perché gli apostrofati, consapevoli del loro ufficio, cedono per primi e, senza avere l’aria di battere in ritirata, si allontanano. Càpita anche che due tizj taurini passino intere serate a fissare altre coppie di tizj taurini, salvo poi, dopo qualche serata di muta tensione, chiarire l’equivoco, darsi manate sulle spalle, offrirsi a vicenda un caffè e scambiarsi informazioni su qualche tizio ben piantato, se non taurino, che avrebbe piazzato uno stereo coll’emmepitré a quel tale loro collega, però "aveva il codice" (l’emmepitré, non il collega), e allora giù a ridere, a scambiarsi manate sulle spalle, a offrirsi a vicenda un caffè, &c.

    Quando invece chi osserva è furbo (spesso sono le donne ad avere l’occhio più clinico), e le cose le nota, una volta che avvistano uno sbirro non lo mollano più. Potrebbero essere a loro volta sotto i ferri, si sveglierebbero dall’anestesia e strappatesi cannule e maschera dell’ossigeno comincerebbero a gridare a quanti mafiosi l’hanno data a pagamento, da quanti albanesi hanno dipeso, con quanti camorristi sono stati in affari, facendo nomi-e-cognomi e rivolgendo loro frasi nemmeno troppo implicitamente ingiuriose — sempre con la scusa che tanto "non stanno parlando a loro" dato che hanno la testa voltata dall’altra parte. I replicati, pacati, gelidi "Non m’interessa", "Non m’interessa", "Non me ne frega niente" della guardia in incognito non hanno nessun potere calmante. La cosa andrà avanti ancora tre quarti d’ora dopo che, stufe di sentire stridii da gazza in calore, le guardie in incognito avranno levato le tende.

    Guardandoli in faccia, io, che non ho l’occhio clinico, posso ben dire che sembrano tutti della stessa pasta (galeotti, cioè); posso tutt’al più aver imparato che galeotti e sbirri appartengono alle stesse séries per quanto riguarda l’aspetto somatico-fisiognomico. Ma la cosa che fa trasecolare è che i galeotti non distinguono gli sbirri dai galeotti, e gli sbirri i galeotti dagli sbirri; e, insomma, che né sbirri né galeotti si riconoscano tra loro. Quando fossi stato io a non distinguerli avrei potuto sensatamente inferire che sbirro e galeotto, guardia e ladro sono le due facce della stessa medaglia. Ma dal momento che sia guardie che ladri sono incapaci di distinguersi tra loro, sarebbe più logico farne discendere che sbirri e galeotti siano la stessa faccia della stessa medaglia. Ma allora l’altra qual è?

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    57. A che cosa mi serve non essere mai stato meteo[ro]patico in tutta la mia vita?

    12 Feb

    Il fatto è che sta piovendo, una circostanza a cui non ho mai annesso particolare importanza, fino ad un pajo di anni fa, ammenoché la pioggia mi sorprendesse per la strada.

    Ricordo uno dei miei ultimi appuntamenti immancabili, anzi proprio l’ultimo, prima di questa lunghissima parentesi di beata irresponsabilità comatosa. Proprio in quella circostanza si scatenò, in pratica all’improvviso, una tempesta che lévati, proprio da levare il pelo, e io mi ritrovai fradicio in — credo — sedici secondi, reggendo con aria stupida un moncherino di ombrello che una folata di vento rabido m’aveva ridotto a brandelli. Ricordo a come tentassi di scagliare il moncherino a terra, e di come non ci riuscissi, essendo che il vento, che avrebbe cominciato a placarsi di lì a un pajo d’ore e non meno, se lo portò via, trascinandolo per alcune decine di metri, prima che toccasse il suolo. Appena fui al riparo stesi ad asciugare gli ultimi cinque euri — purtroppo mi dimenticai di fare altrettanto con la carta d’identità, che praticamente si sciolse e rimase incollata dimodoché quando la riapersi era diventata illeggibile — e tale sarebbe rimasta per diversi mesi, non avendo l’opportunità, e poi la voglia, e poi di nuovo l’opportunità di tornare nel novero delle persone fisiche & riconoscibili.

    O forse mi piaceva essere diventato veramente, in tutto e per tutto, un nessuno, vai a sapere. Ormai è passato qualche tempo.

    Piove, insomma. Vuol dire che questa notte sarà perfettamente inutile che mi cerchi una panchina qualunque, perché sarà fradicia. A Porta Susa non vado. I portici sono quasi tutti occupati, e a diretto contatto col suolo non voglio dormire. Che dire? Farò una passeggiata.

    Buona serata a tutti.

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    CCLXXI. Da qui riesco a postare.

    30 Ott

    CCLXXI. Da questa postazione riesco a postare. E’ sottinteso che ci sia un’altra postazione da cui NON riesco a postare. E sembra una contraddizione in termini, ma non è.

    Ne approfitto per annunciare che ormai mi sono trasferito su

    http://www.anfiosso.wordpress.com

    dove riesco a postare senza problemi da qualunque postazione.

    Di fatto l’ho già inaugurato, e ci ho scritto un pezzo, che (non avendo nulla da fare per il prossimo minuto) riporto anche qui:

    3. Il camorrista e la serva innamorata.

    Ottobre 28th, 2006 by anfiosso

    3. Bel titolo, neh? No, niente, non è né un fogliettone né il soggetto di una miniserie. Sono solo osservazioni che faccio così, en passant, incidentally, senza troppo impegno.

    Io non parlo volentieri dei contemporanei. Prima di tutto ci capisco poco, perché ho letto pochissimo Novecento, e il più delle volte mi mancano i presupposti. Secondo, sui contemporanei facilmente ci si accapiglia, e la cosa potrebbe anche starmi bene, non fosse che non ci si può accapigliare con gusto su cose che non piacciono e non interessano granché. Infatti (terzo) a me il Novecento non interessa quasi per niente. Duole dirlo, ma è così.

    Però ultimamente, già che sono sofferente per via di tutta una situazione che ha cominciato a pesarmi insostenibilmente, non so se ad abundantiam o proprio per ultraraffinazione di masochismo, ogni tanto mi metto a seguire un contemporaneo. La cosa ha anche i suoi vantaggi, per un culo di pietra come me: il materiale è abbondante e facilmente reperibile, e poi le discussioni che si fanno sono normalmente istruttive circa le condizioni della cultura, per quanto, in prevalenza, limitatamente a questo o quell’autore, appunto, &c.

    Ultimamente si fa un gran parlare di Roberto Saviano, questo scrittore napoletano, classe 1979 (è quindi un giovane di 27 anni, beato lui — benché i giornali abbiano riportato in massa che ne ha 28), che ha scritto un romanzo, o romanzo-inchiesta, o romanzo-saggio, dal titolo Gomorra. Scelta che, per la sua mera assonanza con “Camorra”, mi sapeva un po’ di pretesco (i preti, che per la più parte non sanno quello che si dicono, tendono ad essere sicuri più del suono che del significato delle parole, è per questo che sono usi a questi giochini di parole e rispondenze foniche), e infatti prende spunto da una predica di d. Giuseppe Diana, un sacerdote di Casal di Principe (patria dello scrittore) ucciso dalla camorra. Ho seguìto la vicenda personale di Saviano sui giornali, e ho tentato di capire che cos’avesse detto di tanto sbagliato, per finire minacciato dalla camorra.

    Ho cominciato a leggere di sfroso il libro alla Mondadori e alla Fnac (alla Civica doveva esserci, ma è o fuori in prestito o è fuori posto, e comunque è irreperibile). Mi affascinava stranamente questo fatto per cui Saviano aveva inserito nella narrazione i veri nomi e cognomi dei camorristi, che si chiamano Zagaria, “Sandokan” Schiavone &c. Mi è parsa una cosa altamente originale, quella di mettere personaggi del tutto veri in una narrazione che si suppone finta (non falsa, non menzognera: finta, che è diverso). Poi, alla fine di settembre, al termine di una manifestazione anticamorra durata quattro giorni, nella natìa Casal di Principe si è rivolto direttamente ai capicamorra, sempre per nome e cognome, dicendo “Non valete niente” e “Se ne devono andare da questa terra”. Non so e non posso sapere, nella mia ignoranza, quanti altri veri nomi-e-cognomi abbia fatto nel libro. A questo punto sono cominciate le difficoltà; le quali (secondo la Repubblica, l’Espresso, l’Unità, il Corriere e varii altri giornali da me spulciati in biblioteca) consisterebbero in: 1. un certo isolamento ambientale; 2. il rifiuto da parte di un ristorante di servirlo (”Lei qui non è gradito”); 3. la preghiera di un panettiere di non servirsi più di quell’esercizio; 4. telefonate mute; 5. lettere anonime (dal contenuto non specificato). Si aggiungono altri due fatti, che, se veri, sembrano di gran lunga più dolorosi, ma il fatto che siano stati riportati solo una volta potrebbe renderli sospetti, cioè il fatto che i genitori gli abbiano tolto il saluto e la parola e il fatto che il fratello sia stato costretto a trasferirsi al Nord. In séguito a questi fatti, certamente spiacevoli,  le autorità gli hanno messo a disposizione la scorta. Questo nonostante, per quanto è stato detto, non sia affatto scontato che sia stata la camorra a minacciarlo. Per quanto posso aver estratto io dalla lettura dei giornali, potrebbe anche essere stato il panettiere (posto che sia stato nominato, e non ne so nulla).

    Alla gente, credo, non piace essere messa così, nome-e-cognome, in un libro, senza essere stata prima consultata. Alla gente, parimente, non piace l’eventualità stessa di poter essere, un giorno, nominata col proprio vero nome-e-cognome, e ritratta a tinte fosche in un romanzo sensazionalistico. Fin dove giornali ed ebdomadarii m’hanno potuto educere, potrebbe essere non la camorra, ma un comitato, o un semplice concorso, di ciane annojate, beghine diffidenti e vajasse sospettose con l’ausilio di piccoli amministrativi marginali e qualche ginnasiale un po’ sfigato, che hanno subodorato il rompicoglioni e lo vogliono stupidamente punire. Non sarebbe la prima volta che ci si espone è messo alla berlina perché si è esposto. Vero è, anche, che Saviano ha pubblicato presso Mondadori, e che i ballatoj, i ristoranti e le panetterie di Napoli sono lontane assai da Milano, Segrate e Arcore.

    Rimane il fatto che io il romanzo (posto che sia un romanzo — Wu Ming  ricostruisce con flaccida erudizione la complessa genealogia di un libro del genere, che dichiara comunque una novità assoluto) non l’ho finito, e non so se ce la farò mai. Nonostante in molti siano di parere contrario, trovo le digressioni in materia economica del tutto indigeste, per quanto esposte con chiarezza fors’anche eccessiva (non so quanto sia da prendere sul serio in materia economica uno che mette insieme, e quando meno te lo aspetti, Marx, Ricardo e Stuart Mills — ma, appunto, non me ne intendo) .

    Per quanto riguarda la novità della struttura, essa è abbastanza evidente: solo che non è una novità rispetto a un libro-inchiesta come lo intendiamo oggi, ma è una novità rispetto a quello che mi sembra essere il vero modello del libro, vale a dire la narrativa sociale (e sensazionalista) ottocentesca. Ha destato sensazione il capitolo dedicato al “vestito di Angelina Jolie”, in cui il bravissimo sarto Pasquale, schiavizzato dalla camorra per fare e insegnare a fare vestiti di lusso in sordidi scantinati, vede in televisione la famosa attrice con indosso un vestito da lui confezionato, e si dispera. C’è qualcosa di fin troppo simile nei Misteri di Parigi, Pasquale ricorda la presso la patetica figura del giojelliere e i suoi meravigliosi manufatti, ahilui destinati ai ricchi & ai potenti, laboriosamente confezionati al bujo, al freddo, di notte, e in una squallidissima soffitta condivisa con la sposa disperata e la prole famelica.

    La digressione è nata come lettera di nobiltà della narrativa socialeggiante: digressioni fa Disraeli nella Sybil, dove mette a frutto la sua esperienza di politico, digressioni disordinatissime fa Sue nei Misteri di Parigi, stupende digressioni, prima fra tutte quella sulle fogne di Parigi, fa Hugo nei Miserabili. Tutti modelli che Saviano sembra avere molto più presenti (non so se abbia letto Disraeli, ma che cosa importa?) rispetto a Stajano o alla Cederna, che ha nominato, o a tutta una serie di scrittori-giornalisti di scuola americana o anglosassone o che so io — nei cui lavori non ci sono intenti letterarii. Solo che Saviano non sembra essere in grado di inventare quanto, proprio, di rielaborare quello che ha appreso dai giornali, dai libri e dalle carte processuali su cui ha potuto mettere le mani; ed è proprio nel riproporre, con tensione espressionistica più che con ‘passione civile’, questi materiali preassunti la sua più grande abilità — se non l’unica. Non ha grandissima tempra di narratore, se non per quanto riguarda i singoli episodii, che tinteggia da romantico putrefatto, con paste acerrime, come un piccolo, valoroso Guerrazzi guappone, mentre l’organizzazione del testo come una ‘nebulosa’ di diversi fatti ricorda assai il Mastriani sociale dei Misteri di Napoli. Insomma, è come se il materiale digressivo si fosse portato via una fetta un po’ troppo consistente del romanzo, sbilanciandolo verso qualcosa che sembra per larghi tratti un saggio e non è — e questo non è un aspetto positivo.

    Ed è singolare, questa serie di somiglianze, anche se il risultato, chiaramente, è puro Saviano. E può anche darsi che la camorra abbia tutti i motivi di mobilitarsi per un libro del genere, io lo metto in dubbio, ma che ne posso sapere io? Io non conosco camorristi (dico sul serio, ho conosciuto di sguincio solo qualche vecchio mafioso scoppiato) e non ho mai fatto sforzo alcuno per entrare nella testa, come suol dirsi, di un camorrista. Non so come ragionino, e francamente non so nemmeno se ragionino. So che il libro risente in maniera molto, molto pesante delle sue origini strasuperate, che denuncia in modo fin troppo scoperto; il fine è sensazionalistico, ed è raggiunto in modo retorico. Non si tratta del libro scritto da un osservatore della camorra, è il romanzo di un romanziere che ha colto nella violenza camorristica un fatto letterario — e lo sforzo di documentazione ha una sua economia persino nell’estetica di questo genere di narrazione. Ci si trova di fronte a un risultato che è un po’ come il “barocco” di Manganelli o Gadda; francamente, continuo a preferire le Dicerie sacre, il Cannocchiale aristotelico e il Cane di Diogene. Hugo lo fa meglio.

    Il risultato, il risultato, il risultato. Il risultato è come un brutto film di Pasquale Squitieri, la fotografia sgranata, crasso, lutulento, umido, grondante, splàncnico. Insomma, mi ripugna. Capisco Rosa Russo Jervolino, che l’ha chiamato “fissato strabico” (riconosce lui tesso di essere “sporco dentro”, ma lui lo riconosce con civetteria) e ha tentato (poveraccia, non gliel’hanno né passata né perdonata) l’anfibologia (”simbolo della Napoli che denuncia” — della Napoli ‘che non ha paura di denunciare l’illecito’ / di quella Napoli ‘che lui stesso denuncia, essendone parte integrante). In effetti operazioni del genere sono fatalmente molto ambigue (come ambigue sono le origini politiche del giovane scrittore, all’inizio attivo presso le sedi locali tanto dei comunisti quanto del Mis — esteticamente è, in effetti, molto fascista). Eppure il romanzo (il romanzo-saggio, il romanzo-inchiesta, o quello che è) ha avuto effetti, pare, benefici, spronando le stesse autorità a mobilitarsi, di più e meglio, nelle direzioni in cui già stavano agendo. Posto che non si tratti, a livello istituzionale, di un caso analogo a quella specie di isteria collettiva che ha travolto Enzo Siciliano (che morente lo designa vincitore del prossimo Viareggio, qualcosa che mi ricorda la zarina Alessandra che, condannata, incide la svastica sul vetro) e anche Umberto Eco, sul cui rincoglionimento (anche a prescindere dal suo intervento al TG1) mi sembra non sussistere più nessun ragionevole dubbio.

    No, non credo che finirò Gomorra: non ce la faccio, lo sento inutile. Quello che poteva interessarmi di quel libro si trova già nelle prime cinque pagine — e non è niente che riguardi, nello specifico, dove vadano a finire i cinesi morti, o le gabole che fanno i cinesi vivi per portare avanti il contrabbando, e tutto quanto segue circa spaccio, cavallini, colate di cemento e quant’altro c’è o non c’è. Quello che più mi ha colpito è, alla fin fine, l’urgenza espressiva puramente ormonale, implacabile nelle prime 200 pagine (le sole che, ribadisco, io abbia letto), l’incredibile jattanza (lui stesso ha parlato dello scrivere come atto in qualche modo ’superbo’ e ‘arrogante’), la vana pompa — tutte cose che, a differenza di qualche malcapitato su Nazione Indiana che ha avuto l’imprudenza di dirsene allergico, io non condanno affatto. Anzi! Ho un’invidia blu. Il respiro, sapete. Quel macinare parole una più grossa dell’altra, ora quell’anfanare a secco frasi a mitraglia e ora quell’imbastire frasoni zeppi di tecnicismi (puro cultismo, si sa). Un modo di scrivere che sa anche molto di destrorso, sì, ma così invidiabile, per me, che non sono interessato né al tema che ha trattato Saviano (che ha detto di aver voluto scrivere un romanzo sul potere descrivendolo in una delle forme in cui è più riconoscibile, come camorra; e forse è più riconoscibile proprio perché è meno forte di altri poteri, che sanno nascondersi meglio per agire meglio) né ad altri temi, e quindi sono come un cane morto! La serva innamorata del titolo riguarda proprio questo. Si richiama a un librettino di Kierkegaard curato da Dario Borso, in cui si dice che una serva innamorata è più colta di un professore. Non so se si capisce … (non ho voglia di dilungarmi — ma ci viene, qualcuno, a leggere, qui?). Invece la metà superiore del titolo è una reminiscenza di quello che Tomasi di Lampedusa scrisse di Carlyle nelle sue “Letture” inglesi.

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    CCLXX. Uah uah uah

    7 Lug

     

    Old Post 02-07-2002 15:38
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    DarioFulci
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    Violetina, hai power point sul tuo pc?

    Come puoi vedere l’estensione del file e’ ".pps" dunque solo l’applicazione power point della microsoft puo visualizare questo tipo di file.

     

     

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    Old Post 03-07-2002 00:07
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    Melange
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    non solo non ha pp sul pc
    ma ha pure la sveglia al collo, l’anello al naso e, se ho visto bene, usa un femore di cinghiale come fermacapelli

     

     

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    Old Post 03-07-2002 05:19
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    DarioFulci
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    e l’anello solo al naso?

    Ma che cazzo me frega come si veste ecetare…

     

     

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    Old Post 03-07-2002 05:34
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    _violet_
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    no, il femore è umano, Mel!
    E’ dell’ultimo che mi ha detto che non avevo qualcosa sul pc e che mi serviva assolutissimamente…

    V

     

     

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    Old Post 03-07-2002 05:49
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    DarioFulci
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    come quello che lanciano le sciemmi sul monolithos in 2001 odisea dello spazio?

     

     

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    Old Post 03-07-2002 05:58
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    Melange
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    sciemmi
    scimmie
    banane
    bollino blu
    fronte
    appiccicato

    sono bravissima nel bersaglio della settenig

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    CCLXIX. …. ella …

    14 Giu

    ho messo il tag "letture" per tutte (credo) le cose che riguardano libri, anche un po’ di sguincio. Cioè non tutte sono recensioni in senso stretto. Però così è più facile trovarle (peraltro ho notato che sono tra le cose meno lette, non hanno mai o quasi mai commenti).

    d.

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    CCLXVIII. Ciao a tutti.

    8 Giu

    CCLXVIII. Questo è un blog che ha senso se ha un senso l’ultimo post. Ciò che vuol dire che (ma si sarà già capìto) non vale proprio la pena che mi metta al piccì a postare alla cacchio di cane: non mi riesce.

    La Rete (e anche questo si sarà già capìto) mi è scomoda. La frequento in primo luogo perché postare le cose quassopra mi permette di metterle un po’ in ordine. Il secondo luogo non c’è. Passiamo alla frutta (o ci siamo già?).

    Ho cumuli di cose che ho scritto a mano, più o meno bene, ma certo incomparabilmente migliori delle quattro cacate che ho messo sul blog. Credo che per qualche tempo, ma solo perché non vada tutto sprecato, mi limiterò a copiare nel blog le varie cose che ho su carta. Prima ancora, però, voglio finire tutta la carta che ancora non ho scritto.

    Non so se mi sono spiegato.

    Riassumo:

    1. Devo finire la carta che ho. Da adesso fino a quando non avrò esaurito la carta che ancora non ho scritto non credo posterò più sul blog. Non c’è un particolare significato, in questo, è giusto per il gusto di darmi delle direttive. (Ho poca carta, però, quindi non andrà guari che sarò di nuovo qui a rompere i coglioni. Oddìo, se fossi così entusiasta di scrivere sul blog, darmi questo limite servirebbe ad incrementare la mia produzione media, ma non smanio per il blog come non smanio per nient’altro). [[L’unica cosa che mi è venuto in mente che potrei scrivere è una sciapita ode cimiteriale dal titolo Alla statua / di Maria Des=ciuloja / Pautasso / Ved. Mangioyra / al Cimitero monumentale di Torino. Oda. Lo dico solo perché in cantiere, al momento, non ho altro, ma non è escluso che lo trovi]].

    2. Devo finire un poemetto in ottave sugli esperimenti relativi alla digestione compiuti verso il 1770 da Lazzaro Spallanzani. Volendo, potrei finire di compilare alcuni inutili schemi e grafici cavati da Dalla vita di un fauno dello Schmidt, di cui ancora non so che cosa, sostanzialmente, dire. C’è un piccolo studio sull’iperbole nel Basile, diverse notazioni sul Marino, descrizioni brevi o sfoggiate di eventi di cui sono stato spettatore, resumè ragionati su La terra sotto i suoi piedi, L’arcobaleno della gravità e It, quello che posso di un poema in ottave dal titolo Le ombre, che dovrebbe prolungarsi, in teoria, all’infinito (quindi può finire anche sùbito). Ho, terminati, una specie di saggino a volo d’uccello sui romanzi (quasi tutti, ma devo vedere se trovo quelli che mi mancano) della Nothomb, e idem con patate su Moresco, e altre e simili cose su altri autori. Ho una cosa abbastanza lunga su Dhalgren e una molto lunga, testo + commento, relativa ai Capricci serii delle Muse di Gio. Battista Vidali, e un’altra di medie proporzioni su alcune rime del Murtola (dalle Canzonette del 1608). Alcune considerazioni sparse sul Frugoni, il Sagro Trimegisto (con annesse riflessioni sulla predicatoria appena precedente e sul ‘buffone del pulpito’) e l’Eroina intrepida in specie. Tutte queste cose non sono terminate. Mi stavo interessando anche al saggio della germanista Ursula Bavaj Mythoscopia romantica sulla teoria del romanzo in Germania 1629-1698 [di qui la piccola riproduzione qui sotto, che è tratta da un romanzo di tal Bohse, detto "Talander", 1661-1770]. Nulla, come si vede, di particolarmente avvincente, tutt’altro.

    Nel frattempo scriverò una mail (da domani, però), nella fattispecie ad azu, che mi ha scritto due volte.

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    CCLXVII.

    1 Giu

     

     

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    CCLXVI. Due note a margine (non so di che) sul realismo magico

    27 Mag

    CCLXVI. Dato che non so esattamente di che parlare, pesco a casaccio dai pensieri che mi frullano nel cervello a ciabatta, e mi baso sulle imprezziòni che ho raccolto dalla quartultima mia lettura, quella di un romanzo di cui ci sarebbe da scrivere molto (nello specifico) anche se non è il meglio riuscito del rispettivo autore, che è Salman Rushdie, mentre il romanzo è La terra sotto i suoi piedi. L’argomento, il perché del titolo, il numero delle pagine, la trama, i rimandi interni, le eventuali assonanze, le eventuali assonanze a parer mio: : rimando tuttociò ad altra volta, quando avrò organizzato (SE avrò organizzato) la babele delle scartocchiature confuse e quando sarò riuscito (SE sarò riuscito) a copiare, brandello dopo l’altro, quartodora dopo l’altro, lo stracciafoglio che avevo / avrei / ho [sic!] in animo di ultimare. Il discorso che vorrei fare è anche risentimento molto generico e impressionistico della recente trasmissione in tivvù di Harry Potter e la camera dei segreti. Mai visto prima (non guardo mai la televisione, perché mi annojo, ma stavolta ho fatto eccezione), ho letto solo i libri. Il pajo di notazioni era intorno al realismo magico. Ora, esiste un libro, molto interessante, di Stefano Calabrese, www.letteratura.global, PBE 2005, che tratta del romanzo del post-postmoderno. Vi si parla di realismo magico. Il realismo magico, per quello che ho potuto intenderne (so di non poter dire ‘per quello che a me è interessato intenderne’, della cui cafoneria mi rendo perfettamente conto — in più, vorrei sinceramente che non fosse così), è quella cosa a due facce, di cui si è parlato a proposito vuoi di Poe, vuoi dei sudamericani (Cent’anni di solitudine è il capolavoro del ‘genere’), vuoi di Pirandello, vuoi di tutta una serie di scrittori — spesso è mera componente, non aspetto fondamentale; &c. E’ una definizione a specchio, come un po’ tutti gli ossimori (quando sono usati come definizioni, ovviamente), essendo che può definire sia un modo magico di narrare la realtà sia un modo realistico di narrare cose magiche. Calabrese delimita una nozione di realismo magico molto più centrata e delimitata (ne fa un termine, volendo), specie a questi ultimi anni, benché la definizione esista da parecchio. Un intero capitolo è dedicato a Rushdie, e sono in sua compagnia anche la Allende de La casa degli spiriti, bel romanzo popolare, e i costruitissimi romanzi della serie di Harry Potter. L’analisi su Rushdie non sfiora nemmeno La terra sotto i suoi piedi, e si concentra eminentemente sui Versetti satanici e sul precedente (capolavoro) I figli della mezzanotte. A proposito di Harry Potter notava come il volume dei testi a mano a mano che sono stati pubblicati sia andato, via via, aumentando, fino ad uscire dal target ‘per soli giovanissimi’; una trasversalità quanto ai destinatarii che corrisponde ad altre forme di trasversalità sulle quali non mi dilungo (anche perché sono opinioni dell’autore del libro, che può essere compulsato da chi vuole come vuole quando vuole): ma il realismo magico è un genere (?) intollerante di strettoje, è ambizioso, e tende (consapevole l’autore) all’opera mondo.

    (Si parva licet,) sui libri della Rawlings (sulla confezione esterna) sono spesso riportate le sue parole circa il ricordo vivido che lei personalmente serba dei suoi undici anni — ‘a quell’età’, chiosa grosso modo, ‘si è veramente impotenti’. Anche questa notazione, a ben guardare, è anche un po’ fuori target, non solo le settecento pagine di H. P. e il calice di fuoco. Non si tarda a riconoscere un aspetto (noto da Freud in poi, circa la nevrosi del romanziere, dagli amici immaginarii in poi) che è stato solo susseguentemente isolato, spiritosamente, come ‘realismo isterico’, e che si riferisce ad un’altra scrittrice. Per quanto attiene i magni, Rushdie concepisce la sua scrittura, a sua volta (mutatis mutandis — ma la vicinanza imbarazzante è già nel saggio di Calabrese!), come una forma di compensazione. Parola parte oscena e parte no, in questo contesto & quest’accezione (bisogna vedere che cosa si ha da compensare). Ma la funzione del suo romanzesco è poi il recupero di quella dimensione, che un tempo non era solo dello spirito, che è la Bombay pre-Mumbai, che non era né del tutto India né del tutto Inghilterra; con equilibrii familiari del tutto particolari — poiché i genitori erano (sono) musulmani, come (oggi nuovamente, salvo ulteriore resipiscenza) lo stesso Rushdie; il quale, però, per rendere l’idea, ricorre a personaggi, in questo romanzo, zoroastriani.

    Per moltissimo tempo (non parliamo dei secoli passati) l’apprezzabilità di un libro è stata garantita solo dalla condivisione di oggetti: solo la riconoscibilità, criterio, poi, di fatto del tutto esterno al libro, ha garantito, nel caso, la fortuna di un testo. Segno (dev’essere per forza così) che si poteva ragionevolmente pretendere di scrivere solo a partire da un certo grado di condivisione esperienziale e libresca con il pubblico — o ribaltando un determinato universo di valori. Fino al punto da scalciare fuori dalla letteratura, dalla poesia, qualunque bellezza (salvo tenerle aperte le imposte, nel caso volesse far una svolazzatina, prima o poi), vale a dire — più precisamente — qualunque ricerca estetica. Il realismo magico è attualmente appannaggio di personaggi dal destino (etimologicamente) eccezionale di déracinés, per i quali la comunicabilità del proprio materiale biografico, e del proprio universo di valori, dipende fortissimamente dalla capacità di fornire oggetti e riferimenti. Del tutto in controtendenza con quanto di più avanzato mi sembra aver prodotto il ‘900, il realismo magico (secondo questa nuova accezione) reimporta nella letteratura la preoccupazione di produrre quanti più riferimenti sia possibile, per far cadere il lettore, in qualche modo, in un’altra vita. Banditi (per ovvie ragioni) tutti i simbolismi e le astrazioni, lo scrittore magico-realista si propone, per ragioni di mera sopravvivenza di sé e di tutto un mondo, di consegnare (con tutte le difficoltà del caso) la parte più propria e caratteristica del proprio universo di senso. Leggere in questo caso non serve più a confermarsi in un’idea; anche il lettore più stanco e pigro deve costringersi o ad interessarsi o a rifiutare una volta per tutte un mondo che, comunque sia, non può giudicare, perché, in quasi ogni caso, non è il suo e suo non sarà mai. Se vuole essere e mantenersi in grado di leggere da capo a fondo, deve aprirsi alle suggestioni, e rappresentarsi mentalmente quello che legge: è riesumata, per ragioni concretissime e non edonistiche, una lettura ben equilibrata tra l’inesistente (meramente narratologica) ingenuità assoluta e la (quasi altrettanto intesistente) lettura critica. Si legge per conoscere — nulla di letterale (di letteralità sono piene biblioteche, archivi, catasti, casellarii, uffici di polizia, agenzie dell’erario e quant’altro), tutto di sostanziale. E’ chiaro, c’è anche il rischio che, di là da un interesse variamente posticcio, si finisca con lo scrivere cose che non interessano a nessuno — ma rimane la possibilità del messaggio nella bottiglia, con un pizzico di esotismo barocco (c’è molto snob depurato, in questo realismo magico) e una punta di postromanticismo. E’ una flessione estremamente affascinante della letteratura degli ultimi anni, secondo me.

    [Non ho il tempo di rileggermi. Tornerò, spero, sul romanzo di Rushdie al più presto — su Rushdie in generale, &c.].

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    CCLXV. Volevo solo prendere l’aire.

    25 Mag

    CCLXV. Forse non tutti sanno che io mi sono catapultato verso il basso perché volevo perdere tutte le sovrastrutture, come le chiamano, e poco prima di toccare terra, lasciandomi scivolare giù dalle spalle la mostruosa impalcatura, prendere il volo, virando fulmineamente verso l’alto. Oppure schiantarmi, perire e — finalmente — risorgere spirito. Mi sono sbagliato: ho perso tutto, sono morto e non sono risorto. La sovrastruttura era la parte più vera della mia fulgida personalità, là sotto ci stava (e sta) solo mota, una specie di fabbriceria o marrame (e materiamen) da solo inservibile; lo spirito non esiste. Ho le ossa che mi urlano.

    Ma penso sempre (a che cosa dovrei pensare, sennò?) a quanto sarebbe bello nascondere la mia vita ed espandere l’anima. Diventare, almeno per un periodo, quel tanto che mi basti a rendermi parte del mondo, cose, storie, persone che non sono io. Invece ho l’anima parte piombo e fango, parte strega impazzita dallo sdegno, dal risentimento, dal disprezzo. La mia anima è un semplice organo interno — un organo giudicante interno, del tutto contraria a liberarsi come (cioè contrabbandarsi per) soffio, vento, palpito, vapore, fumo, ombra, niente. Ciò che è peggio, non hanno ancora inventato una lingua adatta per lei, sicché non si esprime, e morde. Vorrei prenderla a schiaffi, ma mi farei male e basta.

    Sento che certe occasioni sono mancate. Per esempio, jersera parlavo con un amico di dormitorio, che mi illustrava una serie di usi e costumi di casanza (=galera; ci sono stati quasi tutti quelli che conosco, i pochi che non ci sono stati l’hanno solo scapolata), che cosa s’intende per ‘Bronx’ e che cosa per ‘Manhattan’, le gerarchie invertite, le ore d’aria, codici e convenzioni — molto spiritoso, anche, è un bravo raccontatore; mi sono fatto anche qualche risata. Quando abbiamo finito la conversazione mi sono detto: ma perché non farne un pezzo da mettere sul blog?

    Perché non sono in grado di farlo non l’ho capìto, e forse non lo capirò mai. Sicuramente non è il mio argomento, ma con un po’ di sforzo sono riuscito mille volte, nel passato, a trattare altri argomenti che non erano il mio. Se questo non è il mio argomento, vorrà dire che mi dovrò occupare di altro. Cioè del mio argomento (che so qual è, ma non posso dire che esso è individuatamente a, b, c, &c., perché infatti coincide con quello che di esso argomento dico/direi/dirò, &c. &c. &c.). Qui, o anche non qui.

    [quello che mi sto chiedendo è: se questo non è il mio argomento, io come sono finito qui? Mi ci hanno portato, e le alternative erano molto incerte. E io ho pensato che nel giro di poco tempo mi sarei affrancato. E come ho potuto sopportarlo? Be’, ho conosciuto cose, persone, sono lontano da una situazione intollerabilmente verminosa, sono solo, sono — volendo — libero. E’ sufficiente? Tutto sommato, assolutamente no. E che cosa dovrebbe indurmi a continuare a sopportare tuttociò? A parte la miseria, niente. Ah, ecco. Eh, già.]

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    CCLXIV. Invidia.

    24 Mag

    CCLXIV.

    Q

    ual

    cuno sa

    c h e   c o s a

    s  i     p  r  o  v  a

    ad   e s s e r e

    g r a f o m a n i ?

    [Secondo me ci si annoia meno]

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    CCLXIII. Che palle.

    22 Mag

    CCLXIII. Non è la prima volta che uso questo titolo. Il fatto si è che scrivere mi dà una soddisfazione particolare. Inquantoché per me scrivere, specialmente in pubblico, implica un grande sforzo della volontà. In realtà non ne ho mai voglia. E mi vergogno, sì, a dirlo, almeno un po’; ma non posso pretendere che non si capisca. Il fatto è — mi spiego meglio: ne avrei anche voglia, ma non mi viene così spontaneo. Non quando c o n s i d e r  o che in realtà la mia intenzione sarebbe scrivere, non comunicare. Ma dal momento che scrivere presuppone, lo si voglia o no, un pubblico, tanto vale che afferri il toro per le corna (così mi sono detto), cioè che scriva direttamente in pubblico. Ma in pubblico — appunto — c’è un pubblico. Di tre, quattro, cinque persone che giornalmente vengono qui e leggono; pochissime (non che ne vorrei di più, anche se forse un annetto fa mi avrebbe fatto piacere), ma pur sempre un pubblico. Purtroppo, mi sono accorto che a mano a mano che vado avanti, la stanchezza di produrmi su questo minuscolo e scassatissimo palcoscenico mi pesa vieppiù. Tutte le volte che mi connetto, ormai, mi viene più da piangere che da scrivere. Riesco a  g u a r d a r e  qualcosa sul blog di azu, mentre i blog di ella e la sirenetta sono attivi solo assai periodicamente. L’idea di familiarizzare con altri blog mi sderena non poco… Senza contare che quando càpito su blog che mi fanno schifo mi sento male…

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    CCLXII. Mea culpa.

    19 Mag

    CCLXII. Mi rifaccio a un rapido (e interrotto) scambio di battute avuto su un altro blog. Faccio qualche precisazione volante qui prima di tutto per mandare avanti di un altro post il blog, e poi perché su quell’altro non posso più entrare (l’autore dev’essersi offeso per qualcosa — a me interessa poco, non sono legato a quella persona da nessun vincolo particolare né di stima, né di affetto né di qualunque altro sentimento implichi un certo grado di dipendenza).

    So che in realtà faccio malissimo, che tutte le volte che sento dir male dei gay dovrei sentirmi tirato di mezzo e mettermi a sanguinare, e chiedere scusa se esisto mentre mi dileguo, spiandomi al disopra della spalla se a qualcuno gli sono venuti i lucciconi da rimorso. Un genio malvagio conduce la gente (intelligente o cretina che sia, ma lascio ad altri giudicare chi appartenga all’una o all’altra categoria; a me queste distinzioni [che poi sono un’ulteriore forma di razzismo, nemmeno tanto più sottile di qualunque altra forma il razzismo scelga per manifestarsi] hanno smesso d’interessare da tempo immemorabile) a sopravvalutare micidialmente la propria opinione. Una delle poche cose che so è questa: che i fatti contano (anche a livello di pensiero: la conoscenza, innanzitutto), e le opinioni no. Sono una cosa ininfluente; possono diventare influentissime quando, unanimisticamente, perdono la loro natura specifica e funzione essenziale, del tutto privata, personale, e non necessariamente comunicabile. Ricordo che Sciascia era convinto (dopo il ’75) che la sua posizione in merito all’omosessualità avesse fatto soffrire Pasolini, per esempio. Sciascia era perfettamente in grado (a differenza di me) di discernere tra cretini e intelligenti, ma stavolta il cretino era stato lui.

    Posso apprezzare una persona per i suoi contenuti — per certi suoi contenuti, e l’apprezzo finché ci trovo dell’apprezzabile. Posso, apprezzando, apprezzare molto e apprezzare poco, ma pur sempre apprezzare. Posso apprezzare sommamente e mediamente. Posso apprezzare a mezzo, e mezzo no. Ora, c’è questo blog www.artifiziale.splinder.com, che mesi e mesi fa conteneva degli interventi deliziosi, ben scritti e coltivati. L’ho apprezzato per quanto si può apprezzare qualche intervento coltivato e spiritoso lasciato cadere in Rete a mezzo blog. Di lì a qualche tempo ha cominciato a manifestare idee destrorse (suo diritto — e anche andasse in giro a spaccare la testa alla gente [cosa che non so, non posso sapere e di cui non me ne frega niente] sarebbe affare delle autorità competenti e non mio) e, ciò che è peggio, a ripetersi. Ah, per uno di quei meccanismi d’inversione piuttosto scontati proprio nel periodo in cui capitavo io sul suo blog aveva messo come testata "A.I.: anonimo ricchione". Che ci fosse qualche sfumatura sfottitoria (non necessariamente omofoba, ma che non fosse un ricchione — mettiamola così) mi era chiaro, e non mi ha disturbato.

    Bè, a rischio di scandalizzare devo dire che non mi ha disturbato nemmeno quello che ha scritto in séguito, esprimendo antipatia (spesso giustificata con qualche schizzo d’acquasantiera) nei confronti di neri, ebrei, zingari e quant’altro. Semplicemente, ho smesso di andare sul suo blog.

    Un giorno c’è stata un’inopinata impennata nelle visite (sono tempi di decadenza, questi, per il povero anfiosso), e ho letto tra i siti riportati dal contatore che sta in fondo a questo blog che la gran parte di quelle visite proveniva dalla sua parte. Sicché ci sono andato, e in effetti aveva aperto un post in cui diceva: "Visitate l’anfiosso: egli è irrimediabile". L’idea mi è parsa anche carina, perché ha portato qualche visita e qualche link in più. Nei giorni seguenti sono tornato sul suo blog, dove ho letto qualcosa dei post più brevi (quelli lunghi, anche quelli che m’interesserebbero, sono fuori portata, per me, data la tirannia del tempo) ed è stato piuttosto automatico intervenire pacatamente quando se ne è venuto fuori con una delle sue ossessioni favorite. Una ragazza lesbica, "laura", aveva messo un suo intervento in cui esprimeva rammarico per le affermazioni dell’owner; toni che, non provando rammarico alcuno, io non avrei tenuto. Ho detto la mia, con la consueta diffusione. Spero che fosse chiaro che non sono queste le cose che mi offendono.

    Non mi offende il fatto che una persona limitata mi faccia maledire dal suo dio, ma tengo a precisare che, come non mi faccio niente e delle maledizioni (m’interessano di più quelle che scaglio io, semmai) e di qualunque dio, così la "mancanza di carità" dimostratami non mi significa un cazzo. Né la sua carità né la mancanza di carità mi possono aggiungere o togliere alcunché. Tutto ovvio, ma tengo a precisarlo. Per il resto, ho la netta convinzione che una persona che, in quest’annodòmini, giustifica la sua posizione con quell’ipocrisia di sempre chiamata ‘fede’ abbia qualcosa che non va al piano attico. Potrei essere un suonato anch’io, ma non sono uno stronzo (nonostante, ahimè, abbia fatto paura a qualcuno persino qui…). E sono convinto anche di un’altra cosa: che chiunque la pensi in un certo modo sull’omosessualità, sempre per la piccola legge delle opinioni, che hanno da fare con la personalità nel suo complesso e non sono nulla di cui la società circostante debba farsi (e, di fatto, si faccia) carico, non giungerà mai a nulla che meriti, veramente, la mia stima, il mio interesse (il mio affetto, il mio trasporto, la mia curiosità, &c. &c. &c.). Là, dentro di noi, tout se tient, immancabilmente.

    Vale per tutti, ovviamente.

    Cia’.

    d.

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    CCLXI. Esistono.

    13 Mag

    CCLXI. Su splinder esistono i seguenti blog (non tutti attivi, ma esistono):

    IMPRESENTABILI.

    www.tamarro.splinder.com
    www.truzzo.splinder.com
    www.sfigato.splinder.com
    www.rottinculo.splinder.com
    www.inguardabile.splinder.com
    www.cozza.splinder.com
    www.rospo.splinder.com
    www.befana.splinder.com

    FACILI COSTUMI.

    www.vacca.splinder.com
    www.troia.splinder.com
    www.puttana.splinder.com

    MINUS HABENS

    www.cerebroleso.splinder.com
    www.cretino.splinder.com
    www.idiota.splinder.com
    www.fuso.splinder.com
    www.testadicazzo.splinder.com
    www.pirla.splinder.com
    www.mona.splinder.com

    BLEAH!

    www.immondizia.splinder.com
    www.trash.splinder.com
    www.monnezza.splinder.com
    www.merda.splinder.com

    www.brufoli.splinder.com

    SANITARI.

    www.cesso.splinder.com
    www.tazza.splinder.com

    DEVOZIONI e derivati.

    www.porcamadonna.splinder.com (ma anche www.morcapadonna.splinder.com)
    www.porcatroia.splinder.com
    www.porcaputtana.splinder.com
    www.porcavacca.splinder.com
    www.porcapaletta.splinder.com
    www.porcamiseria.splinder.com
    www.diocane.splinder.com (chiuso)
    www.dioporco.splinder.com

    PERDINDIRINDINA.

    www.eccheccazzo.splinder.com
    www.mannaggia.splinder.com
    www.vaffanculo.splinder.com
    www.socmel.splinder.com
    www.mortacci.splinder.com

    ODOROLOGICI.

    www.rutto.splinder.com
    www.peto.splinder.com
    www.puzza.splinder.com

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    CCLX. Lettura.

    12 Mag

    CCLX. Consiglio di lettura:

    http://www.intratext.com/X/ITA2566.HTM

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    CCLIX. Ispirazione.

    12 Mag

    CCLIX. Non ho capìto in che senso sarei irrimediabile, ma tant’è (è una vita che ispiro alla gente il desiderio di cambiarmi radicalmente — tutta la mia vita piena di gente che parla, parla, parla — beati loro, a cui non mancano mai le parole. A me mancano in continuazione, si sente?). Comunque è bello avere 56 visite in un giorno invece che in una settimana. Sono cose che rialzano il morale.

    Due giorni fa mi sono seduto, come quelli che fanno le interviste, accanto a un autentico barbone, di quelli che chiedono l’elemosina e che hanno ingenti motivi sanitarii per essere nei dormitori. Ora, costui (che conobbe tempi migliori) si bucava, poi ha dovuto smettere per non morire; prenderebbe (cioè dovrebbe prendere) il metadone ma non lo prende perché tanto è da molto che non si buca. In compenso beve: deve bere dal momento in cui mette i piedi giù dal letto (o si sveglia) al momento in cui va a letto (o comunque si sdraia), sennò vomita l’anima. Mi ha raccontato svariate cose di sé, ma una delle prime mi è rimasta impressa: il fatto che avesse passato la notte dormendo su un treno in movimento. A scrocco — adesso ti fanno scendere, ahinoi, ma lui è noto al personale viaggiante quindi ha potuto dormire indisturbato fino alle cinque del mattino, avvolto tra le tendine appositamente strappate ai finestrini. Era un intercity, ma si vede che faceva freddo lo stesso, con tutto quello che costa. Non è la prima volta che sento che qualcuno ha trovato questa soluzione, ovviamente. Però mi ha dato da pensare — lui certe cose me le racconta, ogni tanto, in funzione ispirativa, perché è convinto che invece di fare un cazzo tutto il giorno farei bene a scrivere un libro, un romanzo. Mi ha anche proposto una cosa autobiografia (riguardante cioè la biografia mia, di me), una cosa intitolata La lumachina, una cosa tipo omnia mea mecum porto, sul rapporto tra me e il mio sacco a pelo, e le volte che dormo fuori. Ma non mi convinceva.

    Invece, essendomi (si vede) io posto in una prospettiva ispirativo-passiva (cioè quella di colui che bouche béante aspetta l’ispirazione dell’incarnazione dell’Idea che passa il convento), ho colto questa prima idea, divenendo piuttosto distratto circa il resto del lunghissimo discorso (che verteva su carcere, musica, arte e altre cazzate), e ho cominciato ad espormi una sorta di trama. Un signore (vale a dire il Narratore, che poi sarebbe un "io" [non nel senso che io da qualche parte sia un signore, è chiaro]) un giorno prende un treno: un treno lungo, che deve fare un lungo viaggio — metto in chiaro che i riferimenti in questa fase iniziale sono aderenti alla realtà, cioè copiati dal vero, poniamo che "io" parta dalla stazione di Torino, poniamo Porta Nuova, o Porta Susa, e sia diretto a Napoli piuttosto che a Reggio Calabria, o perché no a Roma o Brindisi. Giusto a titolo di esempio. Bene, costui ("io") sale, e comincia il viaggio. Quasi sùbito incontra una coppia dall’aria decorosa ma che s’intuisce maluccio in arnese, che cerca una bambina, loro figlia. Due cose strane: se "io" incontrasse la bambina, cercasse di attirarla al loro scompartimento (quello in cui si trovano adesso, scelto a caso, perché il treno infatti è semideserto) senza dirle che i suoi genitori la cercano; infatti la fanciulla è sonata, e crede che i suoi genitori siano altri. Secondo, i due non hanno il più pallido ricordo di quale sia il loro esatto scompartimento, dato che tendono a confondersi. Gli spiegano che essendo caduti in miseria hanno avuto un abbonamento familiare al treno da un’assistente sociale, una carta che permette loro di viaggiare quanto vogliono per tutta la penisola (una cosa non lontanissima dal vero): da allora, non avendo altro posto dove andare, sono sempre vissuti in treno, scendendone solo per prendere qualche coincidenza o al termine delle corse. La donna, asciugandosi una lacrima di angoscia, crede riconoscere qualcosa di suo nella retina sopra la testa di "io", verifica che è sua e se ne va. Il viaggiore "io", perplesso, si addormenta. Quando si sveglia, ripensa alla strana storia della bambina. Sicché comincia a cercarla, ma senza troppo impegno, se non altro per vedere che fondo di verità può eventualmente esserci nelle parole dei due signori, percorrendo in lungo il treno. A questo punto comincia a percorrerlo in direzione della motrice, senza peraltro mai raggiungerla, e nota non solo che i vagoni sono uno per sorte, sicché i più moderni e attrezzati si alternano a roba degli anni Quaranta e a carrozze addirittura ottocentesche, ma assiste ai più strani spettacoli, incontra la gente più strana, della propria e di anteriori epoche. Si addormenta esausto in uno scompartimento e al risveglio nota che i quadretti che mostrano i panorami di celebri città sono cambiati, o che è cambiato lo scompartimento tutto quanto, finestrini e tendine, sedili e pannelli. Il treno, a mano a mano, si fa sempre più deserto. Parte del delirante viaggio nel treno "io" lo fa in compagnia della bambina. Compaiono strani personaggi; l’atmosfera si fa tesa e cupa, soprattutto dopo che alcuni cadaveri sono scoperti in certi vecchi scompartimenti. Dopo un lungo tratto di entrata e uscita da certe lunghe gallerie, adesso il treno è entrato nella più lunga, dalla quale sembra non voler uscire. "io" e la bambina hanno come punto di riferimento uno dei vagoni ristorante, che riescono a ritrovare, tutte le volte, con relativa facilità; vagone dove si rifocillano grazie alla comprensione del personale viaggiante, e in particolare di un signore baffuto. Ma le provviste cominciano a scarseggiare, il signore baffuto consiglia loro di mettersi in viaggio ora, e andare verso l’ipotetica motrice, avanti, molto più avanti. I due partono; intanto la luce e il riscaldamento vengono a mancare. Vanno avanti per molto tempo, e chissà se è giorno o notte, e quanti giorni e quante notti ci impiegano. Attraversano vagoni deserti e tutti bui, e forse scampano alla morte per mano di un misterioso assassino. Dopo un lunghissimo estenuante cammino, durante il quale perde di vista la bambina, "io" finalmente crede di raggiungerla. Molto davanti a sé vede che qualche vagone dev’essere rimasto illuminato; e c’è una figuretta che corre in avanti. Nonostante abbia pochissime forze, la insegue, fino a raggiungerla sulla soglia del primo di — pare intravedere — tanti vagoni illuminati, con qualche viaggiatore dentro. Sta per chiamarla, quando qualcuno fa il suo nome prima di lui. E’ una coppia triste, seduta nel primo compartimento. E’, dei due, la donna che chiama la bambina accanto a sé, come se fosse sua figlia. Una sconosciuta, a quel che vede "io". La bambina, guardando "io" con espressione tra il furbesco e il colpevole, si siede docile accanto alla donna; in attesa di scappare di nuovo. "io" continua il suo cammino verso la motrice. Nel frattempo (a qualcosa ho accennato) dovrebbe succedere anche molto altro, esserci qualcosa di peripetico e tramoso che rimpolpi e tenga desta l’attenzione.

    Stamani un altro, che pure conosco da tempo, mi ha accennato alla sua storia (con me lo fanno tutti, non riesco a capire bene il perché e nemmeno mi piace troppo, il più delle volte), sicché ho scoperto che appartiene a una famiglia molto alternativa, nel senso che non solo lui, ma anche i suoi genitori vivono per dormitori, a Torino, la madre e il padre. Credo di aver intrasentito, in altro tempo, che persino suo fratello sia del giro. Particolare, no? Ha accennato a qualche difficoltà a vedersi e sentirsi, e in effetti è verosimile, sapendo come funzionano. A questo proposito non ho idee plottistiche, è un mero spunto.

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    CCLVIII. Ho un grosso problema.

    11 Mag

    CCLVIII. Non riesco a cacciare negli indesiderati le puttanate che mi mandano da supereva. Qualcuno sa come posso fare?

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    CCLVII. La vecchiaja.

    9 Mag

    CCLVII. Posso dire in buona fede di non essermi mai considerato giovane. Già all’età di sedici anni ne dimostravo almeno trentacinque. Mi aspettavo che a trenta ne avrei dimostrati quarantacinque; non so se sono stato buon profeta. Probabilmente ne dimostro ancora trentacinque. Alcune mie foto da piccino (non ricordo più quando le vidi l’ultima volta, ma in quell’occasione — a differenza di ogni altra [molto sporadica] volta — mi colpirono tanto che non me le sono, poi, mai più potute dimenticare) mi mostrano su un balcone assolato invaso di piante secche. La mia faccia (sulla parte anteriore di una testa che allora era troppo grossa) è completamente adesa a terra — sono, credo, seduto sul pavimento, cioè sul balcone, ma la positura generale della persona dà l’idea di una di quelle meduse che, in occasione di una gita al mare con la scuola, avrei scoperto di lì a non molto essere l’unica attrattiva delle spiagge di Mestre. Non si trattava di nulla di tanto nobile come l’umor saturnino, e nulla di tanto aristocratico come la melancholia. Nemmeno di qualcosa di così scientifico come la cosiddetta depressione, perché la depressione, come dice la parola stessa, indica uno sprofondamento, un abbassamento di livello, mentre — che io ricordi — il mio livello è sempre stato quello. Avevo la radice del naso leggermente strombata e gli occhi sporgenti, una combinazione che come risultato dà sempre l’espressione di un’incontestabile ebetudine. Ma tutto con moderazione: purtroppo non sono un mostro, sono solo squallido. Ma soprattutto (per concludere sulla faccia di me bambino), ero praticamente identico ad ora, cioè dimostravo trentacinque anni. Tutto questo per dire che dopo i trentacinque anni potrei considerarmi comparativamente fortunato, se la tendenza continua invariata.

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    CCLVI. Adesso che

    8 Mag

    mi sono connesso, rimpiango di non aver fatto un cadaverino eccellente, in modo da poterlo ricopiare adesso, di una bella frase che ho letto alle pp. 174-175 de La terra sotto i suoi piedi di Salman Rushdie (che sto leggendo adesso): è il pensiero di un serial-killer inviato telepaticamente al fratello. Potrei parafrasarlo, ma se non riporto le parole esatte non ha senso. E’ un concetto così ben espresso! Il fatto (in sintesi) è che ormai sono convintissimo che mi siano solo rimaste solo poche, semplici e chiare istruzioni da seguire. Non si può essere sé stessi a oltranza. A parte il fatto che è tremendamente patetico, è l’immensa dispersione che mi spaventa, o mi dovrebbe spaventare.

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    CCLV. Silenzio.

    5 Mag

    CCLV. Se non altro per contrastare (l’incontrastabile) declino di questo bloggo converrebbe, almeno ogni tanto, scrivere una virgolina, un punto, una parentesi quadra. Novità poche e nessuna di rilievo. Al momento sono caduto in disgrazia (il secondo e ultimo articolo [!] scritto per Scarp de’ Tenis ha mandato un’operatrice in orbita). Mi sto facendo pere di Nothomb (Nothomb a parte, mi sto seriamente chiedendo se le donne scrittrici disgustose siano in numero maggiore rispetto agli scrittori uomini disgustosi o se, semplicemente, la maggior resistenza le avvantaggi sulle lunghe distanze, tanto da risultare nel complesso più produttive, più vistose e più vomitevoli). La Lucia di Lammermoor con la Sutherland (a parte l’avversione che ho per Pavarotti) non è più quella di una volta. Che altro? Ah, sì, vorrei provarmi a dormire un po’ per strada, di questi giorni. E’ problematico per lavare i vestiti, ma tanto anche la cattività fa puzzare animali nobili & assai liberi come le moffette e i licaoni.

    Voi come state? (Chi siete? Ci siete?)

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    CCLIV. E niente,

    24 Apr

    la mia intenzione era quella di continuare con la serie delle geremiadi, ma purtroppo mi sono dimenticato il diario vicino al letto. Cioè, non me lo sono dimenticato, ce l’ho lasciato. C’era un numero di targa, una descrizione fisiognomica al fulmicotone, i cognomi scritti su tutti i campanelli di un portone, un ampio programma eugenetico in iscorcio e tutti li mortacci vostra. Una cosa in grande stile. Purtroppo devo rimandare a domani, se non mi dimentico di nuovo.

    Voi come state? Per il resto, qui ha cominciato anche a fare un po’ caldo.

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    CCLIII. Cacca.

    22 Apr

    CCLIII. E così non riesco a scrivere la cosa che volevo fare oggi. Vabbè, pazienza. Ci risentiamo lunedì (sempreché qui sia aperto).

    Cia’.

    d.

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    CCLII. La vita fugge

    21 Apr

    e non s’arresta un’ora. Mentre io bighellono infelicemente, gli altri (chiunque altro, stando a quel poco che posso vedere io) si muove, cerca, d’informa, conosce, ipotizza, trama, smonta e rimonta. E jeri mattina ho avuto una discussione con una faccia da culo di postina — le avevo chiesto una sigaretta; ora, le risposte che di norma ti dànno, quando te la rifiutano, sono: "Mi dispiace, è l’ultima" (la più quotata); "Mi dispiace, ne ho pochissime", "Me l’hanno offerta", "Ho lasciato il pacchetto dentro/di sopra", oppure "NO!", o un segno di diniego col capo; quelli che te la dànno di norma non dicono nulla. Jeri mattina, per la prima volta in vita mia, mi sono sentito rispondere: "Se le comperi". Mai sentito niente del genere, giuro. Mi fumavano le orecchie. Giusto il tempo di assimilare la risposta, e poi ho decretato che se ne andasse al solito luogo (a fare in culo), e che era una cogliona. Ha berciato qualcosa, e io ho ribattuto — non ricordo più esattamente cosa, ma erano i soliti insulti. Ha continuato a strepitare chissà che, mentre me ne andavo; qualcuno le ha detto qualcosa, e lei ha detto: "Eh, meno male!" (meno male cosa? Mah).

    *******************

    Inacidito come una vespa, sono andato ad aspettare il sacchetto nell’androne di s.t’Antonio di Padova. Un’altra faccia a culo, di volontario, si aggirava verso la fine della coda. Come arrivo, mi saluta — io faccio finta di non averlo né visto né sentito (ha la faccia da culo, giustamente). Indi, passato un minuto, mi abborda con più determinazione. "Senti", mi fa, mettendomi la mano sulla spalla, "ma sai che non mi ricordo il tuo nome?". "Per forza", gli dico: "non te l’ho mai detto". "Io mi chiamo Alessandro. Che cosa fai nella vita? Stai cercando un lavoro? Sei di Torino?; &c.". Gli ho chiesto come mai mi chiedesse tutte quelle cose, e lui ha detto: "Ma niente, è che ti vedo sempre qui, e".

    *********

    Quindi me ne sono andato (stavo malissimo) a una biblioteca (la Geisser) a vedere se potevo farmi un buon sonno. Potevo, e l’ho fatto. Quando sono arrivate le 17.00 sono salito al monte dei Cappuccini, dove frate Mario mi ha dato il sacchetto, e mi ha chiesto come stavo, che cosa stavo facendo, se stavo cercando un lavoro. Mi dice che cammino troppo (un’impressione, in realtà tutti i barboni camminano), evidentemente ho dei pensieri (te credo), evidentemente sono depresso (??). Mi dice che c’è una comunità qui in provincia di Torino (non ricordo il nome della località, ma se la sento nominare la riconosco), dove prendono in cura, con tanto ammore, i malati di mente come me. "Facci un pensiero", mi ha detto.

    Ma come? Di già? Non ho mai fatto la galera, non sono tossico e non sono alcolizzato. La prospettiva di finire in una comunità, con un curriculum come il mio, è scarsamente esaltante. Che ci vado a fare? Mi facessero almeno ammazzare qualcuno, prima. Sennò non c’è gusto.

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    CCLI. Ahio.

    20 Apr

    CCLI. Mi sembra di essere caduto dal quarto piano. E ci ho pure la febbre.

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    CCL. Che palle!

    20 Apr

    CCL. Ormai dovrei essere pronto. Per Villa Cristina, dico, che è poi il manicomio, sive ospedale psichiatrico, che si trova da un capo di un largo e lungo squallido prato oltre il quale ci sono le Vallette, che è poi la galera, sive casa circondariale.

    Aggiungi che mi sono ammalato un’altra volta. Ho la testa nel pallone e dolori ovunque, segno che c’è un’altra influenza in arrivo. Avendo ridotto l’assunzione quotidiana di nicotina alla stretta misura di quello che concede il buon cuore altrui (al quale non mi appello in continuazione, essendo facile al "mavaffanculo, va" e incline al "crepa!" [il collega C. C. non perde occasione di raccomandarmi, con severità: "Non mandare mai a fare in culo quelli che non ti dànno la sigaretta! Sei tu il barbone. Cerca di saperlo fare". Ah.), sono più soggetto a questo genere di disagi — intossicato come sono, c’è poco da stupirsi. E io non mi stupisco, infatti. Le son quisquilie, ovviamente, ma è per dire che se qualcosa suona più strano del solito in quello che scrivo è perché non sono solo pazzo, ma anche perché sono intronato dall’infreddatura.

    Per quanto riguarda la mia pazzia, d’altra parte come giustificarmi di fronte al mondo desideroso di sapere che ci sto a fare io su questa terra? Non sono invalido, non sono bucomane, non sono un avanzo di galera, non sono uno sbevazzone — siamo alle solite: lì si finisce. Non posso che essere (diciamo) suonato. La scelta non è amplissima: posso definirmi, a piacere, ‘depresso’, oppure, se voglio fare le cose un pochino più in grande, ‘schizofrenico’; poi posso improvvisare, chiaramente: farmi prendere da manie di persecuzione, se mi piace, o da crisi pantoclastiche. Ma tutto questo non rileva. Rileva che sono fottuto. Ma attenzione: adesso le cose sono sostanzialmente cambiate rispetto all’inizio. All’inizio potevo prendere tutto molto più blandamente. Adesso so esattamente che a fare questa vita si scivola nel baratro. So esattamente come si finisce nel baratro.

    Essendo un delatore e un indiscreto per natura, nell’ultimo articolo (il secondo) per Scarp de’ tenis che le due arpie sono riuscite a strapparmi riferivo quanto dettomi dall’operatrice di v. Carrera L. S., di cui, anche nell’articolo, ho messo solo le iniziali. Lei diceva che questi posti (tutti i contenitori per disadattati) sono creati non per spirito umanitario ("Al Comune non gliene frega niente se crepate in massa", ha detto giustamente), ma per evitare che ci siano tensioni e odio sociali — cioè che i barboni si mettano a fare la rivoluzione. E’ una di quelle verità dure da accettare, in apparenza. Sennonché non è la verità. La verità è un’altra, ed è, almeno dal mio punto di vista, ancora peggiore. I disagiati che frequentano "questi posti" non sono propriamente barboni (quelli vivono per la strada), ma sono dei borderline. Cómpito di queste strutture è spingere i disadattati verso un disadattamento più esplicito. Faccio un esempio: la vendita dello Scarp de’ tenis teoricamente serve per tener lontani i barboni dalla mendicità. Di fatto, molte delle persone che si trovano in "questi posti" non hanno mai chiesto l’elemosina; e tramite la ‘vendita’ della rivista possono imparare a farlo. & così via. Soprattutto è il contesto che agisce in questo senso, esercitando la sua immancabile pressione. "Questi posti" non sono semplici contenitori. Chi li frequenta è schedato, e non essendo tenuto a dimostrare alcunché (circostanza questa assai sospetta, comunque), è automaticamente identificato con un’umanità ai margini della legge. Nessuno che abbia buone intenzioni nei tuoi confronti ti indicherà mai "questi posti" come una soluzione temporanea.  

    Ora, io di tutto questo me ne frego, altamente. Ed è questo che dovrebbe preoccuparmi, infatti. Come faccio a fregarmene? Io non lo so. Ma è come se camminassi sott’acqua. (Tien sempre conto dell’influenza come fattore aggravante, chiaramente).

    E poi c’è anche la società circostante — "società" è un titolo assai pomposo, diciamo quella porzione, limitatissima, di società che ormai non può non conoscermi dal momento che mi trovo, volente o nolente, a frequentarla. Per esempio, martedì 28, nel pomeriggio, una specie di sorcia cogli occhiali m’è venuta a chiamare trafelata al tavolo, dove stavo leggendo; dicendomi di avere "bisogno di un favore". Un favore? Perplesso mi alzo e la seguo. Fino al terminale tramite il quale normalmente si accede al catalogo, e che quel giorno, come avevo verificato io stesso avendo tentato inutilmente di fare una ricerca, non funzionava. Il topastro a questo punto mi aggredisce, strillacchiando di avermi "visto benissimo", "che Lei prima faceva così", e sul così pigiava il tasto sinistro del mouse. Eh. E allora? "Che cosa vuole da me?", le ho chiesto. "Adesso non funziona più! Lei prima ha schiacciato il tasto, passando, non ha fatto una ricerca!" "Non era possibile: non funzionava". "Ma adesso è tutto bloccato! Queste postazioni sono fatte per essere usate in modo corretto! Servono solo per la consultazione del catalogo! Se c’è qualcosa che non funziona lo deve dire!" Tutto questo, e molto altro, mentre io cercavo inutilmente, e senza fiato, di intervenire. In un momento in cui, indicando il monitor, mi sono voltato con la testa dall’altra parte, quella, sguindolando le braccia in un modo strano (gesticolava; ma si gesticola sulla faccia di qualcuno?) ha fatto il gesto non so se di buttarmi gli occhiali giù dal naso o che cosa: proprio in quel momento mi sono nuovamente voltato verso di lei, e mi è arrivato un graffio sotto l’occhio destro. Mi sono sentito miserable, come non mai. Non era, quella di graffiarmi, la precisa intenzione, ma facendo finta di gesticolare mi stava portando le mani al volto, cercando di far nascere qualche caso. Il collega che tentava di sbloccare il terminale alla fine c’è riuscito, e io, non so più bene come, mi sono ritrovato fuori, sui gradini, a fumare l’ultima sigaretta che mi è rimasta in tasca, e me ne sono andato a fare una passeggiata. Ma stavolta non volevo lasciar correre fino a questo punto. Rientrando, con un po’ di calma, più tardi, sono tornato in biblioteca e le ho chiesto il suo nome. Mi sembra giusto, dal momento che mi ha fatto una parte così stravagante, sapere almeno chi è. Stava servendo una signora, è parsa imbarazzata. Ha detto al suo collega (lo stesso del terminale) se poteva andare avanti lui con la signora, "Io finisco il signore". "Se vuoi lo finisco io, il signore", ha detto quel sacco di merda del suo collega, ovviamente in altra accezione. Più mitemente, mi ha chiesto ripetutamente che cosa intendessi fare col suo nome. Le ho detto che era giusto per sapere con chi avevo parlato. "Dal momento che ha chiesto il mio nome, mi dia anche lei il suo", ha detto. Le ho dato la carta d’identità. Ha copiato nome, cognome, indirizzo, luogo e data di nascita, numero documento e data di scadenza. E ha fatto per andarsene. Ho dovuto insistere ulteriormente per avere il suo nome. Si chiama, ("semplicemente", ha detto, chissà perché) Anna Rigassio, responsabile della biblioteca.

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    CCXLIX. Fibs.

    18 Apr

    CCXLIX. Questo signore, che si chiama Gregory K. e fa lo scrittore e l’educatore, ha inventato un giochino che, stando a quello che si dice qua e là sui giornali (almeno su City, che è tutto dire, ne convengo), avrebbe surclassato l’ingegnoso Sudoku. Consisterebbe nello scrivere versi la cui lunghezza segue la famosa sequenza di Fibonacci. Qualcuno ne saprà qualcosa, credo; il Fibonacci è un matematico del XII sec., a cui si deve la ‘scoperta’ di una sequenza numerica in progressione in cui ogni cifra è la somma delle due precedenti:

    0,1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 233, 377 &c. &c. &c.

    Questa scoperta, di per sé semplice e apparentemente poco sinforosa, è in realtà importante, perché le proporzioni secondo cui sono costituite molte cose che si trovano in natura (le foglie degli alberi, per esempio, molte conchiglie, &c.) rispettano questa sequenza. Non solo, essa ha applicazioni importanti nella musica, e in qualunque forma di ‘composizione’ (in senso lato) artistica. La struttura di certi drammi la ricalca, nella suddivisione in atti e scene, per esempio; e via di questo passo.

    Le conseguenze sono dunque ingenti. L’idea di scrivere dei componimenti poetici in questa forma, dopo che da secoli sono stati escogitati sonetti che letti nel verso giusto dicono una cosa e letti al contrario ne dicono un’altra, leporeambi con giro vocalico completo, poemi anagrammatici, interminabili sequenze allitterative, palindromi, carmi a versi mobili, &c. può parere, e in effetti è, piuttosto miseranda. Comunque sia, ci si provi (?) chi vuole. Il sig. Gregory K. stabilisce che ci si deve fermare a 1, 1, 2, 3, 5, 8; ma ovviamente (concede) se ne possono fare di molto più lunghi. La limitazione è comprensibile: già un verso di tredici sillabe è piuttosto faticoso; da ventuno, salvo l’introduzione di due cesure, è decisamente insopportabile; da trentaquattro è una semplice frase di trentaquattro sillabe. Il metro fondato non sulla caduta degli accenti ma sulla nuda conta delle sillabe ricorda il metodo compositivo degli haikai, sennonché otto versi sono meno perfetti di tre; in più, si noterà, lo haiku ha solo versi imparisillabi (7-5-7), questi "fibs", invece, mescolano versi imparisillabi con versi parisillabi, ciò che comporta (almeno in italiano, poi non so) qualche stridore.

    (1). Non
    (1). so
    (2). perché:
    (3). ma mi par
    (5). questa cosa qua
    (8). tutt’altro che poetica.

    Quanto a quest’ultimo punto, dato che il metro è stabilito in base al numero delle sillabe e non agli accenti, tramite le tronche è possibile recuperare il verso parisillabo, per l’appunto. Non so se è chiaro: l’endecasillabo non è un verso di 11 sillabe, ma un verso il cui ultimo accento è sulla decima sillaba. Un endecasillabo tronco conta solo 10 sillabe; ma non è un decasillabo, essendo che l’undicesima sillaba è come implicita, non dichiarata ma presente. Già i due monosillabi (1) e (1) con cui la ‘poesia’ inizia si possono considerare come due bisillabi tronchi; il III v. (2) è parisillabo; il IV. (3) no, ma se è tronco (tà-ta-tà) diventa un quadrisillabo tronco, parisillabo; il V. (5) può nello stesso modo essere considerato un senario tronco; il V. e ultimo (8) è parisillabo.

    (1) Tà[-ta]  (bisillabo)
    (1) Tà[-ta]  (bisillabo)
    (2) Tà-ta  (bisillabo)
    (3) Tà-ta-tà[-ta]  (quadrisillabo)
    (5) Tà-ta-tà-ta-tà[-ta]  (senario)
    (8) Tà-ta-tà-ta-tà-ta-tà-ta  (ottonario)

    In questo modo l’accento cade sulla prima sillaba di ogni verso, conferendo un ‘passo’, se non una musicalità, in teoria più individuato. (Un giorno di questi, magari in un momento di particolare disperazione, potrei anche provarci).

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    CCXLVIII. Un’urna più bella.

    14 Apr

    CCXLVIII.

    DIED OF WOUNDS.
     
    And so they marked me dead, the day
    That I turned twenty-one?
    They counted me as dead, did they,
    The day my childhood slipped away
    And manhood was begun?
    Oh, that was fit and that was right!
    Now, Daddy Time, with all your spite,
    Buffet me how you can,
    You’ll never make a man of me
    For I lie dead in Picardy,
    Rather than grow a man.
    Oh that was the right day to die
    The twenty-fourth day of July!
    God smiled
    Beguiled
    By a wish so wild,
    And let me always stay a child.
     
    Robert Graves, The Complete Poems,
    Penguin Classics, Londra 20031, p. 809.
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    CCXLVII. Carme figurato.

    13 Apr

    CCXLVII.

    Ehi, parlo a te. Qui dentro io mi nascondo.
    Questo è il posto più comodo del mondo,
    Perché tra queste tenebre rinchiuso,
    Contrariamente all’uso,
    Non devo correr sempre, o rinfacciarmi
    Lentezza,  a chissà  che  sempre sull’usta,
    Rincorso  sempre  da  oscur’oste  in  armi;
    Non  incespico  mai,  né  cado  a  fondo;
    Non faccio brutti incontri in quest’angusta
    Mia nuova casa, e non subisco oltraggi,
    Né ho nei paraggi dura gente, e ingiusta;
    Né oscure astruserie d’atri messaggi
    A decifrare sono condannato:
    Questo è il mio nuovo stato,
    Oh me beato!
    Inscatolato,
    E coperchiato
    Penso all’ingrato
    Mondo
    Immondo
    Come a una sorta d’incubo passato.
    (Ed è forse così, forse ho sognato).
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    CCXLVI. Elezioni.

    12 Apr

    CCXLVI. Se mi chiedessero, putacaso, come mai abbia annesso tanta importanza alle ultime elezioni non saprei che cosa rispondere. Mi sfiorano, come quotidianità (ma è la quotidianità immanente della condizione, della situazione) problemi inerenti al mio valore, teoricamente stragarantito, di individuo: un filo di pazzia che giustifichi questo mio inoperare, il fantasma remoto (dai miei pensieri e dalla mia consapevolezza, ma non dalla mia situazione) di ‘varii gradi di interdizione’, la prescrizione di certe porzioni della mia privatezza, l’elevato rischio di avere comunque la peggio dovessi avere lite con qualcuno: insomma, socialmente sono come un ologramma che sfricchia perdendo i contorni, e che presto o tardi svanirà col rumore malinconico di un piccolo peto. Sarà che il partito o i partiti per cui voto sono una delle pochissime, o nessune, cose segrete che mi rimangono; sarà che votando torno a provare l’ebbrezza dell’essere cittadino, esercitando in un colpo solo un diritto ed assolvendo a un dovere; sarà perché era un modo per buttar via qualche oretta della domenica mattina, giorno, come già ho detto e ripetuto altrove, là sotto, mortalissimo. Ma, per queste o per altre ragioni, votare mi ha fatto bene; alle 9.00 di domenica avevo già esercitato e assolto.

    Quanto all’esito, mi fa piacere — anche per il fatto paradossale che dipenda dai decisivi voti degli italiani all’estero, noti per essere in larga maggioranza pendagli da forca, e quindi destrorsi. Non so perché, dato che nel limbo implicito in cui sto immerso non si spingono le brezze che bevete voi umani, ma mi sono trovato questa motivazione — ‘è molto difficile che cambii qualcosa per noi, ma col centrodestra sarebbe stato impossibile’. Non è né un calembour né un epifonema particolarmente pregnante, ma ha un’apparenza di logicità (non so a quale ‘noi’ mi riferissi, probabilmente venivo sull’onda del solito "Per noi non faranno niente" — noialtri poracci, noialtri barboni, noialtri che era meglio che stavamo a WWwkkk o XXxxyyyY, che là almeno aiutano i bravi guaglioni come noi).

    A quest’ora il tepido piacere della vittoria comincia a impallidire: a mezzogiorno non me ne fregherà più niente. (Non ha un particolare significato, questo, e anzi credo che per quasi tutti, o molti sia così; mi limito a registrare la mia sensazione). La mia attenzione tende ad attaccarsi al fatto che nella coalizione di centrosinistra c’è anche un partito fatto di antitesi (sì Emma Bonino, ma anche Pannella; sì Boselli, ma anche Intini [quello che sbucava berciando: "Ciuao! Sono Ugo Intini!!" dai cassonetti della spazzatura]), e pure la Liga Veneta. Un’altra mezza giornata, e non me ne fregherà più niente nemmeno di questo.

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    CCXLIV. Pareri.

    7 Apr

    CCXLIV. Quando trovo qualche cianciafruscolo facile da caricare, lo appiccico qui. Stavolta è stato il Berluscounter, che ho trovato su un blog di splinder che si chiama papero sgonfio o qualcosa del genere. Ma ce lo lascio per massimo due o tre giorni, perché quella faccia da culo mi disturba a prescindere. Ho molta invidia per www.sonouncoglione.splinder.com, che è stato creato da uno staff di giovani studiosi di comunicazione (in specie per quanto riguarda la politica). Comunicare è importante. Saper comunicare è ancora più importante. Comunicare senza saperlo fare è una delle massime jatture capitàbili. Dopo il parlare di comunicazione, ovviamente (parere mio personale, ovviamente, e di chi sennò?). Informarsi è pure assai salutare: occorre infatti ad avere qualcosa da comunicare, a parte menzogne e puttanate. Per esempio, jeri, invece di salire direttamente al primo piano e sprofondarmi nella lettura degli Ecatommiti, esercitando una leggera violenza su me stesso ho girato a sinistra, pianterreno, ficcandomi nella sala periodici. Dove ho guardato l’ultimo numero di Musica, dove si parlava molto bene delle perfette esecuzioni della recentemente scomparsa e universalmente compianta Birgit Nilsson. Poi ho guardato Sipario, su cui, tra prosa lirica concerti, mi pare fosse parso tutto ben eseguito. Poi, facendomi coraggio, ho dato di piglio alla Stampa. In prima pagina c’era un intervistone alla Franzoni, che invocava la pena di morte per gli assassini del piccolo Tommaso, inquantoché è stata un’esecuzione veramente atroce.

    Nel frattempo, non so nulla delle elezioni, e ancora non ho recuperato il certificato elettorale.

    A parte questo, trovo che il senso di compassione, tenerezza, pietà — tutti quei moti dell’animo che spingono a salvaguardare qualcosa che non siamo noi stessi, vadano sempre più riferendosi alle creature più piccole, sia come dimensioni che come anagrafe. Gli indifesi vengono al secondo posto, così ad occhio e croce. In via Garibaldi è ricomparso un altro di quegli stravaganti jettatori che tengono quei banchetti gremiti di volantini fatti alla cazzo, foto rivoltantissime di animali variamente massacrati, adesivi, opuscoli stampati al contrario. Con voce da imbonitore fa sentire un gridolino lamentoso, intermittente: "Dài-dài, dài-dài… Firm anche tu per i cani abbandonati…" (o roba del genere, comunque il concetto, e il dài-dài, è quello). Stavolta non l’ho nemmeno sfiorato. Il primo libro che abbia destato gran sensazione, e che resta il migliore del genere per quanto riguarda l’Italia, è l’Imperatrice nuda di Hans Ruesch. L’imperatrice sarebbe la scienza (nuda e orribile, quale la vedrebbero i comuni cittadini se solo alzassero il capo deferente e si decidessero a guardarla). Hans Ruesch penetrava con ogni mezzo illecito in laboratorii non tutti autorizzati dove cani, gatti, scimmie e quant’altro era fatto oscenamente a pezzi: molti suoi opuscoli degli anni Settanta (credo il momento ‘eroico’ dell’animalismo) sono adornati di siffatte fotografie, indispensabili ad illustrare un fenomeno che via via è diventato sempre più noto — col risultato di essere avversato, ma anche accettato (‘se non si fossero fatti quegli esperimenti, oggi tante malattie sarebbero ancora incurabili’, &c.). Delle foto omologhe (?), che oggi, a trenta o quarant’anni di distanza, ornano i cartelloni e gli opuscolazzi di queste petulantissime associazioni, colpisce più la valenza — proprio — estetica: è roba fatta ‘alla maniera di’. Sembra che, a spese di cani sanguinanti e scimmie scraniate, si voglia recuperare una specie di gusto figurativo. Sono colpito in un modo singolarissimamente negativo da tutto il côté pubblicitario di queste iniziative. Hanno qualcosa di genuinamente sordido. O sono io che vedo dappertutto il male che non sono comunque più in grado di fare? Secondo me sono più quelli che si masturbano su quelle fotografie che quelli che salvano cani, gatti, pappagalli, scimmie grazie ad esse fotografie.

    Il negozio di animali appena oltre piazza Statuto ospita nella vetrina centrale, ultimamente, un grosso e lungo serpente: il diametro nella parte centrale, più spessa, sarà sui dieci centimetri, e la lunghezza non può essere di tanto inferiore al metro. Ha passato il primo giorno ad esplorare, teso come un arco incoccato, ogni singolo angoletto della sua gabbia di plastica trasparente. Dal secondo giorno, invariantemente, se ne sta nascosto dietro la cassettina verde dell’acqua, ogni tanto immergendoci dentro il ventre o la coda. Si vede che odia essere guardato, e che cerca di rendersi poco interessante. Mi rattrista, perché prima o dopo ci riuscirà, e magari perderà l’occasione di essere acquistato, e di finire in un gabbione splendido, o di girare più o meno liberamente in piccolo eden appositamente piantumato dal danaroso imbecille che lo affrancherà. La vetrina di destra, destinata ai gatti (piano di sopra) e ai cani (piano di sotto) è rimasta quasi sprovvista di cani, in pochissimi giorni; a parte un piccolo dobermann e un bassottino, che le dimensioni ridotte e le identiche focature affratellano in un modo curioso. Hanno l’aria allarmata. Ho deciso che non ci guardo più.

    Questa settimana ho incontrato un libro che secondo me vale la pena di essere letto (un evento), se mi va ne parlo (spesso le cose che mi piacciono sono molto fuori dalla mia portata — forse è per quello che mi piacciono), poi fate vobis. Oggi ho letto la pièce che passa per la migliore di Bulgàkov, La cabala dei bigotti (dovrei mettere le letture della settimana tutte insieme, in un post unico, poniamo il sabato, così si possono saltare tutte a piè pari), che poi racconta di Molière, come Monsieur de Molière dello stesso autore. Ma ho già deciso che ne parlo con ordine domani.

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    CCXLII. Il piccolo T.

    4 Apr

    CCXLII. Riconoscetemi almeno lo stomaco di aprire un post intitolato così. A causa della mia pigrizia e della relativa difficoltà ad informarmi, ho seguìto pochissimo la vicenda. Su "Metro" o "City", o su un giornale guardato di scrocco c’era una cronologia dei fatti salienti, e io grazie ad essa cronologia sono ora un poco più informato, e nuove cose so. Primo: che il piccolo Tommaso è morto, massacrato in una maniera particolarmente nauseante. Secondo: che il padre aveva archivi di foto pedopornografiche. Terzo: che i colpevoli presentano un curriculum e un aspetto mentale del tutto degno del 98% degli strani figuri che incontro tutte le sere nei dormitori. Quanto alla vicenda, be’, sticazzi. La sorte del piccolo Tommaso è costretta in una cornice talmente sordida, puzzolente, ammorbante da non consentire il minimo spazio alla pietà, almeno a me: si prova solo ribrezzo. E non ho capìto come mai sui fogliacci da latrina che distribuiscono gratuitamente dànno tanto rilievo alle manifestazioni di solidarietà alla famiglia dagli stadii alle carceri, donde ovviamente si levano gli aliti più pestiferi, le urla più belluinamente forcajuole. E’ perché i giornali gratuiti sono letti prevalentemente da coatti? E’ perché le manifestazioni di solidarietà alle vittime sono prevalentemente venute da coatti, essendo le vittime stesse delle miserande scorie? Sarà perché gli attori della vicenda sembrano fatti apposta per attirarsi l’odio e il becero furore della schifezza dell’uomo? Sarà perché la vicenda sembra confezionata apposta a far increspare la pigra superficie delle fosse settiche colme, e a risvegliare le pantegane di tutti gli sterquilinii d’Italia?

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    CCXXXI.

    9 Mar

    08/03/2006. … i consider how my light is spent

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    CCXXX. Periodo.

    27 Feb

    CCXXX. E’ ricominciato un altro di quei periodi strani, che a non scrivere mi sento in colpa. Ieri, per esempio, mi sono sentito davvero buttato via.

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    CCXXIX. Citazione da che?

    27 Feb

    CCXXIX. Trovo in biblioteca un giornaletto letterario, vistosamente destrorso, dal titolo allittererò. letterario di informazione (numero sette / quindici gennaio 2006 / € 0,20 – copia omaggio), con in ‘copertina’ (o meglio sulla prima pagina) una citazione (da che?) sotto la figura: "La poesia non esiste. Sono solo i poeti che vogliono a tutti i costi farla apparire tale". Ero convinto del contrario: cioè che la poesia esistesse eccome, e che fossero i poeti ad essere completamente inutili.

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    CCXXVIII. Buonanotte.

    26 Feb

    CCXXVIII. Oggi i visitatori latitano, non ci sono commenti, io parlo dal fondo del mio pozzo muffoso al coperchio arrugginito dello stesso. Mi rendo conto di essere l’autore di un blog che mai leggerei (ho presenti un pajo di blog "che ti fanno pensare", che vorrei, anzi dovrei come tu-devi, leggere da capo a fondo, ma che al solo pensiero mi riempiono di uggia. Questo è il loro degno compagno. Faccio proponimento, la prossima volta che mi connetto, e soprattutto che scrivo su ‘sto blog, di sforzarmi, quantomeno, di essere meno poids lourd. Temo sia del tutto inutile, ma la buona volontà (che si sappia) non manca — anche perché il primo ad essersi rotto i coglioni sono proprio io. Mi sento decisamente un coglione.
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    CCXXVII. Dov’è? Dov’è?

    26 Feb

    CCXXVII. Dov’è Sciolze?

    Dov’è Carrù?

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    CCXXV. Oggi ho scritto.

    25 Feb

    CCXXV. Oggi ho scritto intensamente, finché, questa sera, non ne ho potuto piu’ — la mano mi si è stancata, non faceva male ma mi si è completamente intorpidita, e non riusciva piu’ a tracciare i glifi sulla pagina.  Precedentemente, avevo riferito tutti i fatti della giornata fino a quel momento, e quelli della sera prima, cioè di ieri sera, poi ho considerato un libro sulle composizioni per flauto di Vivaldi, e ho fatto una sorta di resumè di una sezione dedicata ai concerti per fagotto di una monografia di Fertonani sulla musica strumentale vivaldiana. Quindi ho scritto, a lungo, di Vivaldi, fino a sostenere le piu’ gravi e indecenti cazzate, che per fortuna nessuno leggerà, ma mi premeva scrivere frasi tonanti e arrivare alla fine del quaderno. Qui a Torino, alla Nazionale (dove è ospitato il piu’ cospicuo fondo vivaldiano, con decine di melodrammi), c’è una mostra, dedicata in particolar modo al Vivaldi cantato. Ho scoperto grazie alla monografia del Fertonani che i 37 concerti per fagotto, piu’ i due frammenti di concerto superstiti, di Vivaldi, sono pure conservati qui. Perché non hanno valorizzato quelli invece delle opere? Talune delle quali sono interessanti, in un loro grezzissimo modo persino avvincenti, altre delle quali sono decisamente brutte, povere.
    Stamani hanno fatto pulizia, qui a strada Castello. Erano tre sere che pisciavo sulla stessa siringa rimasta incastrata nel buco del cesso. Probabilmente per altri farebbe molto trainspotting, ma a me questa cosa faceva male: vado sempre, automaticamente, alla prima latrina (dal fondo) del cesso centrale, a sinistra, e tutte le volte che m’è corso l’obbligo mi sono dimenticato che c’era sempre quella maledetta siringa incastrata. Stasera non c’era piu’, la donna o l’omino delle pulizie l’ha rimossa. Ci vuole pure chi rimuova le siringhe incastrate dal buco delle latrine, quando càpita l’occorrenza. Non so com’è, ma mi sento pieno di sensi di colpa.
    [Ma non è quello che si potrebbe credere (mi sono riletto adesso, com’è ingannevole quello che scrivo, a volte), anzi].
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    CCXXIV. La corte dei miracoli.

    24 Feb

    CCXXIV. Fra’ Paolo Sarpi, da qualche parte, dice che scrive chi scrive perché non può agire.  Non so se sia vero, non so se sia falso, cerco di capire un po’. Sicuramente, proprio nell’epoca in cui è vissuto fra’ Paolo Sarpi le cose hanno cominciato a cambiare: anzi, fino a poco tempo fa ero convinto che con l’età moderna i libri diventassero, da pròtesi quali erano, parte integrante della vita degli uomini — che per la più parte rimangono lettori non abituali, comunque. Ciò che ha potuto indurmi, in qualche caso, nella tentazione di attribuire proprio a questa mancanza di letture parte della generale infelicità. Troppo facile, sicuramente.

    Continuo a pensare che i libri siano, oggi, una parte del mondo come il quotidiano commercio coi propri simili e come qualunque forma, genere e tipo di azione. Forse tardivamente (così l’ab. Galiani), cioè nel 1754, l’ab. Genovesi stabiliva un principio fecondo di conseguenze: non esiste produzione di serie A e produzione di serie B: la fabbrica di dolciumi non vale meno della siderurgica. L’industria pesante non vale più dell’industria culturale. (L’operaio che confeziona giocattoli non è da meno dell’operaio che monta macchinarii). Allo stesso modo, i mestieri, che devono essere molti e varii per rendere un paese civile e prospero, non si possono disporre su scala gerarchica. Ogni lavoro umano è passibile di perfezione. Tutto quello che no è ancora necessario può diventare tale grazie all’artefice. Solo che in pochi, evidentemente, la pensano così. Sicché taluni artefici non incontrano nessuna difficoltà sostanziale sul proprio cammino, e proseguono tranquilli a dedicarsi alle loro cacate fino all’interramento; altri sono spronati a dare il meglio di sé; altri ancora finiscono spesso e volentieri soverchiati dalla disapprovazione e dalla diffidenza. Devo ogni mio fallimento al mio adorabile prossimo, smack, pciù, nonché alla quasi totalità di quelli che condividono i miei interessi.

    Parte dei quali, purtroppo, ho incontrato di persona. Altra parte dei quali, purtroppo all’ennesima, ho conosciuto solo tramite quello che hanno perpetrato. E, se proprio non posso trattenermi dall’esprimere la mia netta sensazione, se considero, specialmente, quello che è stato scritto negli ultimi cento anni, devo per forza dire che il semplice atto di scorrere i titoli sugli scaffali di una libreria o di una biblioteca m’è come scoperchiare una tomba, ed esporre le nari al lezzo. Ad aprirli, quei volumi, nemmeno parlarne: sembra di assistere a una danza macabra, a un gran ballo del Cottolengo. A chi manca una gamba, a chi un braccio, a chi metà del volto, a chi metà del cuore, a chi il cervello affatto; e che forme! Che fisionomie d’incubo, che storture di membra di dorsi di petti, che scherzi di natura che coboldi che storpi che monchi che collitorti. E quanto tedio, e quanta infelicità.

    Insomma, non è certo vero che per scrivere si debba essere gobbi come Leopardi, nani come il Guidi, asmatici come Proust, vecchi come Giovenale, pazzi come Campana, candidati morti come Chatterton la Pozzi H.P. Howard. Però se si è gobbi, nani, asmatici, vecchi, pazzi, candidati morti, e storpi, e scrignuti e spiritati e balbi e pidocchiosi l’affare, com’è come non è, è meglio. E se non si è di nascita, qualcuno ti ci fa diventare. A me, per esempio, m’hanno introdotto a Corte. Finora, potrei dire, non avevo ancora realizzato che quella specie di ritratto della morte improvvisa, colle palle degli occhi torte e quel filo di biascia marrone che gli cola dall’angolo della bocca fosse il mio re. Dovrei decidermi ad inchinarlo?

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    CCXXIII. Aprendo a caso il diario.

    23 Feb

    CCXXIII. Per la giornata di lunedì, 30 gennajo 2006 c’è scritto solo questo:

    "Sono le 9.00, ma sono in piedi da un quarto d’ora. Ho sognato tutte le notti, ma mi ricordo appena dei sogni perché, credo, sono del tutto deliranti, come quello di stanotte. Con sforzo e pena riesco a reminiscere di un sogno con me bambino tra bambini e bambine; sono a Bergamo, in un’atmosfera di plastica, me ne vado sù e giù su una bicicletta da bambino con altri bambini, magari in biblioteca [ un’immagine di me all’angolo di una via a me familiare, nei pressi dello stadio comunale. Ho ormai dimenticato, però, i nomi delle vie ]. Il sogno finiva in un (credo) locale della biblioteca, sempre, dove avevano sistemato, a mo’ di installazione, un enorme salice piangente, che avvolgeva ombrosamente l’interno della stanza. Esaminavo i rami flessibili, perfettamente pettinati: di plastica [ nera; e questo l’ho ripreso da un vaso di piante sù al monte dei Cappuccini, qui a Torino, dove ci sono cespi di felci, mi è parso, dalle lunghe foglie nere] . C’erano anche delle altre piantine, poggiate dentr’un lavello con un fondo d’acqua; un flacone bianco rovesciato era stato messo a mo’ di tappo, ma io non lo sapevo. Rimovevo il flacone, chissà per che farne, e l’acqua scolava via; con mio rincrescimento, ma curiosamente nessun altro se ne preoccupava. Mi rendo conto solo adesso che anche il fondo d’acqua era per bellezza, le piantine nei vasetti di plastica erano di plastica anch’esse. Il sogno è soddisfacimento di desiderio anche in questo: come ritratto eloquente di una condizione, di una situazione, di un sentire. Data la mia abitudine, quando ne serbo ricordo, di trascrivere i sogni, ormai è così: la parte più nascosta di me tesse arguzie e monta indovinelli da risolvere al mattino".

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    CCXXII. Flavio Mazzini bis.

    22 Feb

    CCXXII. A parte il fatto, sirenetta, che non so se convenga immettere il pezzullo tra i tuoi/vostri sconsigli di lettura, primo dal momento che il libro ha già qualche mesetto e sarà già stato abbondantemente letto e non letto da chi poteva o leggerlo o scartarlo, secondo dal momento che è stato già abbondantemente stroncato, per lungo e per largo, in diversi angoli della rete.

    Comunque sia, ho rinvenuto, in uno di questi angoli, una stroncatura, appunto, alla quale lo stesso autore, che ha già incrociato le spade con alcuni lettori su www.gay.it, tra l’altro, risponde piuttosto gecchito.

    L’effetto è piuttosto penoso. Tra le altre cose, l’autore a un certo punto confessa candidamente:

    "Fatto sta che parlare con la mia famiglia di quegli argomenti col rischio di non guadagnarci una lira mi avrebbe … imbarazzato" [! — Ma ha provato a fissare una tariffa con papà e mammà?].

     

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    CCXXI. A proposito del signor porno.

    22 Feb

    CCXXI. Bisogna dire che altro sono i post, e altro i commenti,  e i blog dei responsabili dei commenti, oh sirenetta. Ma hai visto questo?

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    CCXX. *Importante*.

    22 Feb

    CCXX. Ho un mal di testa incipiente. E non mi fa nemmeno impazzire di gioia il fatto che, per venire incontro alle esigenze di voi cecati, io debba fare dei post scritti così cubitalmente. Io trovo che ciò massacri la poesia del mio blog.

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    CCXIX. Il mio primo morto.

    21 Feb

    CCXIX. Non è infrequente che qualcuno arrivi (alla fermata dell’autobus, nell’ufficio del dormitorio, alla mensa o alla coda per entrare in mensa &c.) e attacchi conversazione con qualcun altro dicendo: "Ah, tu, ma ti ricordi di WWkk Yyyxx? E’ morto". E poi le cause: infarto / overdose / tristezza / [ad libitum]. La morte di uno, che faceva il transessuale e si faceva chiamare "Bambi", tra i cinquanta e i sessant’anni, ha fatto un certo scalpore nell’ambiente, tempo fa; hanno persino messo la notizia su "Torino cronaca", quel tabloid da venti centesimi, con uno strano sottotitolo: "Il cordoglio di Lia Varesio". Dico che è strano perché è difficile associare l’idea di Lia Varesio all’idea del cordoglio, ma tant’è. — Ma questa è tutta un’altra questione. Solo l’altroieri sera sono stato raggiunto dall’indiretto annunzio della morte di una persona che ho, assai superficialmente, conosciuto — overdose, ed è una cosa che nessuno immaginava, peraltro, perché nessuno sapeva che si facesse le pere. (Io non ne sono stato sorpreso perché non mi sono mai domandato se se le facesse o no, non c’è stato modo perché me lo chiedessi). Aveva come punto di riferimento la Gran Madre, racimolava qualche soldo alla chiesa rispettiva, prendeva da mangiare dalle suore, poco distanti, o dai cappuccini sulla collina. Da ultimo sembrava essersi sistemato, cioè era stato preso sotto l’ala da una signora, e aveva anche un lavoretto. L’operatore, superata la sorpresa della notizia, ha scosso la testa e ha detto, riferendosi a queste circostanze: "E dire che si era anche tirato un po’ sù". Strano, la mia impressione è che il peggio arrivi proprio quando le più basilari impellenze sono state soddisfatte. "Era troppo depresso", ha aggiunto. C’è da invidiare la capacità dei barboni (quelli veri) di estrovertire dolori e disagi. Ci fanno una  carriera. E’ per questo che quando ne muore uno c’è come una specie di lutto nazionale.

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    CCXVII. Romanzi-mondo.

    17 Feb

    CCXVII. Cercando il vecchio articolo di www.minimi.it sul Frugoni (Francesco Fulvio, 1620-1686), ho incontrato anche il blog di tale AlterEgo, che rimanda anche al blog splinder di tal neuropa, alias Gigliozzi, che avrebbe scritto un poema/romanzo-mondo, di cui sono sparsi frammenti nel blog. Non so se è chiaro (credo di no). Quello che proprio non riesco a spiegarmi è perché questi retori linguaiol-lutulenti debbano sempre aver l’aria di fare maledettamente sul serio. Distrugge tutto il gusto dello scrivere affastellato, secondo me.

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    CCXVI. …

    17 Feb

    CCXVI. Dal momento che ho una quindicina di cose da dire, e tutte in una volta, per oggi mi sa che non scrivo proprio niente (e poi si tratterebbe di pareri, nemmeno di cose, l’idea sola mi nausea).

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    CCXV. Per ….ella

    16 Feb

    CCXV. (….ella, non riesco a lasciare commenti sul tuo blog per lo stesso motivo di cui nel post precedente, &c.)

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    CCXIV. Per la Sirenetta.

    16 Feb

    CCXIV. Sirenetta, ho dato uno sguardo al Parnaso Ambulante, purtroppo con questo terminale non posso leggere le recensioni. Se è per quello, con questo terminale non posso nemmeno lasciare commenti sul tuo blog. Mi sento frustrato, e anche un po’ stronzo. Comunque, metto il parnaso ambulante tra i link. Proprio per non sentirmi così, del tutto impotente.

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    CCXIII. Facciamo un po’ di autobiografismo.

    16 Feb

    CCXIII. Nella giornata dell’altroieri ho concepito un progetto che dovrebbe occupare una posizione piuttosto prioritaria nel mio eventuale venturo ruolino di marcia, e quindi piuttosto centrale nell’economia generale della mia esistenza; ho poi dedicato la giornata di ieri alla messa a punto di due progetti accessorii, non totalmente secondarii, il secondo dei quali peraltro si biforcherebbe e distinguerebbe in due progetti gemelli, anzi cugini. Il bilancio, oltre ad un nulla di fatto (ma sfido chiunque: i progetti son progetti), di cui non me ne importa una cippa, consiste in uno scialo allucinante di energie, che mi ha lasciato stordito e mi ha messo addosso un appetito che non posso soddisfare. Sono iperteso, ho una florida renaissance di tic isterici e rafforzo in me la convinzione che quasi tutto possa risolversi con un paio di ceffoni ben assestati.

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    CCXII. Sto

    16 Feb

    leggendo i Cento anni del Rovani, nei quattro volumetti della vecchia BUR; avevo letto solo il primo volume Garzanti, anni e anni fa, e avevo interrotto, trovandolo noioso (cioè: l’avevo trovato noioso, e, a prescindere [poiché non era mia intenzione interrompere, almeno non consciamente — ma mi fermo qui], avevo interrotto la lettura). Adesso lo trovo persino avvincente, e anzi pregusto l’idea di leggerne trenta o quaranta paginette quando, la sera, non ho veramente nient’altro da fare. Non posso nemmeno immaginare in che stato mi devo essere ridotto.

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    CCXI. La peggior scrittrice in rete.

    16 Feb

    CCXI. Non sto a spiegare il perché del titolo, semmai andate a leggere, e vedrete che mi darete ragione. Col piccì (che poi non è nemmeno un piccì, è un terminale — perché mi ostino a chiamarlo personale?) della biblioteca non posso entrare a lasciare commenti, e uno o due ogni tanto glieli lascerei anche — chiedo scusa: mi riferisco al blog di pattypiperita, che ha ormai tre anni di vita o di mi-mort, e dopo un penoso strascinarsi ginocchioni, con molte battute d’arresto, s’è nuovamente fermato (definitivamente non posso dire, perché non posso saperlo). Il penultimo intervento riguarda il sig. Ratzinger, pontefice massimo, l’ultimo (particolarmente brutto) un’amica della famigerata Matilde. Se qualcuno mi chiedesse come mai, a cadenze regolari abbenché assai lasche, io torni su quel blog non saprei proprio che cosa rispondere.

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    CCX. Varie (ed eventuali).

    15 Feb

    CCX.  Dalla parte di là (vale a dire sul mio bloggo preferito, quello di http://www.azu.splinder.com) si è quasi cominciato un dibattito sul perché si tiene un blog. Qualcuno dice per questo, questo e quell’altro; altri dice perché pissi pissi bù; io, invece, non lo dico, perché tengo un bloggo. E non lo dico non tanto perché non ho voglia di dirlo, ma perché non lo so. Essenzialmente, è anche una questione di impiego del tempo della giornata (tre genitivi uno appresso all’altro — ecco, ecco, ecco); ricapitolando, io 1. non lavoro, 2. non faccio all’ammore, 3. non viaggio non mi muovo non m’interesso non vado ai concerti delle olimpiadi, 4. non converso, 5. non mangio quasi, quasi non bevo caffè, quasi non fumo; rimane che al punto 6. almeno qualcosina io lo debba fare. O vado errato?

    Indi il blog.

    Di là da tutto, è vero anche che non mi si fila nessuno, nella vita. E spesso a parlare da solo mi stanco; così, invece — intendo: tramite un bloggo — è molto più facile far finta di avere un interlocutore.

    (Volevo dire tutt’altro, ma chi ne ha più voglia, adesso?).

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    CCVIII. I cigni.

    14 Feb

    CCVIII. Non so quasi niente dell’aviaria, dato che i dieci minuti odiernamente dedicati alla lettura di sfroso della Stampa sono stati tutti sciupati a leggere il temino di Giovanna Zucconi dedicato ai cigni, che sono cigni sono cigni sono cigni, "come avrebbe detto la più colta delle poetesse", e che quindi sono natura e non cultura, e quindi è ora di finirla con la frusta retorica lohengriniana, per decidersi a definirli quali essi in realtà sono, cioè brutti e cattivi (mòzzicano, sapete).

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    CCVII. (Torno all’attacco).

    11 Feb

    CCVII. Questo sarebbe dovuto essere l’int. n° 206, ma purtroppo non sono riuscito a pubblicarlo. Niente di che, dicevo solo che stamattina, passando per la Galleria Cisalpina (e non sono sicuro che si chiami così, perché non ho mai visto targa, e se non c’è scritto non memorizzo), mentre sbirciavo dall’antiquario una versione del De architectura a cura del fratello dell’ab. Galiani, sono stato circondato da una decina di tutori dell’ordine, il più prossimo dei quali, così scrivevo, mi ha "flautatamente intimato" (rende l’idea o no?) di fargli vedere che cosa tenevo nello zaino. Macchinalmente mi sono tolto lo zaino dalle spalle e gliel’ho porto. Mi ha detto di fare io. Ho cominciato a frugare in mezzo al caos di ciddì, un libro, cartaccia varia, due quadernoni di grande formato (questo passa il convento), e prima che arrivassi ai ben quattro giornali porno, che scommetto sono ancora lì, il poliziotto mi ha fatto segno di fermarmi, e ha cominciato a passare il dito, un po’ laidamente, su uno dei taschini laterali — credo proprio quello in cui c’è ancora appallottolato (ho verificato prima, ne sono sicuro) un paio di mutande. E’ andato bene così; han salutato e se ne sono andati, ringraziando — io ovviamente non ho risposto, pieno di una sottile infelicità.

    Fattostà che quando ho un incontro ravvicinato (molto di rado, comunque) con le forze dell’ordine, e sono sempre cose banalissime, toccata-e-fuga, non so perché mi sento, al fondo, così — veramente — anarco-insurrezionalista da sentire la necessità morale di mostrarmi offeso, di dire cose pesanti, di sputar loro d’in mezzo agli occhi, prenderli a calci negli stinchi, morder loro la mano; e buscarmi una multa, una manganellata, un po’ di galera. Non so da dove mi venga fuori questo stravagante impulso, e non so come mai tutte le volte che mi comporto bene con qualche agente (cioè tutte le volte che sono costretto ad averci che fare), dopo mi sento una merda. Quali sono, veramente, i miei rapporti con le forze dell’ordine?

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    CCVI. So

    11 Feb

    che avrei dovuto dire qualcosa, se non molto, sulla Torino olimpica. Cioè, questo ci si sarebbe aspettati da uno che scrive da qui, credo; così mi sarei aspettato da me stesso, stando qui. Posso solo dire che è brutta. Hanno fatto installazioni orribilmente leziose, e le piazze Castello e Solferino ne escono immeschinite. (Avevo scritto poc’anzi un pezzo, diverso da questo, ma non me l’ha pubblicato. Splinder comincia a farmi perdere troppe cose). L’argomento mi fiacca e mi deprime. Per me, alla fine, facciano quello che vogliono (delle Olimpiadi non me ne frega niente).

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    CCII. Non è per vantarmi.

    10 Feb

    CCII. Non è per vantarmi, ma oggi è proprio una bella giornata.

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    CCI. Qualcuno

    10 Feb

    ha letto sulla Stampa di oggi l’articolo di Massimo Gramellini sui torinesi che piangono in occasione delle Olimpiadi?

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    CC. Bloggo.

    10 Feb

    CC.

    Bloggo
    gravido
    d’aure
    al ciel
    sospinto.

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    CXCIX. Extreme tracking.

    9 Feb

    CXCIX. Grazie ad extreme tracking adesso posso dilettarmi a vedere da dove provengono (dove come città, dico) i miei visitatori. Sono diversi i torinesi, ma qualcuno si connette anche da Collegno. Uno è di Napoli, un altro è di San Giorgio a Cremano. Uno si connette da una località con un nome stranissimo, che adesso voglio scoprire dove si trova esattamente, Procoio Nuovo.

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    CXCVIII. D’altra parte,

    9 Feb

    l’idea di scrivere di cose diverse da quelle che vivo, ultimamente, mi mette a disagio. Potrebbe essere di sprone, ma di fatto è deprimente.

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    CXCVII. …

    9 Feb

    CXCVII. Non ho voglia di scrivere un caz. Non ho voglia, cioè, di scrivere le cose che ho in testa, che sono poche e noiose. Vorrei far cambio di cervello con qualcuno, o far diventare il mio una di quei registri-dati che inghiottono solo ed esclusivamente dati e fatti. Le impressioni e le più esplicite risonanze delle cose mi nauseano.

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    (CXCVI. Anche se

    8 Feb

    non è che mi occorra a qualcosa. E’ solo per farmi un’idea).

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    CXCV. Forse non era tanto brutto.

    8 Feb

    CXCV. Per dovere di esattezza, il rumeno di cui mi si diceva ha un’aria, più che rumena, maghrebina; e — ma potrei sbagliarmi dato che sono cecato — forse non è tanto brutto come mi si diceva (ma c’è tanta gente che proprio non ha gusto). Speriamo si faccia rivedere a breve, così mi certifico.

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    CXCIV. Ah,

    7 Feb

    ho la morte nel cuore. Non mi sento particolarmente agitato, anzi pieno di una tranquilla disperazione. L’unica cosa che mi consoli, costantemente, di ogni eventuale prossima batosta, è l’idea che tanto, prima o dopo, in un modo o nell’altro, per un motivo o per l’altro, tuttociò — finalmente — finisce. Ma mi sto chiedendo che cosa dovrei provare all’idea che tuttociò finirebbe anche qualora fosse di gran lunga meglio di com’è. (Ho notato, all’ultimo scontro avuto, che proprio i nervi non rispondono. E pensare che là fuori è pure peggio!).

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    CXCIII. Secondo me,

    7 Feb

    Sirenetta, quando esprimevi diffidenza verso quel robo di heracleum, o herakleum, o haeraclaeum o come kazzo si dice, avevi torto, torto, torto. E’ molto ispirante, invece. Grazie alle ultime cose apparsevi (oggi) ho potuto aggiungere tutto quel popo’ di robaccia che adesso si trova in fondo alla pagina.

    E scusatemi se è poco.

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    CXCII. Il mendicante (o clochard propriamente detto).

    5 Feb

    CXCII. Mentre la città (che poi sarebbe Torino) si trasformava in un lunapark per vecchiette, con sbandieratori con problemi psicomotorii in via Roma, e una sorta di gran ballo dei paralitici di Francia improvvisato in mezzo a via Micca (sull’aria della marcia di Radeschi, peraltro), io mi trovavo in via Vado (notato? "via-vado" / "vado-via". Mah), sul davanti della modernissima chiesa che lì sorge, e che serve quella parte di Mirafiori — la quale, stando all’affluenza di ieri sera e di stamani, deve avere grandi esigenze spirituali. Il prete è moderno, si chiama don Giorgio, ha la faccia da zio stronzo e fa spaventare i bambini facendoli roteare in aria come nel gioco del pupazzo, o la ninnananna di Karlsson-sul-tetto. Opportunanda mi aveva dato quest’opportunità (giusta il nome), quella di guadagnare qualche soldino, per una volta, da autentico clochard; in effetti, il clocher o tour de la cloche è presente, moderno anch’esso, non molto più alto dei tetti delle brutte case circostanti; e io sotto la moderna tettoia, davanti alla porta a vetri affumicati, come un coglionazzo.

    Con un banchetto davanti, e degli Scarp de’ Tenis (finirò col bombardare la redazione — solo per questo varrebbe la pena di andare a Milano) poggiativi sopra. Avrei più che volentieri rifiutato, ma sta di fatto che il mese scorso, per mia dimenticanza, non ho terminato la distribuzione degli Scarp de’ Tenis (e ridàje), e mi sentivo in colpa. Così ho accettato di "sostituire" il sig. E., un gentile vecchietto che conosco di vista, cioè non conosco sostanzialmente affatto, il quale (come mi ha detto un maghrebino che da quindici anni è fisso davanti al cancello a chiedere l’elemosina nell’orario delle messe — hanno anche un orario generale, dico ad uso barboni, mi ha promesso di portarmene una copia, così mi regolo e guadagno di più…) ha sempre fatto ottimi affari, qui. Mi hanno detto (la responsabile di Opportunanda, il maghrebino, e una cordialissima, odiosissima signora ossigenata che mi ha parlato oggi) di non farmi illusioni, "ancora non ti conoscono", quindi diffidano. "Tu racconta la tua storia, di’ che sei per dormitorii, di’ che hai bisogno per mangiare la sera — mi raccomando la sera, perché sanno che di giorno ci sono le mense", mi ha istruito la responsabile. La signora bionda, sempre con quel sorriso a cazzo, mi chiede: "Ma intendi venire anche il mese prossimo, e gli altri mesi?". "Ma", esito. Quando è uscita, quasi per ultima, dalla messa, mi ha detto, con un sorriso a cazzo doppio: "Eh, chissà che non ci si veda anche nei prossimi mesi", piantandomi in mano tre euri.

    Questo giusto per venire incontro (pareva fatto apposta, guarda te) a quel tale (che poi è mondocane, tanto per intenderci), che ci teneva tanto che io chiedessi l’elemosina. "Perché non chiedi l’elemosina?", mi aveva chiesto. Perché nessuno me l’ha mai proposto, tutto qui.

    La giornata di ieri è andata male (5 copie vendute, ma il maghrebino mi rincuorava, che avessi pazienza, era la prima volta), e purtroppo è andata maluccio anche oggi, nonostante fosse domenica e ci fossero tre messe: 5, 5 e 11 copie in tutto. Insomma, un miglioramento è visibile ma non vistoso. Il maghrebino stavolta si è incazzato moltissimo: "Allora non venire più! Almeno dieci copie a botta!! Ma così…". Mi sono sorbito l’eco di ben tre messe, con quelle canzoncine dolciastre cantate dalla boyband e dal coretto seminfantile (dico semi- perché mi pare di aver intravisto anche una gobba di mezz’età, ma poteva anche essere un’adolescente straordinariamente cessa, attraverso il vetro oscurato si vedeva male) e il barbottìo indistinto della predica amplificata. La messa è spettacolo, per quanto la modernità, ho l’impressione, paia talora volerlo far dimenticare; ma stranamente su me (che ne ho viste pochissime, di messe) ha avuto sempre un effetto lacerante: non conosco nessuna istituzione più deprimente, asfittica, pateticamente e irrimediabilmente brutta. Secondo me uno che va a messa ha qualcosa di storto, di sinistro. Ammenoché non sia implicato per ragioni professionali, come suora o sacerdote, almeno laicamente. Ma uno che va a messa non promette niente di buono. Forse perché il momento di maggior contatto col sacro fa risaltare senza più alcun’ombra di dubbio quanto la stragrande maggioranza delle persone non lo senta affatto, né (per quanto si sforzi di parere di sforzarsi di sentirlo) si sforzi di sentirlo.

    Non è tutto così spiritualmente morto, beninteso; anzi, un momento di vero sacro c’è stato: il padre nostro. Devo dire che il pubblico è formato, va da sé, in parte consistente da vecchiette; ma c’erano anche molti giovani, e giovani coppie, e bambini. In quel momento tacevano tanto il coro dalle e strette quanto il parroco alla mano, e le madri e i figli, e si sentiva solo un coro di ranocchie contrite che croassava volenterosamente padre nosctro che sciei nei tsceli: è l’unico momento che, lo dico di tutte le (poche, ripeto) volte che mi sono accostato a una chiesa in orario di messa, sono riuscito grosso modo ad intuire che cosa voglia dire una preghiera; proprio perché è il momento in cui la chiesa è tutta in mano alle vecchiette, che conoscono il dolore e la fatica dei giorni, penano a mettere un passo davanti all’altro e sentono intronarsi nelle orecchie tre fucine d’Efesto ogni volta che la badante o il nipote, stirandole per il braccino stecchito, le trascinano impazienti fuori casa; sognano spesso l’inferno, hanno paure micidiali, e sono in grado (teste Giordano Bruno) di scagliare le più temibili maledizioni che possano colpire udito e cuore umano. Forse lo squallore atroce delle messe dipende proprio da quello che la chiesa deve, credo, considerare un’autentica fortuna, e cioè l’afflusso dei giovani, o comunque dei non-vecchi. Io, appunto, non ho capìto come facciano i diciotto/vent’anni d’età e l’andare in chiesa a strappare a qualunque logica quello straccio di compossibilità che pure, per essere possibilità, devono avere. Così, le chiese semivuote sono visitate più volentieri dallo spirito santo; e così via.

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    CXCI. Afasia.

    4 Feb

    CXCI. Ho avuto sempre scarsissima comprensione nei confronti degli scrittori che nun ponno scrive. Mi hanno sempre fatto rabbia, e, confesso apertamente, li ho sempre disprezzati. Esserci arrivato per altre vie (presumo, anzi, ne sono convinto, è una cosa patente, vistosa) non mi mette al riparo dal disprezzo che provo nei confronti di me stesso per essere, ormai, parte del detestabile novero1.

    Ecco, sono già diventato un aforista.

    Che schifo.

    1Qualcosa mi trascina sempre verso il secolo scorso. Per questo rimpiango il secolo scorso, perché allora tendevo a due secoli fa.

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    CXC. Mi piacerebbe

    4 Feb

    molto scrivere a nastro continuo, essere di quei chiacchieroni che buttano fuori tutto e sùbito. Ma dopo la parentesi di garrulità (forse necessaria) che mi colse qualche annetto fa, scrivere mi costa dubbii e talora anche pena. Non mi fido a buttare fuori tutto e sùbito (ma non ho ancora deciso se faccio bene o male a non fidarmi).

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    CLXXXIX. Lavori in corso.

    4 Feb

    CLXXXIX. Appunto, intendo tornare sul pezzullone, ma dal momento che si tratta di maturare, strada scrivendo, anche una certa consapevolezza (altrimenti che cosa scriverei a fare?), e la consapevolezza è amarezza & fatica, allora credo ci metterò un po’. Poi posterò.

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    CLXXXVIII. Mi piace

    3 Feb

    dedicare un apposito post al ritorno di azu, o i. che dirsivòglia.

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    CLXXXVII. Avevo scritto

    3 Feb

    una lunga cosa riguardante gli ultimi giorni, quando sono stato ospite occasionale di una persona che mi ha raccolto sulla scalinata anteriore della Civica, essendo una cosa un po’ straordinaria, rispetto alla routine, ma si vede che non è stata abbastanza straordinaria da ispirarmi minimamente: il noioso pezzullone, ho avuto agio di rileggerlo prima di pubblicarlo, e mi sono visto costretto a cestinarlo definitivamente, e con sollievo, appena mi sono reso conto che merda fosse.

    In compenso, in mia assenza, un giovane che ha appena cominciato a frequentare, con parsimonia, i dormitorii (normalmente dorme in via Roma), ha avuto un litigio con una coppia di gay rumeni impegnati in un laborioso petting (causa del litigio, ovviamente) nella sua stessa unità abitativa alla Colletta. Ha avuto la peggio, ed è stato costretto a sloggiare alle 2.00 del mattino. Ma la mia invidia è notevolmente diminuita quando a domanda mi è stato risposto che i due erano irrimediabilmente di brutto aspetto. Peccato. (Non vedo due gay che limonano dal settembre di due anni fa, fu la mia prima visione torinese, su una panchina davanti alla mia in una via non distante dalla stazione di Porta Nuova. Ma erano bruttissimi anche quelli, sfatti e tutti a sbrendoli).

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    CLXXXVI. Il post più brutto in assoluto (o quasi).

    3 Feb

    CLXXXVI. La cosa più bella secondomé non l’ho trovata. Dico (quasi) per correttezza. Avrei dovuto passare la Rete, e tutti i blog ospitativi per esserne certo — mentre è una questione meramente intuitiva. Non so, ma so ugualmente che in nessun blog di quattordicenni solitarie, casalinghe devastate dall’odio contro il mondo, nostalgici imperfettamente rasati e minchioni e minchionesse varie può trovarsi alcunché di equivalente a questa puzzolente poesiola, ma sarà poi una poesiola?, non solo perché è scritta male (ed è scritta male), non solo perché è razzista (perché è razzista), ma per una serie di piccoli nonsoché che però so — che la rendono così genuinamente sordida e, appunto, rivoltantemente fetida. Sarà la paroletta "tradizione"? Sarà che la suora destinataria ha la coppola azzurra e, soprattutto, i denti gialli? La si trova qui: http://www.artifiziale.splinder.com. Blog fortunatissimo, in passato ricco di interventini ed interventoni eruditi, ma anche no, ora ripetitivo e ricicciato, e ulteriormente sporcato da provocazioni destrorse stile anni Cinquanta (credo di aver capìto che l’owner non sta bene di salute, ma comunque sia non sono kazzi miei); rimasto chiuso per pochi giorni, è stato adesso adesso riaperto (appositamente per produrre questa meraviglia?). E’ il componimento alla suora del Bangladesh (non riesco a dare un link più preciso, ma anche se ci fossero difficoltà a trovarla non importa), comunque.

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    CLXXXV. Link.

    31 Gen

    CLXXXV. Aggiungo alla lista dei link ernani, vale a dire http://www.ernanet.splinder.com. Avvertenza: il blog non ha ancora cominciato ad esistere(e non comincerà, se pure comincerà, prima di qualche mese), quindi non so che cosa mi stia facendo.

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    CLXXXIV. Dubbii.

    23 Gen

    CLXXXIV. Nutro dei dubbii… La mia ultima decisione rende impossibile a b. intervenire su questo blog… Io sono ancora in attesa del caffè, è da allora che non ne bevo più uno… Non so nemmeno più che sapore abbia un caffè… Ammenoché non pensi bene di iscriversi e chiedere l’autorizzazione… Ma non è verosimile… Comunque poteva essere un trabocchetto, magari ho anche fatto bene a scoraggiarla… Ma che cos’altro potevo fare, per liberarmi di quell’orrida baldracca di duecentotredici/centocinquantuno?… Non c’era alternativa… Vorrei tanto un caffè, cattivo, del distributore, poco e acquoso… Poc’anzi ho fumato l’ultima sigaretta, rimasugli secchi di Old Holborn Blu, Bali Shag verde, Golden Virginia, Trinciato Forte, Van Nelle, Golden Midway e West… Ormai fumo una sigaretta ogni tre ore e mezzo… Mi sto disabituando… Mi girava la testa… Mi hanno pure fregato l’accendino, un bic blu, ho faticato a farmi accendere… Vero è che adesso come adesso mi sarebbe perfettamente inutile… Inoltre perdo colpi… Gli interventi che ho scritto finora, secondo la mia originale numerazione romana, dovrebbero essere centottantatré… escluso questo, ma splinder ne conteggia centottantaquattro… Uno in più… Devo aver sbagliato, ma dove?… Potrebbero esserci due numeri XLII come due numeri XCVIII come due numeri CII… Dovrei passarli tutti in rassegna, ma è fatica… Giorni fa (ma quando? quando?) mi hanno riferito che ‘il mio amico Franco’, cioè un signore mitissimo, ha dato una testata in faccia a un notorio rompicoglioni, peraltro ferendosi… Ho detto: "Ha sicuramente fatto benissimo", e mi hanno guardato malissimo… Non riesco ad aprire bocca e a non destare tutti i sospetti…

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    CLXXXIII. Novità.

    21 Gen

    Dopo che ho trovato l’ennesimo commento anonimo, ho deciso di limitare l’accesso ai soli utenti splinder.

    Cia’.

    d.

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    CLXXXII. Qualunque cosa.

    20 Gen

    Oh, tenere un blog non è così difficile. Scrivere non è così difficile. Avere qualcosa da dire non è così difficile. Non ci penso abbastanza, ma non c’è un modo ‘massimalista’ di tenere un blog. Dovrei scrivere e postare un saggio o un romanzo la settimana. In realtà, il blog non sopporta una gestione alternativa: non solo si possono solo riportare, con la debita (alta) frequenza caccoline e cianciafruscoli, ma ci si sente bene solo quando si riportano caccoline e superfluità. Dato che ho poco tempo, dovrei dedicarlo proprio a questo: mezz’ora al giorno di caccole da appiccicare dietro il monitor. Non è difficile. E nemmeno deve esserlo. In fondo, non sono peggio di tanti altri, no?

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    CLXXXI.

    17 Gen

    CLXXXI. E’ proprio il caso di dire Nascondi la tua vita ed espandi l’anima, in certi casi. Come nel caso di ieri sera, per esempio, che è stata una sera diversa dalle solite, non nel senso che sia successo chissà che, ma nel senso che un ragazzo mi ha attaccato bottone, in biblioteca, mi ha parlato di sé, ha fatto parlare me di me, indi mi ha invitato a cena. Dove (tra intercenale e dopocena) mi sono pur dovuto, alla fin fine, risolvere a raccontare per filo e per segno (grosso modo) che cosa è successo. E cioè che me ne sono andato ex-abrupto da una città, che me ne sono andato in un’altra città, dove ho vivacchiato per strada per una decina di giorni, dopodiché me ne sono venuto a Torino, dove una persona conosciuta (?) in Rete mi ha consigliato di venir lì perché forse c’era un lavoro; dopodiché, giunto a Torino, ho incontrato quella persona e poi un’altra, la quale mi ha introdotto al magico mondo dei dormitorii pubblici (a partire dal Sermig, presso cui ho dormito solo in séguito, per una notte), mi ha generosamente foraggiato per un annetto e poi basta. E adesso eccomi qui.

    Alla fine di tutta la patafiacca mi ha detto, serafico: Potresti chiedere l’elemosina.

    Abbisognano commenti?

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    CLXXIX. Ho un cruccio.

    14 Gen

    Ma veramente scrivo come un ragioniere?

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    CLXXVIII. E niente,

    14 Gen

    c’è stata una discussione, ieri sera, ma non mette conto che la metta qui sopra perché intanto un diario di fatto ce l’ho, l’ho messo sottochiave. Anche se gli armadietti si aprono molto facilmente (comunque me lo sono portato dietro). In ogni caso ho avuto modo di dire all’aborto storpio, figlio di una storpia, figlio di una puttana storpia, a tua sorella quella mignotta sciancata, scherzo di natura, maiale rompicazzo, fatti i cazzi tuoi, le corna che tieni, schifezza, tu sei storto di dentro e di fuori. Mi sono rimasti fuori re della corte dei miracoli e, appunto, aborto. [Gli ho anche mostrato il medio]. Assai significativo il fatto che mi abbia detto (oltre a strunz, coglione, fangul, le corna che tieni, ricchio’, zoccolo’, non te le do io ti mando gli amici miei, te faccio accird) anche che minghia stai a scrivere? è inutile che stai a scrivere qui fino alle tre del mattino, non sei  nisciuno, nella tua vita non ci sta niente, non hai mai fatto un cazzo di niente, va a fatica’ [le patane so’ bbone cotte], solo droga, droga — DROGATO!!!  Stamattina dovevo avere una specie di colloquio di lavoro (?) con uno che si chiama Nene, e ha un’agenzia di nome "La Gunter" (nessuno mi chieda che cosa significa); costui fino a qualche mese fa era per dormitori, e adesso ha un ufficetto in via s. Domenico. Giorni fa mi ha dato appuntamento per le 13.00 qui all’informacittà, ma è venuto a vedere se c’ero alle 10.30 (come riferito dagli addetti). Stamani avevo appuntamento con lui (anche se il sabato normalmente non lavora) alle 10.00, ma non c’era né alle 10.00 né alle 10.30. Sicché me ne sono venuto qui.

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    CLXXVII. Ho scoperto

    6 Gen

    chi è stato, adesso mi sento un po’ più tranquillo. Niente, si tratta dello stesso individuo (in fondo non è nient’altro che logico) che ho visto aggirarsi intorno al tavolo quella sera che mi sono allontanato. E’ un ambiente in cui è difficile giustificare cose come tenere un diario, o scrivere frequentemente. Oltre al fatto che, credo, anche nel Breviario dei politici si dice che quando si viaggia, o si è in casa d’altri, o in qualunque altra situazione consimile, non è affatto consigliabile farsi vedere a scrivere. Se proprio non può farsene a meno, farlo in segreto — possibilmente senza farsi cogliere sul fatto, ciò che avrebbe il potere di destare i sospetti come non potrebbe il farsi apertamente vedere a scrivere. In effetti la tentazione di considerare mentecatti tutti i frequentatori di case di accoglienza notturna è forte; e anche quella, del tutto conseguente, di considerarli troppo paranoici per capire qualcosa. In realtà (ciò di cui non mi ero reso conto finora), la diffidenza nei confronti di chiunque tenga regolarmente un diario in un ambiente grosso modo chiuso non ha niente di anormale. Il fatto che io non avrei più problemi a convivere con un notista che ad essere tale non fa testo. Anche perché io sono un paranoico al contrario, io sono convinto che la gente mi sopporti. Mentre invece deve sopportarmi; nel senso che ci è tenuta, obbligata. Che è un altro conto.

    Si tratta di uno storpio, un relitto umano, deforme dentro e fuori, in sé leccaculo e ruffiano, che tuttavia passa la quasi totalità delle serate a ringhiare contro questo e quello negli angoli. E’ molto fastidioso. Da quando c’è è onnipresente, in corridoio, davanti alla tivvù, al cesso, lo trovi dovunque, attacca bottone con chiunque, sparla di chiunque, vien voglia di soffocarlo con un cuscino, o di fargli bere una secchia di acido muriatico. Aveva sì tentato di attaccare bottone un paio di volte, nei giorni passati, ma provavo una ripugnanza così viva che non potevo, non ce la facevo a rivolgergli la parola senza farmi venire il dolore ne’ visceri. Dev’essersi risentito. La prova? E’ un paio di volte di troppo che lo sento esprimere fastidio perché scrivo — quando mi vede scrivere, ovvio. Oltreché "coglione" mi ha definito (non direttamente; ho provato, anzi, a chiedergli: "Ma cellà con me, percaso?", ma mi ha sempre risposto: "No, no, io parlavo con quest’altro…", quindi è anche meschino e vigliacco, vel cacasotto) "poliziotto", o "sbiro". Insomma, crede che lo stia tenendo sotto osservazione. Gliela do io.

    Allora, si tratta, o no, di trovare un condegno contrappasso? Ripeto, l’idea di ricercare i modi e le vie di procurare un disagio/dolore quanto più possibile simile al mio mi pare ributtantissima per le ragioni già dette; non riconosco nessuna analogia tra il mio sistema nervoso e quello di questo povero (povero, in fondo; povero, sì, ma nocivo, come molte forme di vita a un bassissimo stadio evolutivo) essere inferiore. Sono tenuto, per ragioni di dignità e di rispetto verso me stesso, a non stabilire falsi paralleli, che mi avviliscono. Per cui non credo proprio sia il caso di andare a cercare quella "tortura della goccia" che mi proponeva l’operatrice. Credo di avere l’obbligo di comportarmi diversamente. Un po’ del contrappasso c’è, volendo; da una parte, il gesto, vigliacco, meschino, infame, mi ha colto di sorpresa; e anche la mia può essere vista come una sorpresa (è, di fatto, una sorpresa). Ma le analogie finiscono qui. [Ho cambiato idea, radicalmente, tra ieri mattina e ieri sera: non si tratta di stabilire alcunché su un piano di parità; si tratta di prendermi una volgarissima soddisfazione personale. Se quel coso soffre, io godo. Tutto qui].

    Come ho deciso questa notte (la mia prima intenzione era quella di agire sùbito, poi ho desistito per via di un po’ di movimento, un po’ più del consueto, che c’è stato fin dopo l’una — e poi era recente una sua provocazione, io preferisco che la tempesta sia annunciata da una congrua quiete), l’idea è di entrare nella sua camera, verso le 3.00, le 4.00 — ‘sti barbonazzi soffrono tutti d’insonnia, ma a quell’ora dorme chiunque –, e, senza meno, scoprirlo, afferrarlo per i piedi, trascinarlo in corridoio e saltargli a piè pari sullo stomaco finché qualcosa (e magari anche più di qualcosa) si rompe. Una cosa semplicissima. Finirò buttato fuori, ma deve essere la cosa più plateale, più distruttiva che mi riesce.

    Tutto qui.

    Non vedo l’ora che arrivi stasera.

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    CLXXVI. Insomma…

    5 Gen

    L’esperimento (di cui non parlo nemmeno oggi), che ha anche positivi effetti collaterali nell’immediato, riparte oggi. E basta: non ne dico più niente. Ieri parlando con un’operatrice ho realizzato che con ogni probabilità è stato il gesto dispettoso di un subumano, che non si rende conto del fatto che il furto e la distruzione di un diario equivalgono ad un omicidio. Un subumano che con ogni probabilità non si rende conto di che cosa sia un omicidio, inquantoché egli è già morto, anzi, c’è nato. Mi consiglia di trovare un contrappasso adeguato: non scioglierlo nell’acido, non staccargli la testa dal collo. Meditare: qualcosa come la tortura della goccia. Un dolore che sia, per l’appunto, lungo e sottile, insidioso, in un eterno, pare, infinito crescendo. Ma la cosa mi mette molto a disagio: molto. Per me la vendetta non è un piatto che si consuma freddo. Non posso procedere con precisione chirurgica, sapendo dove andare a parare. Non sopporto l’idea di torturare a freddo quell’essere deforme e inferiore perché non sopporto l’idea che il suo dolore possa somigliare al mio. Ci ho pensato a lungo, in questi giorni. Non posso lanciargli addosso una lenta e inesorabile maledizione, perché la prima non-regola della magia nera è proprio nel porsi su una determinata linea d’onda, che porti sopra il capo della vittima, laddove, lievitando, si devono attirare le folgori del cielo. Le quali non sono una cosa così splendorosa e ramificata come sembra a dirlo così, quasi fossero dipinte sul fondale del prim’atto della Maria Tudor di Pacini. Bisogna avvelenarsi di immagini odiose, di squallore e orrore, concentrarsi bene. E’ come procurarsi ferite orrende per scalfire la vittima. Si potrà essere più imbecilli di uno stregone cattivo? Mi è mancato lo scatto ferino, la reazione a caldo — urlare e pestare i piedi, ribaltare letti e armadietti, ammollare schiaffi e somministrare scaracchi, bastemmiare e insultare, sbattere porte in rapida successione &c. . Una mancata reazione a caldo è l’altra cosa, immediatamente successiva alla presa di coscienza della scomparsa del diario, che assomigli a una morte: sono morto altre due volte nel giro di una settimana; non fa stupore che mi senta un po’ intontito. 

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    CLXXVII.

    4 Gen

    [Sto un po’ meditando il da farsi (dovevo, prima di scrivere, fare ordine, cioè cancellare il commento della solita anonima deficiente; ma non ci riesco, colle impostazioni del piffero di questo computer da straccioni. Sicché sono costretto a lasciarlo. Ma in fondo è innocuo. Va in pace, va in pace. A fare in culo, ovvio), e devo dire che ultimamente le idee cominciano a chiarirsi. Devo fare un esperimento. Poi torno].

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    CLXXVI.

    3 Gen

    Ci sono di quei blogghisti la cui vita non sembra, effettivamente, più varia ed interessante della mia, in compenso hanno una facoltà mirabile a ricamare parole, spesso di suono molto suggestivo, su piccolissime cose che non dovrebbero essere scritte. Dato che dietro alle parole non c’è praticamente niente, la suggestione suggerisce solo il vuoto, che niente e nessuno potrà mai nascondere. Per questo sembrano delle lunghe, lunghissime bestemmie a voce bassissima, e molto molto strascicate.

    A che cosa mi riferisco?

    A niente in particolare, a molte cose lette quassù. Ma è importante?

    Stamattina manderò a fare in culo chiunque.

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    CLXXV. Gino Rizzo.

    31 Dic

    Se qualcuno si chiedesse, a questo punto, "Ma dove mai ho sentito questo nome?" (ciò che non è improbabile, perché almeno UN lettore di quella cosuccia mia introduttiva c’è stato), torni un po’ più giù, alla mia paginetta sull’Errico e sulla lettura approfondita che vorrei dare (così, per fare), delle sue Guerre di Parnaso. Il quale è un testo che in prima assoluta per la nostra età è stato pubblicato da quell’Argos leccese di cui ho dato conto nella schedina bibliografica annessa. Si tratta di un testo tutto sommato recente, di un anno fa (tra poche ore due), cioè del 2004, ma già reperibile, almeno nel mio caso, a livello di remainders, tanto poco interessante è il Barocco (lo dico sul serio) letterario. Questo per dire 1. come io me lo sia potuto permettere, costando 13 euri 13 all’origine; 2. qualcosa che contribuisca come si deve all’atmosfera giustamente un po’ luttuosa di questo post.

    Gino Rizzo era amico e collega del massimo baroccòlogo nostro, il prof. Marzio Pieri; il quale sul sito del suo istituto (Parma) lo ricorda così, con queste secondo me bellissime pagine. Infatti, il prof. Gino Rizzo è morto. Le segnalo, queste pagine, primo perché aver letto l’ultimo libro di uno studioso che appena poi è morto mi fa rincrescimento; secondo, perché Pieri scrive maravigliosamente, e vale sempre la pena leggerlo (anche quando sembra, come in questo caso, di farsi di sfroso i caz. di un perfetto e perfettamente stimabile sconosciuto — e, no, non scagiona il fatto che tutto ciò si trovi in Rete, alla discrezion di tutti).

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    CLXXIV. Men on men III: Giuseppe Casa.

    31 Dic

    Si tratta di un autore che praticamente (si può dire) non conosco; nato a Licata nel ’63, trovate qualche notizia sul suo conto qui. Ieri pomeriggio, anche e soprattutto per non pensare al diario, mi sono messo a leggiucchiare qualcosa alla Civica Torino centro, e ho preso in mano il III vol. dell’antologia di racconti gay Men on men. Un altro volume, non so più se il primo, il secondo o che, l’avevo pure sfogliato, ma mi sembrava contenere solo minchiate. Invece in questo terzo volume (che comunque non ho letto integralmente), tra le minchiate si trova anche un dittico di racconti (Meltin e Meltin 2) di questo scrittore, e sono bellissimi. Manco a farlo apposta è l’unico scrittore eterosessuale rappresentato.

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    CLXXIII. Auguri, i.

    31 Dic

    Buon compleanno e buon anno.

    [Aggiunta delle 13.01. Fermo restando il buon anno, i., perdonami: mi sono ricordato solo adesso che il tuo compleanno è stato ieri… 😀

    Scusa].

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    CLXXII. Fogliettone.

    31 Dic

    Avevo cominciato questo, che ho messo tra i link ma non ho segnalato; nel tempo, spero, andrò avanti. (Se mi va, e non so se mi va).

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    CLXXII. Il diario, 2.

    31 Dic

    Questa faccenda della sparizione del diario mi ha destabilizzato. Intendiamoci, non sono, da parecchi anni ("ma in quale altra vita? me lo sai piu’ dire?", e piri piri), nella disposizione di spirito di fare ‘o pazz, mettermi a urlare che salti fuori il mio fottuto quaderno verde o prendo un lanciafiamme, una mazzetta da cinque, una tanica di benzina e vi faccio fuori tutti, bastardi, e non sono piu’ in animo anche di pensare certe cose da un tempo così immemorabile da potermi quasi permettere di dire che non sono mai stato così violento come vorrei essere. Non so se sono risentito, addolorato, ferito, amareggiato, disgustato, stufo — anzi, lo so perfettamente: non sono nulla di tutto questo. Mi sento monco. Per la piu’ parte del tempo me ne sto imbambolato. Ieri sera ho preso un quadernone, piuttosto sottile per le pagine strappate, di quelli che mi avevano dato, insieme ad alcuni vestiti usati, a s. Antonio, e mi sono messo a scrivere i fatti della giornata. Ma, all’inizio, mi sono premurato di dire che nel frattempo mi hanno rubato il diario, e che il discorso che sto continuando, in realtà, comincia — dove non so, in un punto — in un posto? — su un quaderno che non c’è piu’, o che io non ho piu’. Non posso dire: riferirsi al quaderno verde. A chi lo dico? A quello che me l’ha sottratto, che con ogni probabilità non ha letto nemmeno una riga di quello che ha sottratto (ed eventualmente dove dovrei lasciargli queste precisazioni? Le lascio in vista, in modo che me le sottragga, o tento prima di scoprire chi è e gliele consegno s.g.m.?) ((E se l’ha buttato?)) Poi ho precisato che la mattina, passando in biblioteca, su alcuni fogli sparsi (ma, se ben ricordo, sono riuscito a riempire solo due facciatelle), avevo già ricostruito la metà inferiore della giornata (seconda facciatella), essendomi premurato di dire (prima facciatella) che nel frattempo mi hanno rubato il diario con gli avvenimenti dal 28 ottobre. Ho anche detto che un operatore, a cui l’ho detto (gliel’ho detto, va da sé, solo perché mi manca un diario a cui dirlo), mi ha proposto (credo stamane 31 dicembre 2005, compatibilmente con i suoi turni) di pensarci lui — frugherebbe nell’armadietto del sospetto colpevole, in sua assenza. Mi vieta di sospettare della sottrazione anche l’operatore il solo fatto che la sera della sparizione non c’era. Ora mi ritrovo con 1. un quaderno grande, ad uso zibaldone (che a un certo punto sembrava sparito anche lui, ma era solo sul fondo dell’armadietto), su cui ci sono alcune faticose righe di sfogo a caldo, del 29 dicembre; 2. due facciatelle della prima metà del 30 dicembre 2005; 3. un quadernone riciclato (che ad ogni buon conto ho portato con me) della seconda metà del 30 dicembre 2005. Tre supporti ben distinti, con riferimenti al contenuto di un quarto supporto che non esiste piu’, per quanto ne so. M’è venuto in mente che a Huxley, settantenne, ormai cieco, si incendiò la casa. Suo unico commento, round-head style: "E adesso dovrò ricominciare tutto da capo". Huxley non mi ha mai fatto impazzire, intendiamoci, ma i buoni esempi dovrebbero essere sempre seguìti. Mi rimane da stabilire se questo sia un buon esempio. E’ un buon esempio, questo? (Devo dire di aver avuto la tentazione di rimettermi lì a ricostruire [Strindberg: Ma bisogna! Bisogna! — ma era una casa, non un diario] gli avvenimenti degli ultimi due mesi; un bell’esercizio di reminiscenza. Ma se fallissi?).

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    CLXXI. Con colpevole ritardo

    30 Dic

    aggiungo …..ella ai link.

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    CLXX. Diario.

    30 Dic

    Probabilmente per sfregio (dev’essere sicuramente stato per questo), qualche buontempone mi ha fatto sparire il diario. Era un quadernetto verde, di cui avrò scritto circa 120 pagine, e conteneva quello che ho scritto dal 28 ottobre in poi. Quindi, nel complesso, non una gran perdita. Non ho reagito con la scomposta disperazione con cui avrei, forse, dovuto; ma ne sento comunque la mancanza, grosso modo come se avessi perso la mano destra sul tram o una gamba al cesso. Disorientante. Se non altro, adesso so che cosa può succedere al mio diario se lo lascio un momento incustodito. Tanto vale, allora, tenere il diario direttamente in rete (posto che riesca a farmi succedere qualcosa di ragionevolmente interessante ragionevolmente di frequente; e questo è un problema accessorio [ma non da poco] che mi si presenta).

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    CLXIX.

    28 Dic

    Se si cerca con google "troione europee", la prima pagina segnalata è questo blog.

    Yuk.

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    CLXVII. Segnalo,

    24 Dic

    con caldo invito a leggere con attenzione, questa cosa qui.

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    CLXVI. Ah, dimenticavo.

    24 Dic

    CLXVI. Sono stato pubblicato. Sull’ultimo numero (dicembre) della rivista dei barbu’ Scarp de’ tennis (posso solo sperare che si scriva così). Mi avevano proposto di raccontare la mia storia. Io non ho una storia, non so nemmeno per che cazzo mi abbiano cacciato in questi posti, che è pure impestato uscire. Così ho raccontato che non ho una storia, allungando un po’ il brodo per 2998 battute. Tutto ciò ha un aspetto molto positivo, nel fatto che per questa mia storia mi hanno dato trenta euri. Sputaci sopra.

    In occasione delle feste, il Comune blocca le uscite. Vuol dire semplicemente che chi terminerebbe il proprio periodo di permanenza (una settimana per i non residenti, un mese per i residenti) in dormitorio il 24 o il 25 o il 26 non esce, bensì rimane dentro fino al 27. Va da sé che bloccare le uscite significa anche bloccare le entrate. L’anno scorso ho finito la mia settimana di ‘posto fisso’ il 23 in punto, sicché sono regolarmente uscito, e ho trascorso il natale tra i miasmi di piazzale Speranza, che non era propriamente un piazzale, ma un container che sorgeva in un piazzale interno in via Carrera 58 — poi, per fortuna, quest’anno l’hanno abbattuto. Quest’anno sono riuscito ad essere in chiamata per il 24, ma dal momento che, appunto, nessuno esce né il 24, né il 25, né il 26, rimango fuori per tre notti supplementari. E mi trovo a passare il natale nel gelo del nuovo piazzale Speranza, che non è propriamente un piazzale, ma una serie di container piazzati dentro un capannone industriale tutto aperto sito in via delle Ghiacciaje (sic!!!) 52bis/A. Lì, non so perché, c’è un operatore/responsabile che, come ho scoperto solo di recente, continua a lamentarsi di me con il call-center, la centralina (cioè) che distribuisce i posti, dicendo che mi comporto male — forse ha specificato anche in che senso, ma non mi è stato riferito. Data la generale, e forse abbastanza comprensibile, tendenza al leccaculismo propria di tutti ‘sti straccionazzi che si fanno assistere, sembra che io sia caduto in disgrazia; sicché nessuno mi parla piu’ — però c’è stata anche una desertificazione dell’unità abitativa dove mi hanno messo a dormire, e questo è un fatto abbastanza positivo, perché così non mi sono dovuto sorbire il fetore tremendo che c’è nelle altre.

    Sono un po’ di malumore.

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    CLXV.

    16 Dic

    CLXV.

    Sinclair Lewis, Bethel arriva da Sladesbury ["Bethel Merriday", 1940; tr. Carlo Rossi Fantonetti], Club degli Editori [Mondadori], Milano marzo 1968.

    Romanzo spiegato in 33 capitoli dell’autor di Babbitt e Passo di danza, è un romanzo di formazione e un romanzo (nel contempo) brillante dell’ampio filone del ritratto in cui si inserirà (1955) il capolavoro assoluto, oltre che l’esempio forse più ‘puro’ di un genere (paradosso) del tutto tramontato e oggi irrimediabilmente datato, Auntie Mame di Patrick Dennis. Non perché questo sia un romanzo solo brillante, anche se per lunghi tratti prova ad essere anche brillante, ma perché il filone è, si può dire, quello del "ritratto" (ci sarà qualcuno che ha dedicato uno studio a questo filone o lo vedo solo io?) romanzesco, i cui remoti, e piuttosto sporadici, antecedenti possono essere ravvisati in certa narrativa dei "tipi" tardosettecentesca (vedi il MacAnzie del Man of Feelings), ma soprattutto in molti romanzi brevi di Balzac (che so, La femme de trente ans, Gobseck, e altri — tra cui, ma dovrei pensarci, La cousine Bette potrebbe forse stare); tra gli esempi più prossimi alla contemporaneità, Daisy Miller di Henry James è certamente il più perfetto e forse il più influente in merito; ricordo anche, tra i contemporanei di Lewis, l’Evelyn Waugh di Lady Margot (noto una tendenza a privilegiare i personaggi femminili, che compaiono con semplice nome-e-cognome, giustamente, nel titolo). Ma Dennis, figura rimasta oscura, misteriosa, di chierico della penna stoicamente e ironicamente spaesato in un mondo paraletterario privo, o teso ad apparire privo, di valori estetici, capace di imporre qualcosa che assomiglia alla possibilità del capolavoro pur rispettando nei minimi particolari i dettami di un "alto" artigianato che teoricamente doveva escluderlo, non ha scritto che poche altre cose (tra cui un sequel, Auntie Mame in Europe, che non ho letto; e Genius, 1960, che è non spregevole cosa), di cui quasi non permane traccia — mentre Auntie Mame (veda chi vuole le pagine riservate ai commenti dei clienti su amazon) gode di inalterato affetto da quant’ha (cioè da allora). Mentre Sinclair Lewis ha scritto molto altro, d’infinitamente più notevole di questo, senza — per giunta — mai mostrare eccessiva dipendenza da questo o quel modello popolare, pur corteggiandone parecchi, se non tutti. Perché dico tutto questo? Perché il difetto piu’ vistoso del romanzo è proprio questo: quello di innestare il romanzo di formazione, che consiste nella rappresentazione di una personalità in evoluzione, quindi in continuo cambiamento, con il genere del ritratto, che consiste nel raffigurare una personalità che non muta (non nel corso del romanzo) — un ritratto, appunto. Ora, Auntie Mame è anche uno pseudoBildungsroman, marginalmente, perché i capitoli sono incorniciati da riferimenti ad una storia edificante letta su un rotocalco in un pomeriggio di noia, ciò che induce l’autore-narratore (si chiamano tutti e due Patrick — anzi, il narratore ‘Patrizio’, nella stupenda, annotatissima, letteratissima, infedelissima versione italiana) a ripercorrere, tappa per tappa, la sua propria formazione sotto la guida del tutto scriteriata della zia Mame; sicché abbiamo un narratore che evolve e un ritratto di donna compresenti — soluzione elegante, semplice e magnificamente trovata. Qui, nel caso di questo brutto, sciocco (ma illuminante, come tante cose brutte) romanzo, Lewis tenta inopinatamente di ritrarre la sua eroina, ciò che non potrebbe fare, in teoria, essendo l’eroina in movimento. Ne esce un’eroina che è una sagoma di cartone ancora da pittare, del tutto esangue, che né ci mostra una fisionomia riconoscibile, né compie una propria evoluzione.

    Con uno stile nelle intenzioni animato, tenero e (appunto) brillante, Lewis racconta la vicenda umana e artistica di quella che è presentata come una grande, speciale attrice, nelle prime pagine, per poi rivelarsi, semplicemente, quell’astratto modello di semplicità e moderato candore che con ogni probabilità lo stesso Lewis, stanco delle complessità e delle nevrosi attoriali sorbite durante la precedente e intensa esperienza teatrale, si sarebbe augurato di incontrare. Bethel Merriday, nata nel 1916, nasce con una spiccata disposizione ad imitare attitudini e modi di fare delle persone che vede. Il suo milieu è mediano: nasce a Sladesbury, da famiglia apparentemente né povera né ricca, ma semplicemente della media borghesia. Nella sua casa non ci sono libri, ma non per questo i coniugi Merriday hanno pregiudizi nei confronti della cultura. Bethel, riflessiva, ingenua, buona, studia diligentemente, fino alla laurea in lettere (a ventidue anni), ha alcuni amici e un innamoratino, il serio e poco brillante Charley, con cui passa normalissime serate al cinema, in gelateria o a giocare al tennis. Dopo aver preso legnosamente parte ad una recita di fine anno, è notata da un produttore teatrale, Roscoe Valentine, grasso e non molto simpatico, che gestisce un teatro estivo, vale a dire una di quelle imprese teatrali subsecivae e poco redditizie in cui, come dire ‘in colonia’, gli attori esordienti hanno modo, corrispondendo una cifra non molto bassa, di farsi un po’ le ossa. Per quasi trecento dollari, i genitori di Bethel acconsentono che la ragazza trascorra qualche settimana lontana da loro, e si rechi a Grampion Center, località marittima di una manciata di anime, ad annusare per la prima volta l’odore del palcoscenico. Qui Bethel, come tutti, fa un po’ da schiappino, piegandosi ai più umili incarichi (si fa per dire), ciò che peraltro le permette di farsi una bella, ma per ora non si sa quanto utile, esperienza in materia di scenotecnica applicata. Quanto impara in materia di recitazione ha più da fare con la cosiddetta "scuola di vita" che con l’arte drammatica squisitamente intesa; la sua è un’esperienza tutt’affatto concreta, di lavoro, che comunque la donzella complementa con zelanti letture in biblioteca (durante le quali sembra più interessata — corre l’obbligo di dirlo — al numero di anime e/o alle risorse del suolo e del sottosuolo del tale o tal altro più o meno importante o trascurabile centro industriale di cui sente parlare che, e ridàje, al teatro). Qui conosce due tipi di diva, Iris Pentire, soignée ed eterea, bambolesca ed altezzosa, protagonista di una produzione de La foresta pietrificata (uno dei titoli di pièce più eventualmente familiari al lettore italiano, posto che questo romanzo abbia ancora lettori, grazie all’interpretazione filmica che ne diedero Bette Davis e Humphrey Bogart nel ’37; nel dettaglio, mi limiterò a dire che la pièce non vale molto, che la Davis non sembra tanto fuori ruolo quanto che il ruolo sembra fuori di lei, e che Bogart è pessimamente fotografato: soprattutto quando s’incazza, le sue braccine sembrano ancora più corte. Fine della recensione del famoso film); e la bruna e più imponente Mahala Vale, presente in George and Margaret. Le quali vamp si aggirano avidamente intorno al giovane capoccia di fatto dei "Nutmeg Players", Andrew (Andy) Deacon. Costui, bello nell’aspetto e nel carattere, è un giovinotto di abbastanza belle speranze, più che come attore (benché sia buono assai anche come attore) per il fatto di essere di famiglia ricchissima, e in specie avendo mammà che sovvenziona, per ora (parrebbe) piuttosto volentieri; è lui è alimenta economicamente l’esperienza pur fallimentare del teatro estivo. Il suo entusiasmo adolescenziale, o da universitario eterno, conquistano sin da sùbito la giovane e fin troppo ricettiva Bethel. Dopo questa scipita esperienza, che Lewis, già che c’era, poteva raccontare pure peggio (suppongo gli si debba rivolgere un grato pensiero, dovunque egli sia), Bethel affronta quasi senza soluzione di continuità l’esperienza newyorkese; ne nascono le pagine più notevoli dell’intero libro, tra cui due o tre che descrivono suggestivamente (anche se non si tratta certo di un tour de force, ma di una buona resa di quello che è un topos figurativo cinematografico) una rossa, gigantesca metropoli. Qui Bethel si adatta a fare la dattilografa. Impara saggiamente ad evitare l’ambiente sfaccendato dei velleitari aspiranti attori e si impone qualche sacrificio — la descrizione delle condizioni di vita di Bethel, e del suo lungo e vano bussare a varie porte, nonché understated, è anche piuttosto adacquato. Bethel, comunque, si rivela esplicitamente più come un esempio di costanza che di vera e propria dedizione; nel senso che non si sottopone a nessun sacrificio particolarmente duro, mostrandosi quietamente, un po’ noiosamente (appunto) perseverante. Non c’è nulla di avventuroso, nulla di esaltante nella sua vicenda. L’evento che spezza la sua bigia routine metropolitana sembra addirittura fatto apposta per rendere la sua vicenda newyorkese ancora meno coinvolgente: un giorno Bethel Merriday scopre, grazie ad un trafiletto di giornale, che Andrew Deacon ha intenzione di riformare la compagnia estiva del Nutmeg Theatre, ricontattando i vari partecipanti all’epoca (in realtà è passato pochissimo tempo, qualche mesetto). Letto questo, Bethel Merriday, per motivi suoi, non ritiene di doversi chiedere perché mai Andrew Deacon sia rimasto così coinvolto da quella sciapa esperienza tanto da ricordarsene a distanza di ben tre, quattro, sei mesi o quello che saranno; e non dobbiamo chiedercelo nemmeno noi. Sta di fatto che, dopo qualche minima peripezia, Bethel riesce a raggiungere Andrew Deacon, che si ricorda ovviamente benissimo di lei, e ne fa, nei giorni caotici del casting, la propria segretaria-confidente. Regista sarà il famoso Adrian Satori. Forse corre l’obbligo di ricordare che la pièce che si va ad allestire è destinata immediatamente a un lungo giro in tournée, ciò che equivale, per il regista, ad un impegno solo iniziale, dopodiché la pièce, l’allestimento, gli attori sono mandati per il mondo come pecore in mezzo ai lupi. Tutto quanto attiene all’organizzazione dello spettacolo, dopo la prima impronta data dal celebre regista, spetterà al mecenate-mentore-appassionato Andrew Deacon. Il dramma sarà Romeo e Giulietta, ma reinterpretato alla moderna. La compagnia comprende una famosa diva inglese dal carattere ovviamente insopportabile, di nome Aurelia Boyle, evidentemente capace di giocare con straordinaria potenza sugli archetipi, dato che riesce ad impersonare, a quarant’anni (stra)suonati, la quattordicenne Giulietta in modo impeccabile; accompagnata da un pechinese che ovviamente l’intera compagnia detesta sin dal primo latrato, nonché da un cerbero di cameriera austriaca (Hilda), è un personaggio a cui Lewis non permette di assumere nemmeno i contorni netti della macchietta; non parliamo di verità artistica o di consistenza. Ma così avviene anche per tutti gli altri. Ci sono anche la vecchia volpe di palcoscenico "Doc", lo sbagliatissimo (miscast) frate Lorenzo del signor Nooks, vecchio, pomposo e incapace caratterista scritturato da un Deacon solamente stufo di respingere falliti; Mahala Vale impersona una tradizionalistica, efficace, madonna Capuleti, &c., &c., &c. Dunque, il presente Romeo e Giulietta è riconcepito secondo la "mentalità" contemporanea, ed è in panni moderni. Sicuramente nel 1940 questo rappresentava il top della spregiudicatezza; ma Lewis non ci conduce al difuori del microclima, tanto amorosamente creato, di una recita scolastica di fine anno. Questo microclima non ci abbandonerà fino alla fine; e non c’è traccia veruna, nel romanzo, che ci restituisca quel momento di più piena, di più esplicita risonanza, anche scandalosa in certi inevitabili casi, di questi esperimenti di attualizzazione. Innanzitutto perché nessuno mena scandalo, per quanto attiene all’operazione; e le finte recensioni che si leggono nel corso delle pagine a seguire rendono conto di pareri moderatamente discordi tra loro, o moderatamente positive o moderatamente negative; ma senza che nessuno invochi la folgore del cielo su chi calpestò il sacro capo di Guglielmo Crollalanza. Non era necessario, è chiaro; e, se Sinclair Lewis non ha ritenuto di creare più saporosi contrasti, perché inferire cose che nel romanzo non ci sono? Sta di fatto che negli Stati Uniti Shakespeare è sempre stato considerato un autore troppo secentesco per essere portato in scena tal qual era, e fino a non moltissimi anni fa era recitato sulla base di rifacimenti che attualizzavano, con più o meno proprietà e sensibilità all’originale, almeno la lingua. Attualizzata la lingua, il resto vien da sé. Gli Americani non possono ignorare Shakespeare perché è il miglior scrittore che abbia scritto in una lingua molto simile alla loro (peraltro Anthony Burgess, nel suo Shakespeare, mette l’accento, da filologo [nella fattispecie a proposito di talune rime per noi imperfette], che all’epoca, in Inghilterra, si pronunciavano con un accento che oggi appare simile a quello di talune parti degli Stati Uniti; sorridevole paradosso); ma di qui a sentirlo ‘proprio’ ce ne corre, e anni luce. Dunque è storicamente più esatto quello che Lewis ci propina: cioè reazioni, da parte vuoi di critica vuoi di pubblico, centrate su allestimento e attori, non sul ‘tradimento’ delle intenzioni originarie dell’autore, considerate, nella loro lettera testuale, in sé improponibili. Chi mena scandalo è lo spettatore europeo, semmai; ma qui l’Europa non c’entra affatto. Da quello che si capisce della scenografia, dovrebbe essere una concezione a metà strada tra il neorealistico e il rusticano; è l’Italia degli anni Trenta/Quaranta, quella che è rappresentata, o fotografata in scena. Romeo e Mercuzio vestono in divisa fascista, ciò che desta gli sdegni della signora Levison, un’attrice marxista-chic dalla siluetta reminiscente della ritrattistica signorile settecentesca inglese (ciò che dovrebbe farci respirar meglio, non essendo quest’ebrea l’unta labbruta strillona youpin del luogo comune — è il massimo di civiltà, ma su questo tornerò [fuggevolmente] poi oltre, che ci si possa aspettare da questo Sinclair Lewis in ciabatte, post-Nobel e abbondantemente rincoglionito: rappresentare una slavata donzelletta inzuccherata ed ebraificarla — con l’appiccicarle un cognome vistosamente ebreo, tutto qui). Anche lei è un non-personaggio, coi due volumi del Capitale (rigorosamente NON letti) perennemente in vista sul comodino e alcune ideuzze svaporatamente staliniste nella testolina bizzarra. Già, Stalin. A questo punto Lewis dev’essersi reso conto che facendo inconsistente il personaggio della stalinista della situazione rischiava di apparire motivato a svalutare lo stalinismo stesso, facendolo magari apparire salottiero e fragonardesco a sua volta. Rischio scongiurato con l’inserire, a questo punto, una o due paginette, abbastanza puzzolenti, in cui la sua fede antistalinista è ribadita con ottusa e tranquilla (babbittesca, le voilà) forza. Corre l’obbligo di notare che in questo romanzo la posizione politica di Lewis è più esplicitamente e fortemente contro il comunismo che contro il nazifascismo. Non solo, da qualche minuscolo indizio, senza peraltro alcun séguito e nessun peso specifico, come suol dirsi, nell’"economia" del romanzo, pare che a Lewis il nazifascismo non sia poi tanto antipatico. Non, almeno, dall’altra sponda dell’oceano, dove può evidentemente permettersi qualche gioco di emblematizzazione irresponsabile (ma, almeno dal suo punto di vista, evidentemente non imperdonabile); a parte l'(inutile) impiego delle divise fasciste nel dramma amoroso, c’è un determinato punto, nel romanzo, in cui la compagnia si trova a passare in treno accanto a determinate colline, quelle che caratterizzano il paesaggio nelle lande originarie di Jesse James, il bandito. Lewis, colto da un raptus liricizzante, chiama ognuna di quelle colline "un’ara" levata a sempiterna memoria — non del nobile bandito, non dell’eroico fuorilegge, non dell’angelo venuto dal basso, non di qualunque altro figurante tradizionale, o binomio, od ossimoro proponga il vasto trovarobato della letteratura popolare e della leggenda, ma, sorprendentemente, "dello Hitler di quell’età". Falaride, Caligola, Ezzelino da Romano o Caterina de’ Medici ancora ancora, ma un coraggioso fuoruscito può sembrare uno Hitler? Insomma, se a Lewis quelle colline appaiono come "are" e la memoria di Jesse James è eterna, può dirsi che Jesse James sia ammirato da Sinclair Lewis. Se l’ammirato Sinclair Lewis sente il bisogno di definire Jesse James lo "Hitler di quell’età", si può dire che Sinclair Lewis ammiri non solo Jesse James, ma anche Hitler? Secondo me sì; anche perché non è un trascorso di penna, non deve esserlo, dal momento che si nomina quella dea altamente conservatrice, ma spesso non esattamente filo-reazionaria, che è la Memoria. La quale fa sparire le distanze in termini temporali, essendo degli anni e de l’oblio nemica, come sappiamo. E le distanze in termini spaziali e proprii, che poc’anzi, forse irriflessamente, invocavo a parziale scusante nei confronti di Lewis per quanto riguarda il parallelo infelicissimo, anzi funesto? Forse, negli Stati Uniti e allora, le condizioni dell’Europa sotto i nazifascisti erano meno note (quanto meno note?) di adesso; ma, qualunque fosse l’intenzione dell’antistalinista Sinclair Lewis in questo caso, rimane il fatto che questo disinvolto parallelo, per il lettore di oggi che sia un essere umano e non un essere inferiore, si manifesta anche come modo (tentativo; o meglio aborto, sconciatura) di creare intorno all’orrore un’aura romantica, cavalleresca, che fa nausea e stomaco. Personaggio fondamentale, già introdotto nella parte del Nutmeg Theatre estivo (invadeva, esuberante, fradicio di pioggia e pieno di battute provocatorie, lo spogliatoio delle ragazze), è quello di Zed Wintergeist. Ventitreenne (quindi di un anno più vecchio di Bethel), nato nel Montana, ambizioso e seriamente innamorato del teatro, avanguardista, ricco di molte disparate appassionate letture, sornione e idealista insieme, fan di Brahms e antitradizionalista, estroverso, dalle origini composite (tedesche, irlandesi e forse, ma solo forse [Deacon in proposito è misterioso], ebraiche), costituisce il contraltare tuttavia fin troppo simmetrico del personaggio di Andrew Deacon, specialmente agli occhi di Bethel. Bethel, molto benvoluta da ambo, oscilla pigramente — ma solo col cuore — tra l’uno e l’altro, con crescente disapprovazione osservando le manovre pitonesche con cui vanno circuendo ora l’uno ora l’altro le due fioche maliarde Iris Pentire e Mahala Vale. Tutto il resto del romanzo si svolge, da questo momento in poi, in maniera del tutto lineare (a parte una sezione, un vero sfasciamento narrativo, in cui si decide di descrivere partitamente una serie di personaggi proprio nel momento in cui escono, o sono già usciti, di scena; ma si potrà dar di peggio?), seguendo le vicende, purtroppo non sufficientemente alterne, della tournée, in centri sempre più sperduti, più piccoli, più torpidi, mentre il budget di Andrew Deacon va vertiginosamente assottigliandosi (i soldini provengono dalla madre, che da lontano, a un dato punto, gli fa sapere che non manderà più un centesimo, a parte i soldi del biglietto di ritorno). Bethel, in tutto questo periodo, non riesce mai, e non so nemmeno se l’autore voglia gabbarcela per tale, a diventare né un personaggio, né una donna, né un’attrice. Aurelia Boyle, regolarmente ubriaca, una sera ha una piomba tale da ridursi totalmente fuori servizio; Bethel, decantata da tutti (la competitrice Mahala Vale in testa) come Giulietta ideale sin dapprincipio, non ostasse l’inesperienza, ha la grande occasione; la sostituirà. Si ristudia la parte, che conosce tuttavia imperfettamente (e questa è una vaga incoerenza, mi sembra; ma è pur sempre un romanzaccio, quindi sorvoliamo), sotto la guida di un Andrew Deacon ineditamente severo, per risultare alla fine, nonostante recitando abbia modo di scoprire una cosa tecnicamente importante come la dissociazione, a disagio, impacciata, mediocre. Pian piano, a causa dei necessarii tagli alle spese, sono silurati prima di tutto il gigione signor Nooks, per fortuna in modo abbastanza indolore (e comunque grazie a Bethel, che, incaricata all’uopo da Andy Deacon, non perde nemmeno quest’occasione per dimostrarsi migliore segretaria che attrice), poi la troppo dispendiosa Boyle, comunque stanca e perlopiù piena di alcool, poi Iris Pentire (che la prende malissimo), &c. Mahala Vale subentra come radiosa Giulietta, mentre Bethel, già Prologo e Paggio, diventa una madonna Capuleti pare convincente, benché poco convenzionale. La noiosissima vicenda si conclude sabato 23 gennaio 1939, nello sperduto villaggetto di Pike City, Kansas, con un confronto cavalleresco tra Zed Wintergeist e Andrew Deacon (rimasto con la bellezza di 17 dollari in tasca), risoluti entrambi ad avere quella delizia di Bethel Merriday. La quale, senza mai aver nascosto di pendere più per Deacon che per Wintergeist, sceglie tuttavia quest’ultimo. Non è comunque una gran sorpresa. Il fatto si è che in tutto quel tempo Bethel è cresciuta, ha esperito la vita di teatro in tutti i suoi aspetti. Semplicemente in Deacon arde un fuoco troppo tiepido; Wintergeist, benché più irregolare e capriccioso, è tuttavia il compagno d’elezione. La sua vocazione teatrale non è nata dall’educazione, né dagli studi, né dal milieu; è un fatto naturale, come per lei, che pure non ha avuto vita troppo difficile. Sicché il 25 dello stesso mese (lunedì) i due si sposano presso il municipio della cittadina. Il 16 febbraio 1940 li vediamo risvegliarsi nella loro camera presso l’Hotel Mountbatten (che è come dire la Pensione Marisa, però in americano), 48° strada, e accingersi a raggiungere l’Acanthus Thatre, dove devono prendere parte alle prove di Alas in Arcady, una delle infinite produzioni artigianali (ma sotto Jerome Jordan O’Toole, l’ "altro" regista-capocomico-imprenditore rispetto a Roscoe Valentine, ma preferibile a questo, diciamo a un livello un po’ più alto) che affronteranno insieme da quel momento in poi.

    Quello che non fa stupore è che da tutto questo, nonostante Lewis mostri di avere idee molto chiare su come dovrebbe essere la sua attrice ideale, il teatro nel suo complesso rimanga tagliato fuori, e in qualche maniera proiettato in un oltre che procede, del tutto indipendentemente da quello che si è detto nel romanzo (poiché non lo riguarda), oltre l’ultima pagina del libro. Mi ricorda molto Serenade, di James M. Cain, che per inciso è di quel torno di anni (1937) e servì peraltro da base a un altro film (ovviamente con Mario Lanza; non l’ho visto e non ci tengo); lì, in Serenade, ad essere presa di mira era la musica classica, che cominciava proprio allora, in quegli anni, a diventare un fenomeno di massa negli USA, con un suo mercato di compratori di dischi e di spettatori di concerti e film musicali (tutti piuttosto dilettanteschi e poco fortunati, tra l’altro). Chi vuol sapere come nascano le famigerate ‘recensioni’, cioè quelle orrende pappolate che chiunque può scrivere e che oggi gremiscono le pagine di polpute riviste di dischi, si legga quest’orrendo romanzo (in specie uno stravagante dialogo tra un capitano e il protagonista, circa Beethoven e Rossini). Ma qui in Bethel Merriday succede qualcosa di pure peggio: Lewis, semplicemente, manca la presa, e di teatro non si riesce a parlare. Forse è il teatro in sé che non si presta a normalizzazioni — così credo io.

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    CLXIV. Poveri Daniele di Viterbo, Claudio di Treviso, Filippo di Milano, Doriano & Massimo di Vicenza (che si perdono, poracci)

    15 Dic

    CLXIV. Cito:

    Name: DESPOTA
    Età:: 43ANNI
    Provincia:: TRIESTE
    Area di ricerca:: TUTTA ITALIA
    Ruolo:: DESPOTA-EDUCATORE ISTRUZIONE BYZANTINA.
    Sent: 13/03 2004 11:54

    VOGLIO CONGATULARMI CON LA MAREA DI TELEFONATE ANCHE DELLE E-MAILS,FOTO E DELLE ESPRESSIONI DI ADDORAZIONE
    ESPRESSE DA TANTISSIMI SCHIAVI AI MIEI CONFRONTI.FESTE ORGIASTICHE BYZANTINE SE LE MERITANO
    TUTTI COLORO CHE HANNO VOGLIA E DECISIONE DI ESSERE SCHIAVI SOTTOMESSI TROIE!!LA CONFRATERNITA BYZANTINA DEI DESPOTI(PARTECIPANO DESPOTI DI COLORE DOVE SI SCHIAVIZZANO BIANCHI,ARABI SHEICCHI CHE SCHIAVIZZANO
    CRISTIANI,TURKI CALIFI E PASHA CHE INCULANNO TROIE EUROPEE,BYZANTINI DESPOTI CHE FANNO DI TUTTO PER SODOMIZZARE,RELAZIONI INCESTOSE(NON PEDOFILIA)TYRANNIZZANO CRISTIANI CATTOLICI(PARTICOLARMENTE FORTUNATI PERCHE STANNO NEL MIRINO DI TUTTI I MASTERS)
    AL CEL 333 82 78 843 MI POTETE TROVARE ANCHE DI NOTTE.
    OVVIO CHE TUTTO SEGUITO BISOGNA FARLO CON RECLUTE MILITARI TOSTI,CHE DEVONO PASSARE DA UNA VISITA MEDICA PER EVENTUALI TERAPIE.AVANTI TROIE SE CERCATE VERAMENTE QUELLO CHE ACCENDE LE VOSTRE FANTASIE MARCIE
    CHIAMATE.(ESCLUSIANIELE DI VITERBO,CLAUDIO DI TREVISO,FILIPPO DI MILANO,DORIANO E MASSIMO DI VICENZA
    MARCO DI BOLZANO).SE ANDREA ED ENRICO DI PADOVA LEGONO QUESTO ANNUNCIO MI DEVONO CHIAMARE HO UN REGALO PER LORO.!!!

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    CLXIII. (Non possiamo non dirci contenutisti?)

    10 Dic

    CLXIII. Oggi il tempo ce l’avrei, ma di che cosa posso scrivere? In effetti non mi sta succedendo niente di interessante. In effetti (si può dire), tenere un blog quando non ti succede niente che valga la pena raccontare è un modo disonestissimo di perdere tempo e di farlo perdere ad altri. Quando vago per blog, per esempio, esigo che mi si dicano cose interessanti e succose, inedite & brillanti, divertenti o atrocemente tragiche, e che ci siano delle foto, molto appariscenti, o dei disegnini ingegnosi, o almeno qualcosa di porno. E io che cosa propongo? Qual è la mia funzione nella società — tale per cui possa avere un mio discreto ruolo anche come autore di blog? La prosa non interessa a nessuno, a me men che meno. Infioro di caccole il nulla che mi circonda e che sta dentro di me. Non è altamente deprimente?

    Sicché oggi, mi spiace, ma non scriverò altro.

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    CLXII, Ciao, bill.

    8 Dic

    Come stai?

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    CLXI. Forse mi corre l’obbligo

    8 Dic

    di avvertire che il mio silenzio di questi giorni (posto, e ribadisco: posto che a qualcuno possa fregargliene qualcosa, e non credo — ma io quest’avvertenza la voglio fare lo stesso) dipende semplicemente dal fatto che nelle ore in cui per me sarebbe teoricamente possibile avere accesso alla rete, purtroppo o per fortuna, non posso esserci, a causa di certi miei banalissimi impegni.

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    CLX. La satira che mi piace.

    4 Dic

    CLX. La Sirenetta mi fa giustamente notare che ho parlato più della satira che non mi piace che della satira che mi piace. In questi termini (riporto il suo ultimo commento):

    ma poi ce ne parli della satira che ti piace? perchè se uno scopo c’è nella satira, è quello di "smitizzare" il male, il brutto, l’ingiusto. Renderlo umano, umanamente ridicolo, umanamente incoerente, umanamente piccino e quindi meno difficile da combattere. no?
    splash!

    Questa è un’interpretazione della satira, e non una definizione accettabile in tutti i casi. Ho fatto riferimento al filone oraziano, e la satira oraziana, per esempio, non se la prende coi grandi mali, o col Male assoluto, ma più che altro coi difetti delle persone che si vede intorno, osservando i quali si salva, o si sente salvo.
     
    Questo aspetto della satira, l’aspetto — dico — smitizzante, per usare la definizione della Sirenetta, è una caratteristica di un certo tipo di satira, quella politica, e soprattutto della satira politica come si è fatta negli ultimi decenni, in questo paese. Un paese nel quale sono successe molte cose che, in sé e per sé, si può dire non facessero e non facciano (sor)ridere affatto, e che la satira ha reso più a portata. Una satira che è stata prima grosso modo ‘giornalistica’, e poi è diventata, fino alle epurazioni, televisiva. Sono stati scritti, in merito, volumi numerosi e grossi, che ho tutt’al più distrattamente sfogliato. Non ho niente (ci mancherebbe) da aggiungere a quello che è stato detto su quello che è stato fatto contro Beppe Grillo o Sabina Guzzanti; e non solo perché non conosco quasi nulla dei retroscena, ma anche e soprattutto perché è difficilissimo afferrare esattamente, coi satiristi contemporanei, quello che vogliono.
    Credo abbia loro nociuto, in particolar modo, un continuo oscillare tra la tentazione della comicità pura (la Guzzanti soprattutto) e il sincero sdegno, che ha portato inconsultamente uno stile, sia pure acciabattatamente, tribunizio a convivere forzatamente con la gag bien faite, &c. . In primo luogo, si tratta di personalità che devono per forza di cose parte ponderosa della loro formazione, e quindi della loro retorica, alla televisione; e la televisione non sembra favorire la mescidazione dei generi, inquantoché il suo stile comunicativo tende a porsi ‘di qua’ da ogni discorso minimamente organizzato, e quindi anche rispetto ad ogni mescolanza di tali discorsi minimamente organizzati tra loro. Non è affatto obbligatorio che Beppe Grillo o Pinco Pinchetta firmino con me un contratto in cui dev’essermi garantito che nella prossima mezz’ora riderò a crepapelle, ovvero che mi romperò maestosamente i coglioni; è un dato di fatto che si può passare dal riso al pianto alla riflessione a Xxx (anzi: avercene — e questo è proprio l’ufficio, in generale, della satira), ma bisogna saperlo fare.
     
    Credo ci si debba decidere bene, in primis, sul ruolo che si deve avere. Attore/imitatore o giornalista/opinionista o politico/predicatore, &c. Quello che si deve mescolare sono, semmai, i generi tra loro; non le arti e i mestieri.
     
    Quello che mi chiedo è: Che bisogno ha il male di essere smitizzato? E’ la mitizzazione del male l’aspetto che rende il male tanto malvagio? O sennò mi piacerebbe sapere qualcosa di più preciso. Un male grande e grosso diventa minore grazie all’understatement? A livello di esemplificazione, che vantaggio c’è/ci sarebbe nel rendere ridicolo un mostro, un mistificatore, un affamatore? Dal ridicolo alla simpatia il passo è breve. Siamo sicuri che è proprio quello che ci serve? E se ci serve, a che cosa serve? Serve a qualcosa di buono? Si capisce più precisamente, invece, che secondo te la satira dovrebbe avere una funzione di servizio tutt’affatto morale, e anche questo, tutto sommato, non è così fondamentale. Nel senso che la finalità può anche essere morale (in senso lato certamente), ma i mezzi non sono, affatto, l’edulcorazione e l’understatement. Il riso della satira è aggressivo, graffiante — ma persino, anche, insopportabilmente volgare, o addirittura immondo, come càpita spesso, per esempio, con uno che peraltro ci sapeva fare come Aristofane. Mi sembra che la satira come la vedi tu consista in una sorta di predigestione di bocconi troppo amari. Oggi, probabilmente, è così, e anzi sono abbastanza portato a crederlo; ma è leggermente umiliante la prospettiva del satirista che fa incetta degli errori/orrori altrui per ridurli in scala 1000:1 e, così ridotti, sottoporli infiocchettati all’attenzione del pubblico. La satira si salva se è un non tenerla più, secondo me.
    ***
    Quello che dicevo sulla satira ‘che non mi piace’ non può essere riferito più a questo che a quell’autore; non m’interessa nemmeno arrivare ad isolare questa o quell’opera, o questa o quella tipologia di satira che, secondo me, ‘non vanno’. Prima di tutto non è possibile. Secondo, sarebbe soprattutto inutile, perché a me interessa, in questo caso, focalizzare l’attenzione sull’intenzione originaria. Che nel caso di un genere fatto di generi diversi dev’essere assolutamente chiara, adamantina, qualcosa che vada diritto allo scopo. Quale sia lo scopo non importa; l’importante è che sia chiaro e definito. E’ un aspetto che vale per qualunque tipo di comunicazione, ma per la satira è fondamentale. Anche questo mio procedere col cervello a ciabatta, per esempio, è ‘satirico’ nel senso di satura lanx, ma di fatto non so sempre dove andrò a parare. Stile satirico è anche quello degli Essais di Montaigne, che sembrano discorsi a vanvera e invece non sono a vanvera affatto. Per converso, le Satire propriamente intese del Maggi sono espressione di confusione mentale, procedente forse da magagne morali insuperabili. La confusione mentale è la protagonista, per esempio, anche del Philander di Moscherosch, ma essa confusione è definita con tale lucidità che il romanzo è un capolavoro. Lo stesso era valso per i precedenti Sogni di Quevedo — è tutta letteratura ‘satirica’. Satirica, nel complesso, e perciò definita ‘Comedia’, è l’opera più importante di Dante. Il quale, come tutti gli altri meno bene di lui, si serve di tanti mezzi per trascendere una materia impervia com’è il significato della propria vita, e il giudizio di tutto quello che l’ha riguardata, da vicino e da lontano. Non è un’analisi, è il frutto di un’analisi (lucidissima). La satira è il genere non-genere delle opere più ambiziose che mai siano state scritte. Non può essere ridotta all’attualità giornalistico-televisiva, e non può nemmeno essere considerata come un puro fatto retorico di scomposizione e ricomposizione. La satira nasce quando la retorica, sotto pressioni inaudite da parte del sig. DevoDire, esplode. In fatto di satira politica dovrebbe essere così. Ma qui corre l’obbligo di capire se tale voler dire è in senso artistico o puramente ‘di servizio’, e quindi orientativo / indicativo / informativo. Se la bellezza rimane, nonostante tutto, la cosa da salvare, allora si può avere una satira bella; sennò si può avere, tutt’al più, qualche imitazione azzeccata, qualche barzelletta simpatica, qualche discorso convincente, ma niente a tenere insieme e a dare un senso a tutto questo.
    [Credo che un discorso sufficientemente approfondito sulla satira sia un grande antidoto all’idea perniciosa che le meccaniche legate alla comunicazione (dalla rettorica alle strategie comunicative) servano veramente a crearsi il ‘da dire’. Quello, come sempre, o si ha o non si ha — potrebbe essere un ulteriore spunto da sviluppare…].
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    CLIX. Fasti.

    3 Dic

    CLIX. Qui, dove ci si riferisce alla ‘prima edizione …in Internet’ dei Fasti, ci si riferisce a una vecchia fatica del sottoscritto per LiberLiber. (Ci sono anche varie citazioni da quello che lo stesso copiazzò a suo tempo).

    🙂

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    CLVIII. Prendendo spunto da quello che ho scritto l’ultima volta.

    3 Dic

    CLVIII. Il discorso sulla satira (dat che è diventato un discorso sulla satira) continua qui. La scrittura è tutta ‘di conseguenza’ rispetto alla realtà che rappresenta, volendo: prima viene la realtà, e di conseguenza c’è la scrittura, che tenta o di riprodurla o di ridefinirla in un senso o nell’altro. Ma nel caso della satira questo aspetto di dipendenza è ancora piu’ esplicito. Sotto il nome di "satira" si mettono diverse cose, oggi come oggi: attualmente la satira è identifica abbastanza strettamente con l’imitazione (a prevalente livello televisivo o generalmente spettacolare), che è la forma meno creativa di creazione; o con il giudizio in materia politico-sociale, espresso in maniera piu’ o meno spiritosa e/o aggressiva (questo sia a livello spettacolare che per quant riguarda la scrittura). Per quanto riguarda le origini, ci si rifà al satura tota nostra per dire che la satira (anzi satura, da satura lanx, "piatto pieno" di varie cose — stile ‘a grottesca’, capriccioso, &c.) è di origini tutt’affatto latine. Tralasciamo il fatto che il Settembrini (giustamente, stando a quello che anche la storiografia letteraria attuale tende a riferire) fa risalire anch’essa ai Greci, e a quell’Archiloco che con un carme uccise un amico traditore, che cos’è la satira? E’ composizione di materiali disparati, cioè necessariamente preesistenti, e non solo: riconoscibili come tali. Talune edizioni francesi di Molière riportano schemini che dimostrano come la tal scena dell’Avaro o del Misantropo derivino direttamente da questa o quella fonte antica o moderna; per certi versi è indispensabile saperlo, ma in ultima analisi non dice nulla rispetto al testo, se non a patto di considerarlo un passo indietro rispetto al procedimento molieriano, che consiste appunto nell’utilizzare quanto di meglio gli porge la tradizione per creare delle totalità in cui non si scorgono fratture interne. Teoricamente, invece, lo stile a satira è lo stile del pasticcio, e la sua precipuità deve risiedere proprio nella compositezza, nella vistosità delle fratture tra una parte e l’altra. Essa non è un genere autonomo se non in quanto è un genere per definizione misto e non identificabile con nessun genere in particolare. Da una parte il satirico è determinante per la contemporaneità perché prefigura e prepara quell’annullamento dei generi tramite l’ "impurità" massima, cioè la convivenza, idealmente, di qualunque genere in un testo solo; ma si pone, rispetto all’ideale contemporaneo, in totale discrasia per quanto riguarda il suo aspetto esibitamente composito, nel suo dover presentarsi come ammasso di frammenti di svariata provenienza. Non, quindi, necessariamente di un solo autore, di un solo e coerente gruppo di testi (anzi), &c. Nessuno può vantare di avere il monopolio di un non-genere come questo, perché ha poco di molto invidiabile, e troppo di poco invidiabile. Vedere la cultura romana come la conseguenza della cultura greca, forse, doveva portare ad esaltare un prodotto così tipicamente decadente — ma questo è un altro discorso.

    Dicevo: che cosa c’è di apprezzabile, in fondo, in quello che può dirci qualcuno che, piu’ o meno elegantemente, si fa beffe di qualcun altro? E’ vero che ‘non è giusto’, ma ci sono tante cose che non sono giuste eppure non sono meno belle. Poniamo, il talento è iniquamente ripartito tra gli uomini, eppure i frutti del talento, dato che talento ci sia, sono belli. Il fatto non è tanto che sia crudele, antipatico, al fondo volgare farsi beffe di altri, quanto il fatto che, come ho notato, difficilmente o mai ci si fa beffe di qualcosa che meriti una rispettosa attenzione. Normalmente, quello su cui è portata la nostra divertita o disgustata attenzione è realmente qualcosa in cui c’è molto che non va. Tutto sta in come ci si pone. La pietà consente un igienico distacco; il riso, o il sorriso, da Orazio al Bagaglino e oltre, porta a una forma di profonda immersione nel male (latamente) che si sta indicando, tanto, nei casi meno moralmente agguerriti, da fondersi completamente con esso. La satira in questa peculiare accezione è in effetti, normalmente, una forma di autofagia inconsapevole. Tutta la satira volgare che deversano gli schermi televisivi nei finesettimana non è altro che questo; ma è tutto il filone oraziano, anche illustre, ad esserne piu’ o meno intaccato. Questa è la satira che non mi piace.

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    CLVII. Tanto per scrivere qualcosa.

    2 Dic

    CLVII. Appunto. Nel senso che non ho niente di che da dire (scrivere), ma lo scrivo lo stesso. Niente di che retoricamente è una litote, la quale è parente dell’ironia, anche se l’ironia nella fattispecie può non esserci (ma noi postfreudiani senz’aver letto Freud, abituati a tre o quattro significati distinti a proposizione, che cosa cacchio possiamo saperne?); per l’appunto, si tratta di un rapporto di parentela, non di una sinonimia. La litote e l’ironia, dunque, sono solo parzialmente identificabili, e in particolare nell’esprimere un concetto tramite il suo contrario. La litote consiste in effetti in questo meccanismo; l’ironia è sicuramente ravvisabile quando si fonda su questo meccanismo, ma l’ironia non è un meccanismo, è un effetto. In quanto tale, può essere valutata (essendo, abbastanza pacificamente, di dubbissimo esito i processi alle intenzioni) solo in base al (mancato) raggiungimento dello scopo. Ciò che non è per nulla esatto, risedendo il bello dell’ironia proprio nel farsi scoprire il meno possibile dal diretto interlocutore.

    Ciò che può farne una forma di comunicazione prevalentemente ad uso terzi, quando non è ad uso interno — e allora serve a tacitare qualche cattivo demone interno, e qui si lambisce il codice morale — oppure ad uso del diretto interlocutore, ma a danno del terzo, meglio ancora se presente e in ascolto. L’ironia è una forma di comunicazione profondamente schizofrenica, che tende all’autismo e all’estroversione insieme. Usa il wit per farsi notare e insieme per nascondersi. Prevalendo, rispetto ad altre forme di comunicazione ambigua e volutamente involuta, può essere vista come la porta di servizio dell’enigma. Tutto ciò che va sotto il nome di enigma, gioco di parole, ironia, crittogramma &c. potrebbe essere definito come ambiguità. E’ ambigua ogni forma di comunicazione che insieme copre e scopre.

    Ma copre per coprire o per scoprire? Sta di fatto che, stando a quello che ho notato, ha scarsissime valenze euristiche: non rivela un tubo. Per questo i romanzi gialli, le istruzioni per l’uso e i verbali di polizia sono scritti in stile tanto piatto, o, come si diceva qualche tempo fa, ‘triviale’. Non solo, l’uso delle ambiguità è tanto più controindicato quanto più  si fa intenso: dato che almeno da qualche lettore svegliato e arguto deve pur essere capìta, quanto più si allontana dall’espressione comune tanto più necessita di ancorarsi all’ovvietà per quanto riguarda il concetto. E le ovvietà sono inutili; ed essendo inutili sono noiose. Ma tornando alla litote e all’ironia:  "Non è molto bello" può essere litote quando mi rivolgo a un commensale che ha sganciato un rutto da competizione dopo la degustazione delle îles flottantes, per esempio. Se invece mi trovo con l’interlocutore ad una mostra di fiamminghi e tra un "Guarda questo" ("Uh, che bello") e "Guarda quello" ("Uh, che bello") l’interlocutore mi fa voltare ad osservare un cestino della spazzatura rovesciato, e allora dico: "Non è molto bello", in questo caso c’è anche un’ombra di sorriso, e quindi dell’ironia.

    L’ironia è il principio fondatore della satira. Ci sono libri interi che sono fondati su un unico principio retorico. Ogni epoca (soprattutto moderna) ha prediletto un genere retorico, una figura di pensiero in particolare; il Quattrocento l’ecfrasi, il Seicento il contraposito, l’Ottocento l’entimema. I classicismi, invece, si fondano sull’ironia. Orazio è ironico. L’Ariosto è ironico. Ogni classicismo è fondato su una scelta schifiltosa della materia da trattare, dell’espressione con cui trattarla, del vocabolario e della sintassi da impiegare. Inquantoché ogni classicismo è fondato sul concetto di superiore e di inferiore, che è indispensabile ad operare una scelta dei materiali e degli strumenti migliori in senso assoluto.

    I più classici tra i classici sono superiori in ogni senso. L’opera di Orazio è espressione di superiorità assoluta. Nelle Satire è Orazio stesso ad essere al centro del discorso, e la prima e l’ultima cosa superiore che s’incontra è lui. Giovenale, che è barocco, si fonda sui contrasti violenti; anche lui sceglie (tutti scelgono), ma non le cose migliori o peggiori, ma quelle che più gli fanno male. La satira di Orazio è dall’alto verso il basso; sorride e non s’inquieta. La satira di Giovenale, smisurata, livida, macilenta, colorita come un circo e opprimente come un funerale di stato dell’antico Egitto, è una satira dal basso verso l’alto; Giovenale non solo s’inquieta, ma storce la bocca, rotea gli occhi, sguindola le braccia e ulula. Se si pensa che scrisse le sue satire, presumibilmente, tra i sessanta e i novant’anni, non doveva essere nulla di particolarmente civettuolo vederlo recitare i propri versi.

    Ecco, l’ironico Orazio, essendo superiore, può permettersi l’ironia. L’inferiore Giovenale, un uomo che rimase schiacciato dalla crudeltà dei tempi, può aver voglia solo di gridare dal dolore. Per fare in modo ("Ridi, e il mondo riderà con te; piangi, e piangerai da solo") di non passare inosservato, traveste il pianto da suo contrario (il sorriso rossiniano secondo il Settembrini, che lo interpretava come segno di virtù nel senso di manliness), sennonché il non voler far scappare nessuno non implica di fatto il desiderio di divertire qualcuno; e in più gli preme di veicolare le proprie ardenti passioni (patior); sicché non si decide né per il riso né per il pianto, ma li coniuga, e li fa vivere da separati in casa; ed essi, beninteso, cercano di sopraffarsi a vicenda. Per tratti più o meno lunghi l’uno può prevalere sull’altro, ma non senza che l’altro, a suo tempo, riesca a prevalere sull’uno.

    Ne nasce un contrasto profondo, che trova un suo difficile equilibrio nel sarcasmo, che è un riso che non fa ridere ed è un pianto che non commuove. Il sarcasmo è parente del grottesco — e "grottesca", composizione capricciosa di cose naturali e artificiali, accozzate in modo non da attenuare, ma da accentuare lo stridore. Uno stile (metastoricamente) barocco, appunto. Pieno di cose sordide, certo; ma è più sordido denunciare in qualche modo la sordidità delle cose sordide che si sono subìte o non, piuttosto, accennare alla sordidità non nocevole di chi sta peggio di noi, gettandole dall’alto uno sguardo privo di pietà, col fine di riderne e, ridendone, rinfrancarci nel nostro senso di superiorità? Il secentista autor del Leviatano identificava una fondamentale funzione del riso nel veicolamento del disprezzo; e il disprezzo può essere concesso solo a chi ha assoluta certezza del proprio destino. Eccettuando dal discorso le disgrazie indipendenti dalla nostra volontà, che sono relative eccezioni, il disprezzo, in una società come — sostanzialmente — la nostra, è facile essere certi del proprio e dell’altrui destino. Non so se mi spiego. Ora, ridere di un poveraccio, che per motivi suoi (quei motivi che magari si crede di conoscere, e che implicano sempre la sua diretta responsabilità, e forse si potrebbe anche accettare, in fondo) è il poveraccio che è (in senso economico, psichico, caratteriale, culturale e che so io), è, per se, una cosa accettabile? Prendendola dall’altro lato, siamo tutti disposti a fare quello che si deve fare per essere sicuri del nostro destino — e che alcuni fanno senza batter ciglio, altri con pena e sforzo, altri ancora con allegria, e ci pajono dei mostri? E’ possibile preferire, non dico a tutte le latitudini, un discreto durante a un miserando dopo? E fregarsene, quantomeno, sarà mai possibile? E pure il destino (la posizione, il prestigio, l’onorabilità), giusto per sapere, non potrebbe andarsene a fare in culo, alle volte mai? (NO, ovviamente, e so perché [l’eventualmente preferibile durante è crudelmente esposto alle intemperie, &c. &c. &c.] — e perché chiedo, dunque?). 

    Volevo spendere parole sul fatto che in questi tre giorni ho fatto un po’ di volantinaggio; & guarda te dove sono andato a finire.

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    CLVII. PISPA MALEDETTA.

    24 Nov

    CVLII.

    PISPA

    MALEDETTA,

    PERCHE’ MI HAI LINKATO?

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    CLVI. Comune e originale.

    23 Nov

    CLVI. Se qualcuno si rivolge a me per avere (è capitato, prevengo: basta colle pernacchie) una serena opinione su quello che ha scritto, di norma sono molto gentile; non dico peste e corna e se qualcosa non mi piace lo nascondo persino a me stesso. Ormai un anno e mezzo / due anni fa, ho avuto un’amica di rete, una di quelle conoscenze del tutto superficiali che si risolvono, normalmente, in una serie di conversazioni a zucca vuota per telefono. Infatti, doveva finire, esaurendosi naturalmente, in questo modo. Ma dal momento che costei abitava a Torino, o nei dintorni (e forse abita ancora, non posso saperlo e nemmeno m’interessa), venendo io a Torino, l’ho poi effettivamente, de visu, incontrata. Una volta in tutto. In capo a qualche mese ha superato la fase della scrittura come una specie di malattia dell’adolescenza mancata, e i miei rapporti con lei si sono definitivamente sfilacciati.

    Per telefono appariva come apparve poi di vista. Carina, gentile, piccina, comprensiva e garbata. Molto a modino, non particolarmente brillante né desiderosa di esserlo. Impiegata, all’epoca, col mutuo da pagare, un ragazzo, e piri piri. Niente di che.

    Ma ancora al tempo delle telefonate mi inviò, a scopo sereno parere, un suo racconto, diviso in capitoletti, dedicato a una storia discretamente brumosa, di cui posso ricordare pochissimo, se non i personaggi principali, un uomo che sonava la chitarra per le strade, la sua donna e il frutto dell’unione, un bambino chiamato "Dio"; si parlava di vite buttate in mezzo alla strada, senz’alcuna tragicità, e del desiderio di andare a Parigi. Il tutto in termini piuttosto confusi; ma l’atmosfera che si respirava era per me sorprendente, anche se non in senso positivo, nella sua lassitudine polverosa, nella soporosa sordidità, nella sua sfasciatezza amorale. Insomma, quella stessa atmosfera che avrei respirato (senza nessunissima voluttà) di lì a non molti mesi. Non perché io mi sia più che pria sfasciato in alcunché, ma perché era sfasciata l’umanità che mi circondava (e mi circonda). Ho dato qualche indicazione tecnica (voleva, infatti, procedere, riconcependo la struttura del pezzo), piuttosto generica (come sempre quando il pezzo sottopostomi non vale una cicca), sorvolando sull’effetto fastidioso che m’aveva fatto quella prosa-pitone, ammorbata e floscia. Questo perché, come ho detto, sono un ragazzo gentile, che non dice quello che pensa se non quando non è richiesto (se non quando è decisamente controindicato).

    Ancora più sorprendente, dopo avermi ammannito quel piccolo hors-d’oeuvre di squallore, la mia amica-di-telefono-e-chat mi esortò: "Dimmi, soprattutto, se ti dà l’impressione di qualcosa di comune. Io non voglio essere comune. Io ho questa paura: quella di essere comune". Ecco, ho pensato.

    Dunque, la prima volta che la incontrai andai ad aspettarla all’uscita da lavoro, e poi, incamminandomi con lei ebbi modo di scambiare quattro serene chiacchiere circa il mio (!!!) e il suo futuro, progetti e mezzi progetti, e altre amenità. E poi è bello vedersi in faccia, uscendo da questo cerchio di conoscenze di chat-e-forum, così distanzianti (non è vero una cippa, anzi è vero il contrario, ma seguo l’andazzo anch’io). Ebbi dunque modo di vedere che era una signorina brunetta, piccina, ricciolina e graziosa.

    Questo per quanto riguarda il primo incontro. Quando invece si trattò di vedersi la seconda volta andai ugualmente ad aspettarla all’uscita dal lavoro. Lavorava presso un’assicurazione. Mentre aspetto davanti alla soglia, mi vedo passare davanti una brunetta ricciolina, molto graziosa e piccina, che sfreccia via nonostante, l’ho notato senza tema d’errore, mi abbia ben visto in faccia. Il fatto che mi avesse visto e che non avesse dato segno di vita mi ha fatto dubitare seriamente che fosse lei, frenandomi dal rincorrerla — per mia fortuna, perché infatti non era lei. Beh, mi sono detto, non sono mai stato molto fisionomista. Pur col dubbio di essermela lasciata scappare sotto il naso (un po’ tormentandomi perché la signorina non s’era fermata — che fosse lei e fosse arrabbiata con me per qualche motivo? che non mi voglia parlare perché sono brutto e puzzo? che tema le voglia chiedere dei soldi?), sono rimasto in osservazione, infondendomi un briciolo di fiducia del tutto surretizia. Quand’ecco un’altra signorina, una brunetta ricciolina, piccina e graziosa, mi sfreccia davanti. Questa, però, non mi aveva visto; sicché ho alzato il braccio, e ho fatto due passi verso di lei che, datemi le spalle, stava andandosene a passo spedito; e ho, pure, detto la prima parte di "E(hi!)", frenandomi, tuttavia, sùbito. E ho fatto benissimo, perché, insomma, non era lei. La presente signorina ha infatti inforcato una motoretta e ha ronzato via, sparendo in un baleno alla vista; non poteva che essere la prova provata che non si trattava affatto della mia signorina brunetta, piccina e graziosa, essendo che la mia mi aveva detto che si faceva portare a casa con la macchina, dal suo ragazzo. Dunque, non era ancora uscita. Mi sono di nuovo posto in osservazione, scrutando con grande attenzione lo sciamare un po’ pigro degli assicuratori e dei tecnici dalla grande porta a vetri. Alla terza signorina brunetta, piccina e graziosa, non mi sono fatto fregare: era, infatti, abbastanza piccina, ma la mia signorina brunetta, piccina e graziosa era decisamente più nana di questa. Quando, del tutto fortuitamente, i suoi occhi incontrarono i miei, vi lessero Non mi freghi, a chiare lettere. La falsa signorina se ne andò perplessa. 

    Ma a questo punto, nonostante dovessi compiacermi con me stesso per uno spirito d’osservazione che non mi conoscevo, non ce l’ho fatta più, sono andato alla guardiola e ho chiesto a due signori in divisa (un uomo pelato coi baffi bianchi e una signora colla permanente) dietro il vetro: "Mi scusino, per caso oggi è venuta al lavoro XXxxx Yyyy?".

    Hanno telefonato di sopra, molto cortesemente. "Guardi", mi dissero, "dovrebbe essere già scesa, perché sopra non c’è". "Capisco", ho sospirato. E poi, speranzoso: "Voi di vista, magari, la conoscete?…". "Oh, sì", ha risposto la signora, del tutto inaspettatamente, "aspetti che gliela descrivo: è una signorina brunetta, piccina, ricciolina, graziosa…". "SI’!", ho gridato. "E’ lei, è lei! Allora, l’ha vista?". "Sì, sì", ha detto, ma impensierendosi. "Però un quarto d’ora / venti minuti fa…". "Oh", feci, deluso. "E’ quella con la motoretta", ha precisato, con sicurezza. "Ma…". "Ah, no!", si è illuminata, guardando un punto dietro le mie spalle. "Guardi! La vede?" Mi volto, e vedo che è spuntata dal corridoio una signorina brunetta, piccina, ricciolina e graziosa. Ma ad un’attenta analisi, tendendo per bene le corde degli occhi, aveva il culo leggermente troppo grosso, e il collo un po’ corto per poter essere la mia signorina brunetta, piccina, ricciolina e graziosa. "Non è lei", ho detto, sconsolatamente, dopo una breve esitazione (non si sa mai). "Allora era quella con la motoretta", ha concluso la signora colla permanente, "lo so per certo". "No", ho negato, pertinacemente, "non è lei. Quella signorina brunetta, piccina, ricciolina e graziosa differisce dalla mia proprio per il particolare della motoretta: la mia signorina brunetta, piccina, ricciolina e graziosa si viene a far prendere dal ragazzo". E’ parsa sinceramente dispiaciuta. "Mi dispiace", ha detto infatti. "Aspetti, comunque", ha soggiunto, animandosi. "Evidentemente non è ancora scesa, farà gli straordinari". "Ma di sopra hanno detto che non c’è!" ho contestato io. "Be’", ha pensato la signora con la permanente, pietosa, "potremmo cercarne un’altra, in fondo…". "Non voglio", ho detto, denegando con forza, mentre la voce cominciava a tremarmi "io voglio la mia!". La signora con la permanente ha guardato il signore coi baffi bianchi, che per tutto quel tempo aveva studiato la mia pietosa mise di neo-straccione. Il signore coi baffi bianchi ha, a quel punto, preso la parola e mi ha chiesto, con tatto: "Signore, mi scusi se mi faccio gli affari suoi, ma lei ha un recapito telefonico di questa signorina brunetta, piccina, ricciolina e graziosa?". "Sì", ho detto, e gliel’ho dato (non avevo un centesimo in tasca, ovviamente, e non avrei mai potuto telefonare senza intercessione). "La chiamo io", ha detto.

    Il telefono ha squillato un sacco di volte, ma alla fine la mia signorina brunetta, piccina, ricciolina e graziosa ha risposto, dopo le frasi di riconoscimento: "Da dove stai chiamando?" Ho spiegato brevemente la situazione, &c. &c., che ero lì sotto, che la stavo aspettando, che se doveva fare gli straordinari non c’era problema, l’aspettavo ancora…

    Insomma, è saltato fuori che lei per la verità lì non c’era, inquantoché si era licenziata una settimana prima, e bello è che me l’aveva anche detto; solo che io o non avevo capìto o m’ero dimenticato. Non l’ho più vista e non so più (o non ho mai saputo) dov’è andata a finire. Comunque posso attestare che la KKKjjj XXxyy Assicurazioni non è rimasta a corto di brunette.

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    CLV. Gli uni, i pochi, i troppi.

    22 Nov

    CLV. Non più di recentissimo (ma ha importanza riferirsi a questa o quella circostanza, a questa o quella affermazione del sig. Tazio o del sig. Semprinio? Càpita così spesso di sentir dire qualcosa del genere) ho letto su un blog che ha parti non spregevoli ed altre spregevolissime la frase: "Io sono solo io", o roba del genere.  Poi, dai commenti, veniva fuori che si trattava di una citazione — ma è una di quelle cose (appunto) che avrebbe potuto dire chiunque. Questo è un grosso problema; quello delle citazioni, intendo dire. Ci sono le frasi, le parole qualunque messe in bocca a personaggi non qualunque; a quel punto, un punto non qualunque, assumono un peso, un’importanza, delle implicazioni e sfumature particolari. Poniamo, Cambronne che grida merde ha un significato; merde può averlo detto qualunque incvoyable, qualunque ignorante aristocratico decaduto, persino Robespierre potrebbe averlo digrignato, nell’impazienza. Che lo dicesse Cambronne è destabilizzante, ergo significativo. Poi ci sono le citazioni in sé significative; ovvero, il pronunciatore della frase ha sintetizzato il significato della propria opera ed esperienza in quella determinata frase, che pertanto può essere considerata una specie di porticina d’accesso, o la chiave della stessa, una piccola "guida", insomma, utile ad ogni più estensiva esplorazione di quel dato pensiero, di quella data esperienza, di quella data storia. Esempio: Lamarck che dice "In natura nulla si crea e nulla si distrugge, &c.". Tra gli esempi di citazioni disfunzionanti devo citare le due ultime citazioni fatte in mia presenza, per mie ragioni censuarie assai distanti tra loro nel tempo. La prima diceva grosso modo che le parole sono state inventate per spiegarsi, però il più delle volte servono a creare ancora più diaframmi e confusione; attribuita a Buzzati. "L’ha detto Buzzati", m’è stato chiosato, con la massima serietà. Prima che scattasse lo sticazzi di prammatica, ecco la controchiosa: "… che non era un cretino, mi sembra". Imprecisioni a raffica, ovviamente: Buzzati (teste Montanelli) ERA un cretino, ciò che non gli impediva di essere anche un genio, ma questo è un discorso lungo e qui potenzialmente fuorviante. Secondo: l’epifonema è un falso paradosso. E’ scontato che le parole, essendo il più capace e in fondo l’unico strumento di comunicazione tra gli uomini, servano sia a svelare che a nascondere che a deformare. Nessuno si chiede seriamente se "con le parole" sia possibile mentire, o manipolare; è una cosa che accade continuamente. Ma la frase ha (o aveva; non mi ricordo la forma esatta) una sua dignità esteriore, sufficientemente epigrafica; e può essere detta, e riciclata. Sennonché c’è un problema. Che una frase del genere potrebbe averla detta chiunque. Senza (dicendola) apparire necessariamente più profondo o più intelligente di quello che è, peraltro.

    La seconda citazione era un indovinello-trabocchetto, nel senso che mi è stata offerta in forma di domanda, maieuticamente: "Ti ricordi chi ha fatto un lungo encomio della foglia?", intesa come la foglia d’albero (mumble mumble… la foglia, perfezione della stessa e sue nervature; Fibonacci? Un poeta marinista? Sinesio di Cirene?). La risposta: "… Kant". La controrisposta: "Ah". Ovviamente, inutile chiedere dove Kant elogiasse la foglia e in che termini. Può darsi che l’encomio della foglia sia al top della popolarità, tra i lettori appena più informati di me, ma io non ne ho mai sentito parlare. Ma non importa, qui, rilevare la mia solita ignoranza, quanto il fatto che l’idea di un encomio della foglia sarebbe potuta venire, e verosimilmente è venuta, a un numero variabile tra i tre e i cinquecentomila scrittori dall’inizio della storia del mondo ai giorni nostri, includendo filosofi, botanici, poeti, matematici e altre due o trecento categorie e specie, dentro e fuori, sopra e sotto la letteratura propriamente intesa. Una citazione può essere a indovinello, palese, nascosta, composta o in ensalada con altra/e, tutto quello che si vuole, ma 1. deve essere precisa; 2. non deve essere qualcosa che chiunque avrebbe potuto dire.

    E’ chiedere troppo? Credo di no. Ma non è questo il punto.

    Il punto è che non riesco a spiegarmi troppo bene come mai un individuo raziocinante, per affermare la propria orgogliosa unicità (ergo superiorità; a differenza di un individuo raziocinante ma sfigato che affermi la propria diversità, ergo inferiorità), ricorra alla frase di un altro. Secondo logica, dovrebbe essere (quantomeno) due. Più tutti quelli che hanno eventualmente fatto la stessa citazione, servendosene con finalità analoghe. Dal che si inferisce che è assai difficile, nel complesso, dire in quanti si è. Ma anche in quel caso, ahilui, non era solo. Era solo uno dei molti segmenti di un grosso stronzo. Come tutti, probabilmente.

    (…)

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    CLIV. Dal post precedente.

    20 Nov

    CLIV. A differenza delle germaniche e della greca, dalla quale si può tuttavia rubacchiare, le lingue romanze hanno serie difficoltà a creare composti. Non se ne dovrebbero coniare, essendo le singole parole tonde come ciottoli levigati dall’acqua, e quando se ne fanno, di norma, fanno schifo. Passi il roseodigita, ma gli allusivi trovati dal faticoso Foscolo per gli dèi omerici sono spaventevoli (bianchibraccia, per es.). Cose come leggiadribelluccia tarano irrimediabilmente il ditirambo del Redi. Cose così. Insomma, fanno schifo.

    Nel post precedente, che voleva essere scritto in italiano e non in tedesco, c’è scritto tra l’altro: … del poema di un solo autore più lungo della storia umana. Dove più lungo si riferisce al poema, non alla statura del p. Brien, che non ho mai conosciuto personalmente e che non sarei in grado di disseppellire, almeno al momento. S’intendeva, insomma, riferirsi al poema di-un-solo-autore più lungo, &c. Come si può dire? Adespoto si dice di uno scritto senza autore specificato (da non confondersi con acefalo, che è uno scritto rimasto senza titolo, per un motivo o per l’altro); monodespoto si potrà dire? (Qualche filologo si sarà mai posto il problema? Esisterà un’espressione del genere, o qualcosa che l’equivalga?). ((Perché sono così ignorante, mio dio?))

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    CLIII. Il Prométhée del p. Brien.

    20 Nov

    CLIII. Il québecois p. Brien, di cui si parla anche qui, non capisco bene se francescano (quasi certamente no) o serafino, ha per l’appunto scritto il poema con un solo autore più lungo della storia umana, Prométhée, dialogue entre les vivants et les morts (4 voll., 1965). Ora, credo di essermi sbagliato: non sono 460.000, dovrebbero essere 490.000 or so. In rete si incontrano alcuni suoi versi, riccamente rimati, tutt’altro che spregevoli. Il restante della sua produzione, se ben ricordo, superava i 500.000 versi. Nuovo Zoroastro, avrebbe dunque scritto circa un milione di versi (riuscendo peraltro a farli pubblicare e quindi, almeno in minima parte, a leggere — che non è poca cosa).

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    CLII. L’Anfiosso in versi 2.

    20 Nov

    CLII. Qui, invece, c’è il bando di un concorso chiamato "Premio Anfiosso", per la poesia, a cura di un’associazione culturale ("Amici della cultura") della città di Giulianova. Il bando è vecchio, ma il concorso dev’esserci ancora, credo, perché è citato nel sito del Comune di Giulianova, e c’è uno (che poi è l’on. Mannino, presidente del consiglio comunale di Roma) che ha vinto l’edizione dell’ottobre 2001.

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    CLI. L’Anfiosso in versi.

    20 Nov

    CLI. Qui si trova una poesia dedicata all’ANFIOSSO, con relativa discussione circa la precisione scientifica (lirica, quindi?) della stessa. Può parere una stronzata, ma effettivamente lo è.

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    CL. Sono

    19 Nov

    arrivato a centocinquanta.

    Ho visto l’ultimo Guinness dei primati. Tempo fa (almeno fino al ’98, o ’99, chissà di quand’era) era ancora una lettura vagamente regressiva, ma appunto per chi era materialmente possibilitato a regredire, cioè per gli adulti. Hanno tolto tutta la parte letteraria, parlano solo delle vendite della Rowlings. Volevo tanto sapere se qualcuno era riuscito a battere il record del p. Roger Brien (classe 1904, se non erro), Prométhée, dialogue des vivants et des morts, 460.000 versi.

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    CXLIX. Volevo

    19 Nov

    andar per blogs, e lasciare commenti qui e là, ma oggi mi sento freddo anche in Rete. M’è in uggia, il freddo, di questi giorni. Me ne sto qui. Ci sono gli spifferi e c’è troppa polvere, ma è meglio che uscire.

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    CXLVIII. Stanotte

    19 Nov

    ha brinato. E io ho corso il rischio (per fortuna sventato) di dormire fuori! Chissà come sarei stamattina, se mi fosse andata male.

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    CXLVII. Scrittura e morale.

    19 Nov

    Sarò brevissimo, anche perché quello che ho da dire è poco, chiaro e totalmente apodittico. Si è insistito un mondo (è stata una moda del ‘900, credo) sul fatto che per essere un grande scrittore non si debba essere brave persone. E si è detto che Dostoevskij aveva i debiti, e che Tolstoj andava a donne, e che Andersen si faceva le pippe e che il Settembrini era dall’altra sponda, dimenticando bellamente che tutti questi NON sono peccati. Poi si è fatto un salto oltre, e si è detto decisamente che il grande scrittore DEVE essere uno stronzo. Di qui i surrealisti, e Bataille, e, retrospettivamente, anche il doux Racine che si prendeva a bottigliate in testa con i compagni di sbronza nelle bettole, e il favoloso La Fontaine che abbandonò la famiglia per i deux pigeons — nessuno si è salvato, tutti figli del diavolo, tutti malintenzionati. [Giordano Bruno accoppò un frate buttandolo nel Tevere? ‘Ecco, vedi che fu un mostro anche lui?’ No; in realtà fu un santo. Avrebbe dovuto accopparli tutti.]

    Ne ho già parlato. In realtà, è vero che la spregiudicatezza paga, in ogni campo e quindi anche nella scrittura. E’ una grande scorciatoia, permette di arrivare velocemente laddove la rettitudine pena e si attarda. Ma sui tempi lunghi si rivela un pessimo espediente. Scava scava, bisogna metter via per la vecchiaia; e saper, per l’appunto, invecchiare, e morire. Se vuoi arrivare a fondo (non necessariamente per essere grande, ma quantomeno per essere puro, o più puro, o più puro che sia possibile), non puoi aggirarlo: l’aspetto morale ti si para sempre davanti.

    [Anche l’omissione è peccato. Non è vero che chi non fa non falla].

    [[Mumble mumble]].

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    CXLVI. Dato che prima

    19 Nov

    www.anfiosso.splinder.com non funzionava, ho aperto un altro blog, precisamente identico, denominato www.anfiosso.blogspot.com. Non c’è scritto niente, chiaro, ma mi serve (forse) di riserva.

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    CXLV. Come dicevo,

    19 Nov

    il pezzo sui barbù è grosso modo finito. Ci sarebbe tanto da aggiungere, ovvio; ma datosi che ci sarebbe anche tanto da togliere, perché non lasciare tutto così com’è (ma a me, in fondo, che cosa ca**o me ne fr.?).

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    CXLIV. Non ho voglia,

    14 Nov

    per il momento, di continuare a copiare. Mi tedia terribilmente. Ripasso piu’ tardi.

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    CXL. Contropeterie.

    9 Nov

    CXL. Mi par mill’anni di essere lontano dalla Rete.

    Comunque, non era questo il punto.

    La contrepèterie, nota in italiano o così o nell’adattamento contropeteria, è un gioco di parole molto diffuso in francese, tanto che ne sono stati raccolti interi volumi, tra cui figura monumentalmente quello pubblicato da Laffont in anni non lontani.

    Consiste in una breve frase, ma perlopiù senza verbo, formata (perlopiù u. s.) da un soggetto e un complemento; scambiando tra loro le iniziali dei due sostantivi esce qualcosa di ben diverso — solitamente osceno.

    Non esiste una definizione non infranciosata (contropeteria, appunto) del gioco, e pare che in italiano se ne possano formare, con un po’ d’applicazione, pochini. In francese le abbondanti possibilità offerte dall’involontario in senso contropeteristico dimostra una chiara vocazione della lingua a formarne, invece.

    Esempio italiano, sentito oggi [ma quasi sicuramente non per la prima volta, vai a ricordare] (varrà anche da esempio):

    Mazzo di Carte / Cazzo di Marte.

    Esempio perfetto, essendo il primo ‘termine’ innocente, mentre il secondo è osceno.

    Ma non è un gioco molto divertente, mi sembra. Dipenderà, forse, dal fatto che è in italiano?

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    CXXXVII. Edward Gorey.

    7 Nov

    CXXXVII. Nel romanzo dell’Oulipista Jacques Roubaud (Il rapimento di Ortensia, trad. Stefano Benni, Feltrinelli 1987) l’Ortensia del titolo ha una figlia che si chiama Carlotta. Invece della Hapless Child di Edward Gorey è protagonista una bambina di nome Carlotta che ha una bambola di nome Ortensia. Confesso inguenuamente di non sapere che cosa c’è a monte.

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    CXXXVI. Decisamente mi sto perdendo il meglio della vita.

    7 Nov

    CXXXVI. Leggendo Metro, oggi, alla pagina della televisione (14) vedo una foto che rappresenta una donna vestita di bianco e un vecchio vestito di bianco; la didascalia dice: Maria Callas scopre di aspettare un bambino da Ari, ma al momento del parto… (Callas e Onassis, Canale 5, 21.00). Oh. E chi poteva immaginarsi una cosa del genere?

    (Come piccola giunta [il post è magro], rubo una delle foto piu’ brutte che mai siano state scattate alla Callas: prego notare come la mano del comm. Meneghini stringa sensualmente quella di Onassis).

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    CXXXV. Una persona che mi è tornata in mente.

    5 Nov

    CXXXV. Martedì 1, mentre sciupavo gli ultimi minuti di connessione cercando (senza nessuna nostalgia) nomi di parenti ed ex-conoscenti con google, mi è venuto in mente un nome-e-cognome di persona a me nota che, quella sì, se tutte le speranze allora coltivate sono state esaudite, dovrebbe ragionevolmente trovarsi in Rete.

    Infatti l’ho trovata, anzi, è venuto fuori un sacco di roba. L’ho conosciuta ormai parecchi anni fa, a un osceno corso di teatro, ricordo in v. s. Giorgio, a Bergamo. Ha fatto carriera; l’ultima notizia che avevo avuto di lei risale all’ultimo anno (per me) di liceo, quando un conoscente comune mi ha detto che non era passata a un provino al Piccolo teatro di Milano — una notizia che, per motivi che per il demotivato sociopatico che ormai sono non possono non essere diventati del tutto oscuri, al tempo mi diede una certa soddisfazione; si deve sapere che detestavo cordialmente (=con tutto il mio cuore, chissà perché la gente ci legge un ossimoro) Strehler e tutta l’atmosfera da Piccolo teatro di Milano.

    Ci sono poche fotografie, in nessuna delle quali è particolarmente riconoscibile (quelle di scena, ovviamente), a parte una, che la mostra eccessivamente magra e segnata; ma nel complesso è la faccia che mi ricordavo.

    Per un certo periodo, aveva sempre dietro con sé il volume dei tragici greci regalatole dalla sorella. Nei momenti subsecivi (le serate erano lunghe, e gli istruttori faticavano a mettere il tempo a frutto) si metteva in un angolo, senza aver l’aria di emarginarsi particolarmente, e leggeva.

    Si faceva ‘lezione’, se lezione si poteva chiamare (apposta ho messo le virgolette), in un auditorium appartenuto alla chiesa, o che la chiesa aveva dato in affitto, o come altro fosse — sono tutte cose che non posso assolutamente ricordare, e in più non me ne importa niente. Una sera, a teatro praticamente vuoto, le si diede una pagina da leggere come esercizio di riscaldamento; era stato scelto qualcosa di Sofocle (!), se non sbaglio; ricordo solo, purché ben ricordi, che non si trattava dell’Edipo; e non ricordo, né bene né male, altro.

    Mentre l’interlocutore diceva con chiarezza poco risonante le sue battute, per non disturbarla, benché non fosse lì a farle da spalla, **** **** cantillava, come, i suoi versi, con una precisione musicale sbalorditiva. Al clou fece una cosa che per pudore definirò particolarissima: oscillando leggermente sulla persona, battendo o come battendo i piedi a terra, evocò il ritmo originario, la matrice del verso, come pulsazione e battito; lasciato scorrere velocemente il clou, lasciò smorire tale pulsazione, proprio come fanno le incudini del Rheingold. Andrebbe quasi quasi fatto presente che il Settembrini stigmatizzò le frequentissime, anzi regolari, inarcature del verso nelle tragedie dell’Alfieri, poiché i Greci dovettero declamare con una specie di cantilena, sennò non avrebbero scritto in versi. Ciò che non autorizza a pensare che si possa immaginare un Alfieri in prosa, ma questo è tutto un altro paio di maniche.

    Ricapitolando: le incudini del Rheingold, "c’est un génie" riferito alla Pasta, quello che "trasaliva" sentendo la Ristori declamare in greco (ciò che **** ****, fortunatamente, non fece, in primo luogo perché ignorava il greco; punto secondo, mi lusingo di pensare, perché non l’avrebbe fatto comunque), la de Hidalgo che alza la mano sigarettata e scandisce in cordovain: "je me suis dite: çà c’est quelqu’un", e insomma tutto ciò che formava il lacertume d’apoftegmi e memorabilia e frasi celebri che inzeppava il mio trovarobe di bovarista provinciale, unitamente all’inorridirsi del pelo del coppino e alle lacrime affioranti, e a quella smania di acclamare che forse è una forma d’invidia distruttiva: tutto questo, in un nanosecondo, ebbe modo di sopraffarmi.

    Faccio presente che all’epoca sapevo molte meno cose delle pochissime che so oggi; ma il mio gusto era assai più sorvegliato, e la mia sensibilità aveva nell’esulcerazione la sua norma.

    Nel tempo **** **** si è variamente erudita e armata di conoscenze; è anche drammaturga, volendo, avendo scritto e rappresentato una pièce in collaborazione con la stella di una fikscion televisiva; si tratta di un tema, dal mio punto di vista, scarsamente appetitoso, come quello dell’anoressia (chiedo scusa per il bisticcio osceno, ma scrivo currente digito); un tema poco artistico su cui ognuno ha il diritto di fare arte, o analisi pubblica, a sua posta. Ha recitato, ovviamente, parecchio; le critiche che s’incontrano in Rete sfiorano talvolta l’entusiasmo.

    Aveva un’aria falsamente introversa, all’epoca; voglio dire che quello che le mancava, a parte esperienza e tecnica e quant’altro, era il gesto. Sembrava impacciata nei movimenti; in realtà, molto più prosaicamente, non sapeva che farsi delle mani e delle braccia. Questo era il suo stato dell’arte allora; per dire che era proprio l’aurora. Ovvio, non so dove si possa imparare alcunché sul gesto (non ho indirizzi precisi né voci pervenute), ma sicuramente non poteva impararlo lì!

    Ecco, se mi è servito a qualcosa, conservare questo ricordo, è proprio a questo: l’ho vista allo stato, diciamo, grezzo.

    Non l’ho mai più vista, se non in un dramma-collage di diversi drammi di Blok. Era uno spettacolo, si può dire, corale; ricordo solo che sembrava la protagonista, ma nient’altro; segno che era proprio uno spettacolo corale.

    C’era, per quanto potessi (possa non posso dire) augurarmi di vedere un giorno, potendo sognare in grande, dall’interpretazione di un’attrice, già tutto quello che occorreva. Ciò che non mi è capitato vedendo o cogliendo al volo interpretazioni di altre attrici; ma qui, devo dire, corre anche l’obbligo di far presente che si era a Bergamo, e forse anche lei, non so quanto consapevolmente (non eravamo amici e non ci siamo parlati spesso), subiva l’influenza di modelli, non specifici, ormai impolveriti — quell’Ottocento che portava anche nel volto, come già detto.

    Non sono mai, mai andato a cercare quella inutilissima cosa che si chiama ‘teatro di prosa’, ma non sempre ho potuto evitarlo. Sono tentato di essere sicuro di una cosa: che se si fosse prodotto qualcosa di simile, nel mondo in cui non posso non essere immerso, ne sarei venuto a conoscenza. Ma poi mi dico che tante, troppe cose sono cambiate. E poi, nel frattempo, io sono andato in macerie; posto che lei fosse proprio quella che mi pareva allora, che cosa m’impedisce di credere che non sia avvenuto altrettanto di lei? Certo non è impossibile; ma in fondo, io, che cosa ne so?

    Verso aprile sarà a Torino, dove forse la vita teatrale dev’essere più ricca che in altre città, con il suo spettacolo — credo, almeno: dovrei verificare, ma non posso aprire altre finestre. Il tema non m’interessa e poi potrebbe essere una sortita meno interessante di tante altre. Quasi certamente non ci andrò (pigrizia o viltà [l’ho tirata fuori solo per mettere qualcosa accanto alla pigrizia, in realtà andava bene qualunque altra cosa] non so), ma è una specie di scadenza che credo terrò da conto, magari fino al momento di farla trascorrere senza essermi mai, nel frattempo, deciso.

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    CXXXIV. Anni Sessanta.

    5 Nov

    CXXXIV. Qui a Torino la vita sembra essersi fermata, sotto tanti aspetti, agli anni Sessanta. Insegne pubblicitarie, manifesti, slogan sono spesso ornati di ingiallitissime rimette. Talvolta è un ‘effetto anticato’ voluto, come — poniamo — fuori dalle botteghe di rigattiere, che, chissà perché, devono sempre ricordare Dickens (o i campanelli delle Botteghe Misteriose ["Suonate, e vi sarà aperto!!!", tra il Signor Evanescente, Mary Poppins e i romanzi di Bellairs). In altri casi il ricorso alle rime è proprio fuori luogo. L’iniziativa "To&Tu", che non ho capìto bene che cosa sia precisamente (ma col cacchio che indago) è rivolta ai giovani, e si pubblicizza appunto con vecchie fotografie degli anni Sessanta (o con nuove fotografie di giovani particolarmente démodé), ed è cincischiata di motti che sembrano roncigliati dal Tesauro, ma da uno scolaro particolarmente ripetente. L’effetto è, esteticamente, qualcosa di devastante. Davanti a me, per es., c’è un manifesto della "Campagna per la donazione di organi e tessuti" (patronato del Comune di Torino, sponsor ACTL, ADMO, AIDO, Ass. It. Trapiantati di Fegato, ANED, Gruppo Assistenza Ustionati); il menno slogan è DONAZIONE CHE PASSIONE, e la figura rappresenta una fila di antropoidi tutti colle braccia alzate (le mani in alto, segno di resa di fronte al bisturi?), che ricordano dei lenzuoli stesi (già fantasmi? o corpi svuotati di tutti gli organi interni, altruistici sacchi vuoti in nome della PASSIONE espiantatoria?).

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    CXXXIII. Noticina a margine su

    5 Nov

    CXXXIII. E’ la traduzione di La littérature potentielle (créations, re-créations, recréations), Gallimard, Parigi 1973; in it. La letteratura potenziale (creazioni, ri-creazioni, ricreazioni), edizione italiana a cura di Ruggero Campagnoli e Yves Hersant, ed. CLUEB via Marsala 24 40125 Bologna, 1985 — introvabile secondo Giampaolo Dossena che ne dà notizia (La zia era assatanata. Primi giochi di parole per poeti e folle solitarie, Theoria, coll. "Confini" n°5, Roma-Napoli 19881; p. 87); cit. anche nella bibliogr. di Stefano Bartezzaghi, Lezioni di enigmistica, ill. di Gabriella Giandelli, Grandi Tascabili Einaudi n° 868, Einaudi, Torino 20011, p. 282). Sarà, ma l’ho regolarmente trovato alla Civica. Alle pp. 258-265, "Poesie con metamorfosi per nastri di Moebius", si propone il seguente gioco: "Utilizzando il classico nastro a una sola faccia e a un solo bordo, è possibile, grazie a semplicissime manipolazioni, far subire a una poesia delle trasformazioni che ne modificano il senso in modo spettacolare e curioso". Segue una laboriosa serie di indicazioni: prendere un nastro di carta molto lungo, scrivere metà di una poesia su una faccia, l’altra metà sulla faccia opposta, poi far subire al nastro una torsione di mezzo giro ed ecco che vien fuori una terza poesia, di significato contrapposto alle due originarie. Data una I metà "Sgobbare senza posa, / Per me, è una gran cosa / Non posso stare in pace / Il lavoro mi piace" e una II "è una vera agonia / il tempo buttar via, / e soffro in abbondanza / quando sono in vacanza" si ottiene "Sgobbare senza posa, / è una vera agonia / Per me, è una gran cosa / il tempo buttar via, &c.". Segue un’altrettanto inutile esemplificazione del "Metodo delle due sezioni" e un’altra del "Metodo delle tre moebiusizzazioni", su cui non mi dilungo. L’autore di questa fesseria, Luc Étienne, ha avuto il coraggio di depositare "modelli e testi… il 6 aprile 1972, n° 35445". Poteva essere ingegnoso, pensandoci di più? Non senza aver pensato, quantomeno, ad avvertire che le due poesiole devono essere state preventivamente composte in vista della terza risultante, di significato opposto. Anacleto Bendazzi (Bazzecole andanti, cur. Stefano Bartezzaghi, Vallardi, Milano 1997) ha scritto un biglietto d’auguri natalizi fatto nello stesso modo, e forse il Tolosani-Rastrelli (Enimmistica, 2 voll. Hoepli, Milano 1938 e sgg.) ne riporta esempi — ma non mi preme verificarlo. Più che altro, giova rilevare come nel precedente più prestigioso (quantomeno), cioè lo Zadig di Voltaire, il gioco è condotto con molta più semplicità ed eleganza: si immagina una poesia encomiastica respinta dall’autore, che lacera a metà il foglio su cui l’ha scritta, e lo getta dove gli càpita; lì dove l’ha abbandonato è poi scoperto da altri, che in luogo della poesia encomiastica leggono ben due poesie denigratorie, &c. &c. &c.

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    CXVII. Pilgram Marpeck.

    2 Nov

    CXVII. Prego notare che alla lista dei links è stato aggiunto anche Pilgram Marpeck (http://www.pilgram.splinder.com), al quale rendo il favore di aver linkato me.

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    CXVI. Chi per la patria muor.

    2 Nov

    CXVI. E’ un "forse non tutti sanno che". In via Duchessa Iolanda (1434-1474), all’angolo con v. Principi d’Acaia, sul lato sinistro dando le spalle alla piazza, c’è una targa commemorativa, che dice:

    EROI DELLA LOTTA PARTIGIANA CADUTI PER LA LIBERTA’

    [Seguono i nomi: ARNOFFI Cesare, ARNOFFI Giovanni, BORIO Pasquale, CASAVECCHIA Ernesto, CASTAGNERI Bernardo, COSSOLO Ermanno, DAVALLE Bruno, DE ZOLT Libero, DILAURO Cosimo, GALLINO Nino, GAVEGLIO Pierino, MASINO Angelo, MESI Ulisse, MISSAGLIA Alberto, NEGRO Stefano, PERACINO Giovanni, PIZZORNO Carlo, RAVAZ Giorgio, SOLLAZZO Carmine, TANCREDI Franco, TEPPATI LOSE’ Gianni, VICARI Michele]

    E poi sono riportati, in corsivo, i versi:

    Chi per la patria muor / vissuto è assai… / La fronda dell’allor / non langue mai. // Piuttosto che languir / sotto i tiranni, / meglio è morir / sul fior degli anni!

    A qualcuno qualcosa diranno: sono, comunque, i versi che i fratelli Bandiera cantarono (1844) mentre erano condotti davanti al plotone di esecuzione.

    Sono versi tratti da un’opera, Donna Caritea regina di Spagna (1826), melodramma in due atti del cav. Paolo Pola, musica di Saverio Mercadante (1795-1870). In particolare si tratta di un ‘coro di guastatori portoghesi’ ("Aspra del militar") in cui, è stato notato, l’orchestra ha una parte importante. In realtà i versi del libretto dicono:

    Chi per la gloria muor / vissuto è assai… / La fronda dell’allor / Non langue mai. // Piuttosto che languir / per lunghi affanni, / è meglio di morir / sul fior degli anni!

    Ammenoché le parole del cav. Pola non fossero esattamente quelle cantate dai fratelli Bandiera, e solo in occasione della prima e della stampa del libretto e/o della partitura alterate dall’intervento censorio. Notare quel "meglio è morir", più letterariamente (liricamente) dignitoso dell’originario "è meglio di morir", che tuttavia, per ragioni metriche, non può non essere la lezione corretta. Nonostante questo coro sia accattivante, però, non sembra affatto cantabile, nel senso di canticchiabile, fredonnable. Da ciò desumo che i fratelli Bandiera avessero anche un invidiabile orecchio. Dell’opera, capolavoro assoluto e non relativo, si parla qui: http://www.geocities.com/Vienna/8917/Mercadante.html; o, meglio e più nel particolare, qui: http://www.geocities.com/Vienna/8917/Caritea.html, dove è recensita la sola registrazione moderna (Nuova Era) dell’opera (è qui che il brano è definito giustamente "catchy", ciò che mi ha confermato nell’impressione), dall’accluso libretto della quale traggo tutta la mia erudizione in merito.

    E qui si parla di Mercadante in generale: http://www.saveriomercadante.it/ (sito ancora in costruzione).

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    CXV. Ai Giardini Reali (o Reali Giardini?)

    2 Nov

    CXV. Ai Giardini Reali (o Reali Giardini?) — e mi riferisco alla porzione di Giardini che si raggiunge attraversando il ponticello –, sulla sinistra c’è un vascone, o fontana, che ha nei pressi una fila di statue sbreccate. La prima che ho incontrato raffigura una vecchia orribile e manieristicamente (minacciosamente?) curva verso l’osservatore. Non so che cosa mi stia a rappresentare, dal momento che sui piedestalli delle statue non c’è nessuna epigrafe. Nel caso della vecchia ha sopperito l’unipòsca di qualche visitatore: A MORTE I TRUZZI, c’è scritto. E io lì davanti, come un cretino.

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    CXIV. Stavo,

    29 Ott

    oh Sirenetta, per correggere un tuo accento — in particolare quando scrivesti "dài, dài, fàllo". Ma mi sono accorto in tempo dell’errore: la tua finezza stava nell’aver colto (<= mettere circonflesso, plìs) che disaccentato poteva confondersi con "fallo" sostantivo, in ogni accezione. Per quanto una sfumatura oscena non sia del tutto evitabile né nell’uno e né nell’altro caso, sostantivo e verbo sono due cose diverse. Ricordo di aver letto, su un libro di racconti fecciosissimi, dovuti alla penna di uno degli scrittori di Nazione Indiana1, una mitraglia di "dàti" con l’accento (vb. "dare") e di "dati" senz’accento — quei nostri "dati" che tradurrebbero quelli che gli anglosassoni chiamano latinamente "data". Ma ambo derivano da "dare"!! "Data" è infatti plurale di "datum" = "cosa data".

    Io, in compenso, mi sono trascinato per anni nello spiacevole errore di scrivere figlii, straccii2, ignorando che la i, in quei casi, ci sta per bellezza. Intanto posso andar fiero (almeno finché non scopro che sono sbagliati anche loro) dei miei maschii, vecchii, fischii3.

    1. Non cito né lui né il libro per il semplice fatto che mi sono dimenticato sia come si chiama lui che il titolo del libro. Ma potrei essere più preciso, se qualcuno ha la compiacenza di aspettare a piè fermo fino a lunedì (posto che non mi dimentichi, ovvio).

    2. Ma il nesso –ii era reso, consuetamente, con i sormontato da circonflesso. Che pirla, ho i caratteri particolari, perché non ci ho pensato prima? Tiè: î.

    3. V. nota 2.

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    CXIII. Sarà la bloggosfera

    29 Ott

    ma anche gli scriventi che trasudavano intelligenza, quando li conobbi in sedi differenti, passando al blog sembrano bambini elastici alle prese con giochi spastici. La bloggosfera brancola nel buio e ciàncica vaccate.

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    CXII. Riccardo Valla 2.

    29 Ott

    CXII. (Spero che questo post su RV non accresca la mia visibilità, almeno da parte sua).

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    CXI. Riccardo Valla.

    29 Ott

    CXI. Impossibile, anzi altamente controindicato, per me, e linkarlo e intervenire sul suo blog: feci una figura di culo sesquipedale, con lui, al tempo, e spero che pensi che io sia morto, decrepito e sepolto (no, non c’è nessuna contraddizione — prego riferirsi a un buon vocabolario). Mi riferisco al Riccardo Valla di cui nel titolo, traduttore e scrittore. Su questo blog, da me rinvenuto per puro caso poco fa (sto dicendo www.ric-rabbit.splinder.com) si incontrano, a lunghi intervalli di tempo, alcune cose belle (cioè varie sue manie, i sonetti, l’Imbriani, Spenser, &c.). Vale la pena di tenerlo d’occhio, almeno ogni tanto.

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    CX. Domani, se mi connetto di nuovo,

    28 Ott

    penso proprio che andrò a farmi un giro lungo e largo per varii blogs, in cerca di qualcosa di carino e depositando interventi possibilmente sennati sotto i post che più mi impressioneranno, evitando i blog troppo deprimenti o troppo rosa (o troppo tutti e due). Fattostà che è un brutto periodo: non ho assolutamente un cacchio da dire (ma proprio niente), in compenso dovrei pensare a rifare tutto da capo (nella vita — e quanto aspetto, ancora?), e in soprappiù la garrulità mi attanaglia. Sono riuscito a trasformare un blog stitico e noioso nel blog più inutile della Rete. (Che è già qualcosa, volendo — me ne fregasse qualcosa).

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    CIX. Mi hanno detto, anche,

    28 Ott

    di recente, che sembro avercela col mondo. E’ che avevo deciso, per un certo periodo, che non avrei più avuto giudizi (nemmeno sereni) su nulla. Purtroppo, col passar del tempo, le inibizioni si allentano, indi i dissapori. Ma devo stare attento: o ci scapperà il morto.

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    CVIII. Io non sto a guardare.

    28 Ott

    CVIII. Però sto sempre a leggere, nel senso che tutte le volte che vedo qualcosa di scritto mi fermo e lo devo leggere per forza. E’ anche il motivo per cui mi piaceva fermarmi a mangiare sempre davanti alla Casa Fenix (una casa occupata, fino al 22 giugno di quest’anno), ai Giardini reali; era tutta tappezzata di volantini.

    Ma mi piacciono particolarmente le cose scritte a mano, perché spesso sono piene di errori esilaranti. Volevo aprire un post tutto dedicato alle varie scritte, ai volantini, alle comunicazioni di servizio piu’ divertenti che ho trovato in giro, e trascritto. Qui a Torino è l’ortografia in particolare a godere di scarso prestigio. Fuori dall’Informacittà una targa commemora il poeta dialettale Viriglio (non ho ancora capìto perché proprio lì vicino al Comune, ma tant’è), con un "QVI’" artisticamente inciso col suo bell’accento. Credo che sia l’unica città d’Italia ad avere una "via Gaetano DoniZZetti", peraltro.

    Ma le cose più divertenti sono gli avvisi scritti a mano, soprattutto certi nei cessi dei bar o appiccicati nei varii esercizii: Torino deve avere il record dei bottegai più ignoranti della Penisola.

    Al momento non ho sottomano nulla, e data la new wave potrò postare, nel caso, solo una troiata per volta, sempreché mi paiano ancora così divertenti com’erano quando le ho trascritte.

    Poc’anzi ho copiato lo spillatino di un indignato analfabeta coprofobo, in Via dei Quartieri, sul muro tra l’ingresso del n° 4 e la Sala divertimenti "Luna Rossa":

    PER CHI PORTA HA SPORCARE IL PROPIO CANE QUI SUL MARCIAPIEDE SENZA POI PULIRE ‘E UN GRANDE MALEDUCATO E INCIVILE PERCHE ILLEGALE INOLTRE SE MI ACCORGO CHI POSSA ESSERE. [punto] FACCIO INTERVENIRE I VIGILI E SI PRENDERA’ UNA MULTA.

    Quello che mi chiedo è: se uno scrive così, che cosa avrà nel cervello?

    Ma dev’essere proprio un antico vezzo torinese. Ricordo distintamente che il manifesto dei gesuiti contro Carlo Emanuele I (detto Il Grande, o Testa di Fuoco) per l’aumento delle tasse era scritto in un latino non molto migliore di questo italiano.

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    CVII. Osé.

    28 Ott

    CVII. Queste postazioni pubbliche sono protette, nel senso che non si può accedere a siti porno. Ma anche da qui (basta che sia non involontariamente) è possibile accedere a un numero enorme di pagine personali che non figurano nelle liste di proscrizione. Io ho digitato "bootboy", ci sono molti blogs e pagine personali, con abbondanza di foto e cazzate varie galore, alias a iosa. Ma tenere un blog porno (dovrei approfondire, non lo so, la mia esperienza in merito data da oggi) dev’essere proprio, non tanto da maniaci, ma roba da minorati.

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    CVI. Ovviamente

    28 Ott

    la bomba non è scoppiata. Sto digitando dall’Informacittà, all’addetta di turno (un po’ grifagna di complessione, dentro e fuori) sarebbe piaciuto che scoppiasse tutto; ma sta di fatto che non aveva letto il giornale. Su Metro è detto a chiare lettere che oggi alle 10.00 ci sarebbe stata un’esercitazione. Lei dice che c’è già stata ieri, e che oggi il Comune non doveva essere coinvolto. Non le è piaciuto come hanno evacuato l’Informacittà, in ogni caso. E, in ogni caso, è proprio un peccato (dice) che non sia saltato in aria tutto.

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    CIV. A proposito

    28 Ott

    de li mortacci: c’è un blog in multiproprietà in cui ci sono molte epigrafi. Un tempo era un’arte, e da cose come questa si può capire bene il perché — non le ho lette certo tutte, ma in gran parte sono penose:

    http://doraripariariverantholog.splinder.com/

    Anche se l’idea non è male, ovvio.

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    CIII. Giacinto Collegno (nomen omen).

    28 Ott

    CIII. Via Giacinto Collegno è una traversa di corso Francia. Giacinto Collegno dovette essere uomo di molto merito, dato che gli hanno dedicato una via. Ho visto la sua tomba al Cimitero monumentale, e non posso dire che non me l’aspettassi. Visse nell’Ottocento; poi, però, è morto.

    "Per forza", direte voi; "a tutt’oggi…".

    E invece no: era destino avverso.

    Poiché egli, sin dalla nascita (o meglio dal battesimo) era Già cinto Col legno della bara.

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    CII. L’amico XXxxyy YYYxxx,

    28 Ott

    l’altra sera, mi descriveva con una certa commozione un certo suo cimelio di famiglia, una veneranda pendola, ovviamente difettosa. A un certo punto non andava più, e lui gli ha dato il classico cazzotto; dopodiché, ovviamente, la pendola (che lui chiamava il pendolo, che credo sia sineddoche) ha ripreso a funzionare.

    "Ecco", ho detto, "come hai risolto il tuo problema col pendolo col-pendolo".

    Questa battuta non è mia, ma risale a uno spettacolo teatrale di Lillo & Greg, di cui vidi la metà inferiore, molto bella, e di cui non credo di aver mai saputo il titolo. E’ una di quelle battute (in scena Lillo, eseguendo l’ordine di Greg che gli diceva di fare qualcosa "col-pendolo", continuava ad andare verso una vistosa pendola appoggiata al muro) che, riuscite o no, hanno bisogno di un ben determinato contesto per essere riciclate. Non sono riuscito (o non ho avuto la presenza di spirito necessaria) a riciclare battute ben più adattabili a diversi tempi e circostanze, mentre sono riuscito a farlo con questa!! Strano.

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    CI. La bomba (e sticazzi).

    28 Ott

    CI. Oggi hanno messo una bomba al municipio, sicché non posso connettermi dall’Informacittà adiacente. Sono all’Informaggiòvani. L’importante è rimanere Informati.

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    C. Questa non è una C.

    26 Ott

    C. Infatti: è l’iniziale di "CENTUM"  e vuol dire precisamente "CENTUM", da cui il nostro "cento"; e vuol dire "cento". E’ un approdo, parrebbe. Festeggiamo?

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    XCIX. Finirà coll’essere

    26 Ott

    un blog con nessun commento! (è un effetto collaterale a cui non avevo pensato — ma in fondo, che cosa me ne frega? Anche se non so esattamente da che cosa dipenda, la mia vita non dipende certo da un blog. Anche se, per quello che vale, potrebbe anche benissimo).

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    XCVIII. Stare a guardare.

    26 Ott

    XCVIII. Nel primissimo pomeriggio un signore sventurato che ho appena (due giorni fa) conosciuto per dormitori m’ha attaccato bottone. La conversazione (del tipo solum ad se ipsum, anche perché io mi vergognavo come un cane) si è articolata in due tempi; prima ha dichiarato con diffusione piuttosto flaccida di essere intenzionato ad una riforma europea dell’università. Nella seconda parte del monologo cantava, malissimo. Tu gli davi le parole, e lui le cantava sul motivo di una canzone dei Bìtols. Adesso, se fossi spiritoso, scriverei un pezzo fiko sul signore che canta. Ma: 1. Non mi piace stare a guardare; 2. Non sono affatto spiritoso (e poi avevo genuinamente voglia di vomitare; quindi dovrei fingere, e per fingere non mi paga nessuno).

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    XCIV. Cartoline.

    26 Ott

    XCIV. E’ come aver dentro il poema eroico ed essere condannati a mandare cartoline. Però è divertente!! 😀

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    XCIII. E’ il mio destino.

    26 Ott

    XCIII. Eppure questo blog stenta a decollare. Non è un totale fallimento, e non è nemmeno un successo. Rimane lì, tra il sì e il no. Dovrei seguirlo di piu’ e meglio, e seguire, soprattutto, i blog degli altri, così che mi vengano a leggere, &c. Ma chi ne ha voglia? 😦

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    XCII. Qualcuno

    26 Ott

    ha per caso letto Messalina, romanzo storico di Francesco Mastriani (1819-1891)?

     Ahò, io ci provo.

    Ho compilato la solita schedina, ma col piffero che la copio qui sopra: mi rompe. Comunque è notevole: merita, secondo me. Attaccherò il prima possibile I misteri di Napoli.

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    XCI. Uomo avvisato…

    26 Ott

    XCI. Sono stato avvertito, molto seriamente, che "nel nosto ambiente" prima o dopo ci scappa il morto. Non posso nemmeno dire che non vedo l’ora: non so se si libererebbe un posto per me, in quel caso.

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    XC. Chi ha detto che dormire sul duro fa bene alla salute?

    26 Ott

    XC. Dopo un bel po’ di giorni che sto dormendo per terra mi sento il fianco sinist tutto distrutto. Praticamente non riesco piu’ a piegare la schiena! Comunque sia, bando agli autobiografismi: dormire sul duro è nettamente controindicato.

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    LXXXIX. Ah, già, la société.

    25 Ott

    LXXXIX. Avendo io scoperto, per la verità or non è molto tempo, che la Société mi ha linkato, mi sembra giusto linkarla a mia volta. Lo faccio automaticamente, pensando che non ci siano problemi.

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    LXXXVIII. Siamo seri.

    24 Ott

    LXXXVIII. Sono stato accusato, di recente, di essere uno che "sta a guardare". Non è la prima volta che mi succede, ma tutte le volte che ricàpita mi inalbero e mi sento umiliato. Essenzialmente perché se c’è una cosa di cui posso essere accusato con ragione è proprio di non stare abbastanza a guardare. Vago per le vie senza sapere il percorso che faccio (imparare il nome di qualche strada manco parlarne), corro il rischio di farmi stirare ad ogni attraversamento pedonale, dimentico facce e nomi perché guardo e ascolto distrattamente. Qui non mancano bellezze e bruttezze architettoniche, ma se qualcuno non mi ci conduce davanti per mano e non mi fa notare tutto per filo e per segno non noto nulla, non registro nulla, e magari ci passo davanti mille o duemila volte al giorno. Inciampo sui gradini, centro gli stipiti con la faccia, manco le panchine con il sedere. Mi dimentico di andare a mangiare perché non guardo l’orologio. Se mi ricordo di guardare l’orologio mangio senza guardare nel piatto: cose così. E non è nemmeno divertente. Posso assicurare che a vedermi faccio un effetto increscioso. E comunque il fatto si è che non sto abbastanza a guardare. E me ne fotto, pure.

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    LXXXVII. Avevo pensato,

    24 Ott

    proprio in questi giorni, di fare cose che non ho mai fatto. Per esempio, una cosa che non ho mai fatto è andare a chiedere soldi nelle chiese — e tuttavia mi pareva poco esaltante, come prospettiva. Allora ho pensato che sarei potuto andare alla Gran Madre (dove danno un euro di fisso, niente di piu’), a Sassi una domenica (un euro e cinquantadue — nessuno mi chieda il perché, inquantoché non ce n’ho la piu’ pallida idea), alla Madonna del Pilone (dove pare diano anche cinque euri!!!), &c., fino ad accumulare gli otto euri e cinquanta necessari alla mostra di Mapplethorpe, che si svolge a Torino de ‘sti tempi. Poi ho pensato che comunque sono il solo rimasto a considerare poor pornography quella roba, che va comunque contrabandandosi per arte (tant’è vero che quelli della Margherita qui di Torino che hanno protestato perché la mostra non è vietata ai minori stanno facendo una pessima figura). E poi ho visto qualche foto in Rete, e francamente trovo che andare a chiedere soldi nelle chiese sia già abbastanza lugubre per suo conto, senza nessun bisogno di aggravare la situazione.

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    LXXXVI. Diana Cataldo 2.

    24 Ott

    LXXXVI. Ossia la Diana Cataldo qui nominata:

    www.filosofia.unina.it/dimarco/corso2001-02.htm,

    che almeno qualcosa con Nietzsche dovrebbe aver che fare, si direbbe.

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    LXXXV. Diana Cataldo.

    24 Ott

    LXXXV. Finalmente rifunge. (Avevo dfficoltà a postare messaggi, prima, o come kacchio si dice).

    Da una rapida ricerca in Rete non è dato sapere molto di Diana Cataldo. Potrebbe essere un addetto stampa dell’ufficio del turismo (?) irpino come una socia del Golf Club di Belleville.

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    LXXXIV. Il saggino di Nunzia.

    23 Ott

    LXXXIV. Ecco, allora, il saggio che a suo tempo (marzo 2004) Nunzia/Vener pubblicò su Vaporsky. E’ molto lungo, del tutto in controtendenza con la new wave de ‘sto blog, ma pazienza (comunque sia, non l’ho scritto io). Mi proverò io stesso (tempo permettendo) a commentarlo, anche se non ho sempre presenti (anzi) i riferimenti di Nunzia/Vener.

    Grazie, intanto, Vener.

    "Significati e percorsi dell’opera di Italo Svevo "La coscienza di Zeno" in relazione alle riflessioni di Friedrich Nietzsche intorno al tema della scrittura."

    Perché l’uomo scrive? Perché spesso capita che egli avverta l’esigenza di calarsi in uno stato di solitudine, di silenzio, di concentrazione, in cui entrare in rapporto esclusivamente con se stesso e lasciare il resto del mondo fuori dalla sua coscienza? Perché sente il bisogno di abbandonarsi in una dimensione in cui la realtà e lo spazio assumono contorni incerti e il tempo si deforma, divenendo un senza tempo del tempo che penetra nell’uomo, sottraendolo a qualsiasi orizzonte di oggettività in cui prima veniva inserito? Perché, e per chi, sente la necessità e l’impellenza di scrivere?

    Se davvero possedessimo tutte le risposte soddisfacenti a questi interrogativi probabilmente l’uomo abbandonerebbe la pratica della scrittura; essa entrerebbe a far parte dell’universo degli oggetti d’uso, "scadrebbe" al rango di strumento e non avrebbe altro fine se non assolvere alla funzione cui è destinata.

    L’arte dello scrivere perderebbe la sua accezione più propria di essere un’arte misteriosa, tutti i suoi segreti verrebbero svelati, e l’uomo non si affiderebbe più ad essa come detentrice prediletta delle sue più intime confessioni dell’animo.

    Fortunatamente il mistero della scrittura è salvo, ed è evidente come le questioni restino aperte, e si rafforzino, se solo prendiamo in considerazione quanto numerosi filosofi, letterati, o anche scienziati, siano stati affascinati a tal punto dal tema della scrittura da farne l’oggetto delle loro ricerche, e "l’ingresso" privilegiato attraverso cui fare accedere gli altri, i loro lettori, ai più intrinseci significati e percorsi del loro spirito. L’inizio del ventesimo secolo, il secolo della crisi e dei grandi sconvolgimenti, ha rappresentato un terreno molto fertile su cui svolgere queste riflessioni, e autori apparentemente molto diversi hanno trovato punti di grande contatto sull’argomento. Alludo in particolare ad una considerazione ed un utilizzo parallelo che lo scrittore triestino Italo Svevo e il filosofo Friedrich Nietzsche hanno fatto intorno alla scrittura.

    L’accostamento sembra fortemente stonare, soprattutto per chi è un buon conoscitore della filosofia di Nietzsche, ma se si compie un attenta analisi dell’opera più significativa ed eccezionale di Svevo, "La coscienza di Zeno", si possono cogliere numerosi tratti comuni che vanno dal tema della scrittura alla grande dialettica malattia-salute , per finire all’affinità più sorprendente che è il male comune ai due autori, entrambe i quali si definiscono uomini finiti al momento della morte del loro rispettivo padre, ricalcando le orme di un grande filosofo dell’antichità, qual è Platone, angosciato dalla stessa mancanza.

    Zeno Cosini, il protagonista del romanzo, è un uomo malato, cosciente della propria malattia e cosciente di dover curare il proprio male non attraverso la scienza medica, ma attraverso una terapia che riesca ad eliminare il suo malessere alle radici, radici che affondano nell’abisso oscuro della coscienza.

    "…ho la matita ed un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo, s’alza e s’abbassa…ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco la fronte si corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato."

    Il romanzo prende inizio dall’immediato presente di Zeno, che si ritrova sulla sua poltrona intento a riflettere su un passato da dover reinventare, per poterlo plasmare e ricostruire nella sua fittizia autobiografia, a cui si accinge sotto consiglio del suo medico, quale elemento preparatorio alla cura psicoanalitica.

    Da questo momento in poi comincia la narrazione di una storia nel corso della quale il tempo si dilata, racchiudendo in un unico orizzonte passato, presente e futuro, e dividendosi su due piani che scorrono paralleli ma con velocità diverse: il piano del tempo del racconto e il piano del tempo della scrittura, una scrittura che assume molteplici ruoli. All’inizio della narrazione essa si presenta come un imposizione che costringe il protagonista a prendere coscienza della propria malattia e a riflettere sulla sua storia passata che, nel momento in cui si accinge a richiamare alla memoria, gli sembra in realtà perduta per sempre.

    Il rapporto memoria-scrittura, pone in primo piano le grandi questioni del ricordo, ricordo del passato e di quello che si è stati, e della necessità di immobilizzare gli istanti, per conservarne almeno una traccia, nella speranza di non vederli disperdere in un tempo che, nel suo continuo andare oltre, non tornerà mai indietro a restituirceli, neanche se li reclameremo a gran voce come nostri di diritto.

    Una scrittura che organizza e da una forma ordinata agli eventi della vita, una vita che noi stessi possiamo modificare scegliendo cosa conservare o meno, perché siamo noi gli unici depositari della memoria di quello che abbiamo vissuto e di come lo abbiamo vissuto. Per questo tutto il racconto di Svevo-Zeno non è che un articolarsi di menzogne e mancate verità; la scrittura diventa testimonianza della malattia, ed essere malati significa vivere nella falsità del proprio essere, per l’incapacità dell’io di ammettere di essere esso stesso artefice e protagonista di tale falsità.

    Zeno cercherà in ogni modo un disturbo organico da cui essere realmente affetto, per liberarsi dall’angoscia di dover trovare una cura non fallimentare attraverso la quale "sbarazzarsi" del suo male che egli stesso definirà incurabile.

    Mentre per lo psicoanalista la scrittura rappresenta fin dall’inizio uno strumento terapeutico, per il suo paziente essa rimarrà un gioco fittizio inserito nella catena illusoria delle situazioni della realtà, ed estraneo perciò alla sua coscienza, fin quando non prenderà consapevolezza che anche la psicoanalisi ha fallito e che la sua malattia resiste ad ogni forma di terapia.

    L’ultimo capitolo del romanzo rappresenta infatti un momento di svolta, e scrivere diventerà per lui una sfida contro un’esistenza malvagia e beffarda, diventerà il migliore ed unico modo per curarsi perché non saremo più da soli di fronte all’ironia della nostra sorte, ma saremo appoggiati, nella verità o meno della costruzione che abbiamo compiuto scrivendo, dall’ "altro" che diventiamo nel momento in cui scriviamo. Egli stesso dirà, nella parte finale, "…scrivendo credo che mi netterò più facilmente dal male che la cura mi ha fatto. Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per ridare importanza ad un passato che più non duole e far andare via più rapido il presente uggioso." Scrivere della propria storia lo ha "sbarazzato" dei propri dolori, ed egli si sente pronto ad affrontarli.

    Seguendo tutto il percorso del romanzo, il narratore Svevo-Zeno accederà ad una nuova considerazione della scrittura che da elemento organizzativo e ordinatore degli istanti diventerà modalità di cura, cura di sé e del proprio io.

    Alla stessa conclusione approderà anche Nietzsche che in realtà all’interno della sua filosofia ha sempre considerato la scrittura mai come mezzo di comunicazione, ma solo come necessità, una necessità che egli avverte per il bisogno di una fuga, di un lasciarsi andare: la scrittura come una porta che si apre e si richiude. E’ sorprendente che egli definisca le sue opere inospitali, sostenendo che chi più si allontana da lui è chi in realtà più lo capisce: un non essere letto che è un non essere legato.

    L’altro è l’altro che io divento scrivendo. Prima ancora di potersi "staccare" dal lettore l’opera si è già staccata dal suo autore. L’opera ha la pretesa di essere necessaria solo nel momento in cui si lascia e non diventa un laccio.

    E’ uno scrivere senza scrivere ,la verità di una scrittura che non è un trascrivere, e richiama il gesto platonico del produrre una scrittura inidentificabile con il suo autore, con la differenza però che Nietzsche è uno che "se ne va" , si lascia andare.

    Alla domanda del perché egli abbia scritto, in un dialogo-intervista che in realtà è proprio il dialogo della scrittura, il filosofo risponde che per lui è stata un’imperiosa necessità: lo ha fatto per sbarazzarsi dei suoi pensieri, del suo essere io, per liberarsi di se stesso.

    La filosofia è la pratica del riferirsi a sé, e la scrittura è la cura di sé, attraverso l’abbandono di sé. L’altro è sempre se stesso, Nietzsche. E’ una sorta di "meditazione-smeditante", un presentarsi del sé che è in realtà una sua scomposizione.

    Scrivere la propria autobiografia è quindi il miglior farmaco per curarsi e per vincere su se stessi mettendo indietro il proprio vissuto, che non è un mettere indietro nel tempo, ma è un aver sé dietro di sé per poterlo superare e distaccarsene.

    Scrivere dando via se stessi con tutto se stessi, per liberarsi dell’ossessione dell’essere io, io che scrivo, io senza di me e nonostante me.

    Viene messo in crisi il rapporto malattia-salute ; vincere la malattia "buttando indietro" se stessi. La malattia come dimensione imprescindibile in cui non solo l’uomo Nietzsche o l’uomo Svevo, ma l’uomo moderno nella sua essenza appartiene. La scrittura come salute e modo attraverso cui esorcizzare la malattia.

    Nietzsche predilige un tipo di stile che si basa sugli aforismi, e gli aforismi nietzschiani si possono immaginare come delle grosse pietre che segnano un percorso lungo il quale l’uomo saltella, passando da una pietra all’altra. Ogni pietra-aforisma è un punto d’appoggio per il salto in avanti, ma allo stesso tempo deve essere lasciato indietro, deve essere necessariamente superato.

    Allo stesso modo Svevo , nella parte finale del romanzo, passa dalla formula classica del romanzo alla pagina di diario, dove i pensieri si susseguono in modo frammentario, e i segni grafici diventano solo tracce, spunti di una riflessione che l’autore stesso fa, calandosi nella coscienza di Zeno, ma che non trasmette al lettore in modo organico.

    All’interno del romanzo l’autore, oltre a creare questo nuovo gioco narrativo tra lo Svevo-Zeno che scrive le pagine del suo diario e lo Zeno protagonista del racconto che egli stesso fa di sé, dimostra come in realtà scrivere possa anche contribuire ad affidare ad altri, o comunque allontanare da sé, la responsabilità delle proprie scelte, e come la scrittura abbia la capacità di rendere più autoritarie e più potenti le parole, tanto da intimorire colui che le ha scritte. "L’ultima sigaretta" di cui Zeno annota la data su vocabolari, libri, o anche sul muro di casa, in realtà è un modo perché la coscienza possa sentirsi appagata, ed egli liberato dal peso di dover portare avanti il suo buon proposito. In questo modo egli esorcizza la sua malattia, di cui il vizio del fumo è solo una delle tante manifestazioni, attraverso la certezza che egli scrivendo potrà condividere la responsabilità del fallimento del suo buon proposito con "l’altro" che egli ha reso complice di sé nel momento in cui ha scritto; avrà anche la certezza che sarà più facile eludere una menzogna scritta che affrontare la verità della sua coscienza.

    Gli altri possono conoscere colui che hanno di fronte attraverso ciò che egli dice o scrive di sé, ma non potranno mai riuscire a scandagliare il fondo di una realtà inconscia che tutti possediamo, ma che alla maggior parte di noi appare estranea: è la sensazione che potrebbe provare un uomo che si senta forestiero all’interno della sua stessa patria, e questo nostro non conoscerci è probabilmente la radice più profonda dell’angoscia di sentirci incompleti, inadatti, malati.

    Quale filo conduttore sia del romanzo di Svevo che della filosofia di Nietzsche, la dialettica salute-malattia è un tema continuamente slittante dal piano psicologico a quello fisiologico e viceversa, ed è anche un argomento di grandissima attualità in un presente come quello che stiamo vivendo, segnato dalla malvagità dell’uomo e dalla riflessione intorno alla sua esistenza e il suo destino.

    A tal riguardo sono profetiche, nella loro agghiacciante ironia e nella loro infinita carica pessimistica e apocalittica, le parole scritte da Zeno nella parte finale del romanzo, e che preannunciano un’ipotetica prossima fine del genere umano.

    Ad una "grande malattia" si deve rispondere con una "grande salute", e la scrittura, se non arriva comunque a rappresentare la salvezza, consente almeno, ancora e soprattutto oggi, di potersi aprire uno squarcio di apparente ed illusorio abbandono, e la possibilità di considerarsi, anche solo limitatamente al momento in cui scriviamo, uomini liberi dal peso della malattia e dall’angoscia di dover a tutti i costi rincorrere la salute; liberi di essere ciò che siamo esattamente come siamo, al di fuori di ogni processo di falsificazione che troppo spesso rischia di travolgerci del tutto.

    D. C.

    Un attimo, però: vedo che è siglato "D. C.": chi è/sarebbe?

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    LXXXIII. C’è un blog che parla di sonetti,

    23 Ott

    ma non genericamente: si tratta di http://www.endecasillabi.splinder.com, e parla di endecasillabi atonali, una concezione di Raboni che prende ispirazione, più che dalla musica atonale, mi pare, dalle suggestioni altamente tecnicistiche di quel modo di concepire la musica.  Tradizionalmente, un endecasillabo era considerato un endecasillabo quando prevedeva che gli accenti cadessero in un certo numero di posizioni — nuovamente, non si tratta di ‘rispetto delle regole, qualunque principio esse servano a sostenere e difendere’, ma di risultati, esteticamente, fonicamente, più aggradevoli che sono stati osservati, definiti e, se si vuole, codificati. Poi, ovviamente, Dante, il Pulci, il Campanella e altri sono pieni di endecasillabi irregolari. Per esempio, molti endecasillabi del Pulci, dal suono piuttosto incerto, sono 1 sillaba + 1 decasillabo.

    Altro, ovviamente, è scegliere di scrivere in endecasillabi "atonali": l’operazione è cosciente. Non so che cosa dirne, personalmente, forse perché sono troppo dentro la versificazione (non conosco altri modi per ‘accostarmi’ alla poesia — posto che la poesia mi riguardi –; credo di essere una ciofeca anche come lettore di poesia) per potermi distaccare criticamente. La fitta e minuta (anche come carattere) spiega, estremamente chiara, dice tutto, ma, se non mi è sfuggito qualcosa, non dice come mai, oltreché atonali (e in quelle fogge & maniere), i versi debbano (?) anche essere così fortemente enjambés.

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    LXXXII. Mi chiedo

    23 Ott

    se adesso come adesso sarei capace, avendo una casa (è solo un’ipotesi, non esiste nessuna possibilità concreta), di passarci del tempo, dentro. Ho passato sei mesi a rimpiangere acutamente di non poter andare da qualche parte al coperto e scrivere — la scrittura mi manca tutte le sere. Per i restanti sei mesi mi sono chiesto se le mie abitudini siano cambiate al punto da rendermi insopportabile il restare in una casa. Per quelli che hanno fatto molta vita di dormitorio non è che ci sia una specie di rieducazione (o educazione tout court), ma i primi tempi sono seguìti: magari non sanno usare la macchinetta del caffè, o hanno problemi coi rubinetti — non parlo dei minorati, quelli ovviamente hanno l’accompagnamento o stanno in strutture apposite. E’ vero che non ho fatto moltissima vita di dormitorio, ma la mia capacità di adattamento a una situazione tanto imprevista (da me) è stata stupefacente (e, questo, non solo per me). Potrebbe esserci anche questo effetto indesiderato.

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    LXXXI. Azu,

    23 Ott

    non voglio dirtelo sul tuo blog perché mi parrebbe ingrato, ma non mi fa impazzire la grafica nuova. Preferivo prima, era più "di servizio", più grezza.

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    LXXX. Didolasplendida

    23 Ott

    ha tolto il veto, e adesso posso tornare a leggere il suo blog. Ritiro il "vacca", giustamente (per associazione: toro/vacca).

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    LXXIX. Avevo pensato

    23 Ott

    di fare una piccola guida alle fontanelle di Torino, l’avevo già detto, da qualche parte (ah, sì, mi ricordo, adesso)? Ci sono fontanelle che buttano acqua un po’ caldiccia, altre buona & fresca. Stranamente, ci penso tutte le volte che bevo a una fontana. Ieri mi sono fermato a bere alle fontanelle ventisette volte. Dalla rabbia stavo quasi per inghiottire il toro di ferro della bocchetta. (Le fontanelle hanno il toro sopra perché siamo a Torino. Però sono tutte fatte a Bergamo. Tutte le volte che mi chino a bere, cerco di non guardare davanti, sennò mi si rivolta lo stomaco. Riesco a non vomitare, in compenso sto diventando strabico).

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    LXXVIII. Vener,

    23 Ott

    ho vanamente cercato quella stanza di cui dicevi, dal pomposo titolo Perché l’uomo scrive, su Vaporsky. Messaggiamelo, se credi, così la commentiamo, se credi(amo).

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    LXXVII. Invidio enormemente

    23 Ott

    quei blogs che ciànno tanti piccolissimi messaggi, magari messi a dieci o quindici al giorno. Perché ostinarmi a scrivere cose lunghe proprio qui, dato che sono il primo a non leggere le cose lunghe degli altri?

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    LXXVI. Non c’è niente da fare.

    19 Ott

    LXXVI. Dopo un annetto di marinatura nello squallore mi mettono alla prova. Non che mi vengano a cercare, ovvio; ma se sono a tiro mi chiedono a bruciapelo: "Ma senti, com’è che stai qua? Che evento traumatico c’è stato?". Oppure: "Ma non ti dài da fare? Ma non ti sbatti?". Non ho capìto, sinceramente, se è perché sono stufi di vedermi, o intravedermi, o se ormai ho assunto un colorito-pannello, che m’intona alle pareti dei container, e mi rende piu’ avvicinabile, anzi, ormai praticamente cosa loro. Soprattutto vien fuori questo problema: quello della mia ‘storia’ personale, vale a dire di tutto quel complesso di concause che mi ha condotto qui, cioè lì, cioè a questa situazione. Ma non potevate chiedermelo un anno fa? (Seguono motivazioni, e anche pretesti e scuse mendicatissime).

    Io scrivo di quello che mi succede, essenzialmente perché — me ne sono accorto ormai da qualche tempo — nella vita ogni altra cosa sarebbe come morire. Certo, le mie sono condizioni lamentabili; ma come far capire che scrivo, e che non mi sto lamentando? Forse è impossibile. Siamo tutti condannati al contenutismo — anch’io, anzi, io per primo. Forse è inutile, quindi, andar cercando un modo ‘diverso’ di proporre le cose. Chi vuole intenderli come lamenti e sfoghi, continuerà a leggere nei miei scritti lamenti e sfoghi.

    Certo, non sto ‘usando’ le mie condizioni come cosa su cui si agisce in corpore vili: non suono una melodia qualunque sul mio immortale strumento. Io sento, ovviamente, le mie condizioni attuali. Ma se proprio dobbiamo essere precisi, io non mi sento molto lacrimevole, quanto risentito, pieno di rabbia e di rancore. Me l’hanno detto, proprio ieri sera: "Tu ce l’hai col mondo, devi guardare a te". Guardare a sé è sicuramente piu’ pratico, e quindi piu’ costruttivo. Ma se veramente l’avessi pagata, la stessi pagando, troppo cara? In fondo, che cos’ho fatto di male, nella vita? E’ poi oggettivo che le brave persone che mi sfiorano tutti i giorni per le vie tengono la faccia di cazzo. Non sono piu’ brave di me, sono solo piu’ cattive. Purtroppo per me, devo ancora imparare molte, molte cose.

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    LXXV. Epigrafi del cimitero monumentale di Torino.

    19 Ott

    LXXV. Non è colpa mia se mi ritrovo a continuare questo trend sepolcrale.  La mia prima, e finora unica, visita al Cimitero monumentale di Torino risale a domenica scorsa. L’ispirazione me n’è venuta, anche, dalla lettura di un vecchio volumetto di epigrafi della Hoepli/Cisalpino-Goliardica di Adolfo Padovan, Epigrafia italiana moderna, Milano [1913] 1981. Vi sono raccolte epigrafi di Giordani, Leopardi, Pascoli, e poi di varii professionisti del ramo, tra cui non ispregevoli un Leoni e lo stesso Padovan. Memore anche di un "millelire" compilato da Bruno Gambarotta (Colpito in fronte da nemica palla), raccolta forzosamente succinta ma molto saporosa, benché corredata da un’introduzione abbastanza inutile (oltreché rivelatrice della difettosa sapienza dell’autore, che dà un’incresciosa interpretazione del latinismo "pangente", forse immemore dell’inno latino che a tutt’oggi dovrebbe essere noto, e che contiene, appunto, un ‘pange’), mi sono immerso — anche non sapendo che farmi di una giornata così tediosamente vuota di tutto — in questa maestosa fiera in cui il cattivo gusto urla in silenzio. Difficilissimo, se non impossibile, commuoversi o aprirsi a pensieri panici, in un cimitero monumentale. L’horror vacui trionfante, e il grottesco, rendono impossibile (credo del tutto volontariamente) qualunque sublimità. Ho raccolto un parco numero di epigrafi, alcune pittoresche, altre perplettenti e forse involontariamente rivelatrici di alcunché della vita di chi le dettò. Devo dire che dei due modi di registrare le attrattive di un camposanto, quella che passa per via d’iscritto è la meno foriera di meraviglie; questo anche se il Cimitero monumentale di Torino, per quanto riguarda la parte vecchia, non avesse le spiccate qualità scenografiche che di fatto ha. Non ho descritto nessuna tomba, a parte la piccola tomba Occella: "E’ un piccolo cumulo di sassi sormontato da una pianta foltissima, ricca di infiorescenze assediate da centinaia di api: il ronzio sembra il mormorio di un ruscello".

    N° 272

    PIANTICELLA D’AROMI ANZI TEMPO SUCCISA
    MORIVA A’ 20 GIUGNO 185?
    MARIO PALLIO DI RINCO
    FIGLIA DEL CONTE OTTAVIO
    E DI ADELE SALLIER DELLA TORRE
    D’ANNI 11 MESI 11 GIORNI 20
    GESU’ CRISTO
    AMICO DE’ FANCIULLI E SPOSO DELLE ANIME INNOCENTI
    VENNE A LEI LA PRIMA VOLTA NELL’EUCARISTIA
    E MANDO’ UN PONTEFICE
    A CONFERMARLA NE’ DONI DELLO SPIRITO SANTO
    GIA’ VICINA A DARE L’ADDIO ALLA TERRA
    COSI’ NUDRITA ED AVVALORATA DE’ CELESTI CARISMI
    CORSE AD ABBRACCIARLO NEL PARADISO
    O ANGIOLETTA
    DI LASSU’ DOVE CO’ SERAFINI LODI IL SIGNORE
    VOLGI LO SGUARDO
    SULLA MADRE SUI GENITORI SUL FRATELLO
    CHE DELL’AFFANNO IN CUI LI LASCIASTI
    PIGLIANO CONFORTO NELLA SPERANZA DI RIVEDERTI IN CIELO

    N° 271

    A
    GIUSEPPINA CALCAGNO
    WON FRISCHER
    NATA A LEMBERG IL 24 AGOSTO 1832
    MORTA A TORINO IL 22 GENNAIO 1867

    IN TERRA STRANIERA VIVESTI O TIEPINKA
    NE’ IL REGNO BEATO DEGLI ANGELI E’ QUI
    LE VERGINI STELLE GIS’ SON TUA DIMORA
    GIA’ ON TUA DELIZIA GLI ETERNI GIARDIN
    LA’ DURA LA ROSA CHE IL SERTO T’INFIORA
    LA’ IL SOL NON TRAMONTA CHE E’ SEMPRE MATTIN
    LA’ GODI LA PACE CHE IL CIELO MI TOLSE
    LA’ IL PREMIO RICEVI ALL’AMORE ALLA FE’
    DAL FULGIDO TRONO CHE OR ORA T’ACCOLSE
    TU PREGA L’ETERNO PEI FIGLI PER ME.
    PAOLO.

    N° 194

    LA VEDOVA ED IL FIGLIO
    RIUNITI NEL PIANTO E NELLE MEMORIE
    COMPOSERO IN QUESTO AVELLO
    LE CARE E VENERATE SPOGLIE
    DELL’ ING.RE COMM.RE GIOVANNI MARSANO
    NATO A GENOVA IL 24 GIUGNO 1807
    MORTO IN TORINO ADDI’ 10 DICEMBRE 1876
    ————–
    RELIGIOSO SENZA OSTENTAZIONE
    CONGIUNSE A RETTITUDINE ANTICA
    DOTTRINA VARIA PROFONDA
    AMOR SCHIETTO DI CIVILE PROGRESSO
    COSTUMI SEMPLICI AUSTERI
    NEGLI UFFICI CUI RESSE INFATICABILE
    DI ISPETTORE NEL GENIO CIVILE DEPUTATO AL PARLAMENTO
    SEGRETARIO GENERALE AI LAVORI PUBBLICI
    NON SEPPE MORDERLO L’INVIDIA
    NE’ GLI SCEMO’ FAMA L’OPERA SUA.

    N° 60

    SEPOLCRO
    DI CECILIA CAMPOGRANDE
    VEDOVA DI SIMEONE STELLA
    MORTA NOVI LUSTRE IN TORINO
    AI VII DI APRILE MDCCCXLV
    ——-
    O CARA MADRE
    DI CHE LACRIME BAGNERA’ QUESTO SASSO
    IL TUO FIGLIUOLO GIUSEPPE
    A CUI COL SENNO E COL CUORE
    FACESTI ONOREVOLE QUELLA VITA
    CHE ORA PER LA TUA MORTE
    GLI CORRERA’ SCONSOLATA.

    N° 124

    TERRIBIL COLPO D’APOPLESSIA IMPROVVISO
    RAPI’ ALL’AMORE DEI SUOI FIGLI
    QUELLA PERLA D’OGNI BONTA’ A TUTTI NOTA
    E DA TUTTI AMARAMENTE RIMPIANTA
    CHE FU IL MARCHESE
    CARLO VIVALDA DI CASTELLINO!
    IL DI’ NEFASTO DEL SUO DECESSO IX GENNAIO MCMVI
    FIGURERA’ TRA I PIU’ SGRAZIATI
    NEL MAUSOLEO DI FAMIGLIA
    EGLI FU SEMPRE UN MODELLO DI PIETA’
    ESEMPLARE IN FATTO DI RELIGIONE
    FU OGNORA INSIGNE BENEFATTORE DEI BISOGNOSI
    E PADRE AMOROSISSIMO DEI POVERI
    PER QUESTA SUA BONTA’ INEFFABILE
    E’ ORA RIMPIANTO DA OGNUNO CHE LO CONOBBE
    ED E’ SPERABILE CHE DAL SIGNORE
    NE AVRA’ GIA’ RICEVUTO IL PREMIO DEI BEATI.
    R.I.P.

    N° 22.

    ORAZIO CASSINIS
    REGIO NOTAJO
    NATO IN MESSERANO IL XV. SETTEMBRE MDCCLXXVII
    MORTO IN TORINO IL XXI. FEBBRAJO  MDCCCLI.
    ————————
    ……PROIBISCO OGNI ISCRIZIONE MORTUARIA
    "SUL MIO SEPOLCRO O MONUMENTO QUA-
    "LUNQUE, BASTANDOMI QUELLA CHE HO
    "COSCIENZA D’AVER STAMPATO NELL’
    "ANIMO RICONOSCENTE DEI MIEI CARI FI-
    "GLI MEDIANTE LE LUNGHE ED AFFETUO-
    "SE [sic] CURE SOSTENUTE A LORO COMUNE
    VANTAGGIO.
    ART. 1.° DEL SUO TESTAMENTO

    (Su monumento sormontato da busto).

    N° 13.

    QUI LA VENERANDA SPOGLIA
    DI DOMENICA CAVORETTO CUNEESE
    VEDOVA DI GIO. BATTA MOLINERI
    DONNA DI AFFETTI E COSTUMI INNOCENTI
    D’INTEMERATA ED OPEROSA VITA
    GIA’ PRESSO AI NOVANT’ANNI
    ROBUSTA ANCOR E GIOVANIL LA CHIOMA
    STANCA PERO’ DEL TRIBOLATO ESILIO
    L’ANIMA ANELANTE A LA MAGION DEL GAUDIO
    QUAL VISSE IN FAR FERVENTE PREGO A DIO
    TAL LIETA A LUI, PREGANDO, SPIEGO’ IL VOLO
    ADDI’ XXVI FEBBRAJO MDCCCLV
    —————
    OH ANGIOL DEL CIEL! MIA SOSPIRATA MADRE!
    QUI FRA DUE TOMBE IL VEDOVATO FIGLIO
    L’OPRE PIETOSE E ‘L COR DIVIDE OGNORA
    QUEST’OSSEQUIO D’AMOR TUTTO VI DICA…
    VOI GIA’ BEATA INSIEM CON ROSALIA
    DEH! IN SANTA GARA TRA CONSORTE E MADRE
    BENEDICENDO A ME TERGETE IL PIANTO
    SICCHE’ FRANCATO DA MORTAL PERIGLIO
    GIUNGA A FRUIR INSIEM L’ETERNA PACE.

    NOTAJO E CAUSIDICO G. MOLINERI.

    N° 164


    AQUI JAZEM OS RESTOS
    DO INNOCENTE
    FLORIANO MARIA GONSALVES DE MAGALHAENS
    NASCEO
    EM 15DE AGOSTO 1852
    SUA ALMA SUBIO AO CEO
    EM 6 DE FEVEREIRO DE 1857
    ————-
    MELHOR ESTAS NO CEO DONDE BAIXASTE
    PARA DAR A TEUS PAIS FUGAZ VENTURA
    AI DE NOS, ANJO MEU, QUE NOS DEIXASTE
    CHORANDO NESTE VALLE DE AMARGURA.

    N° 229.

    NOBILE LIVIO CIBRARIO
    N. IX FEBBRAIO 1876 IN TORINO
    M. XII AGOSTO 1898 IN USSEGLIO

    FORME VENUSTE TEMPRATE DA FORTI LUDI
    ALTA MENTE
    A PAZIENTE DIUTURNO LAVORO ASSUETA
    PASSIONE DEL BELLO DEL BUONO DEL GRANDE
    CHE PROROMPEVA IN VERSI ELETTISSIMI
    AFFETTI SANTI COSTUMI ILLIBATI
    SPERANZE DI BENE ALLA PATRIA
    DI ONORE AL NOME DEI SUOI PADRI
    SPERANZE
    CHE GIA’ DA FIORI DIVENIVANO FRUTTI
    TUTTO TUTTO
    SPARI’ ADDI’ XII DI AGOSTO 1898
    NELLA TERRA AVITA D’USSEGLIO
    TRA I GHIACCI ETERNI DELL’ALPE
    QUANDO LA SUA GIOVANE VITA
    FU INFRANTA
    RESTERANNO IMPERITURI
    L’INFINITA TENEREZZA DEI GENITORI
    L’AFFETTO DEI GERMANI DEI PARENTI DEGLI AMICI
    L’ESEMPIO DELLE SUE VIRTU’
    —————-
    SIA FATTA LA VOLONTA’ DI DIO!

    **************************************

    "… Un cimitero è un teatro, e a teatro si sfoggia. Chiaramente, sfoggia chi può, chi non può sincopizza. E’ sconcertante vedere le tombe monumentali ottocentesche, non solo per la loro teatralità, ma per il protagonismo dell’afflitto rispetto al caro estinto: allo scultore è stato di rado commissionato il ritratto del morto; il piu’ delle volte ad essere ritratto/a è il/la consorte che piange il morto in pose plastiche d’enfasi marchiana, plateale. C’è u filo diretto tra la teatralità di queste sepolture e la macignosa capricciosità delle vecchie case nello stile dei padri fondatori; sembrano passati i secoli dei secoli, e invece or non è molto i ricchi e i dotti vivevano recitando ogni minuto della propria vita. Oggi recitare è fingere senza mostrare l’artificio; allora tutto doveva olire di lucerna, parere atteggiato, studiato. Nessuno trovava intollerabilmente volgare o imbarazzante, come medico chirurgo o docente universitario, farsi ritrarre il vesti neoclassiche nell’atto di sollevare la cortina di un baldacchino, mostrando la vecchia madre moribonda o morta. L’enfasi lacerante delle epigrafi, che designa eroi e martiri e genii in quasi tutti i sepolti, denota la singolare crisi di valori di quella societàche non aveva un’idea troppo precisa di tutto ciò che è giusto e vero, ma di fatto ne era perdutamente innamorata. Al fondo, in quel fondo dove dovrebbe rinvenirsi la verità, c’è una spregiudicatezza, una sordità sentimentale assolute: quasi che l’ardimento dell’esibizione originasse non da esuberanza, ma dalla propria stessa incapacità di strapparsi alcunché di sincero dal cuore abusato, condizione terminale profondamente non voluta, non accettata — e questa è ancora una giovinezza mancata, una delle fondamentali persistenze dell’altra ‘maniera grassa’, quella barocca, nel Romanticismo".

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    LXXIV. Morte della signorina Tebaldi.

    18 Ott

    LXXIV. Grazie alla solertissima Sirenetta (http://www.sirenetta.splinder.com), sono in grado di rettificare l’ennesima stronzata: Renata Tebaldi si è regolarmente spenta un annetto fa:

    Renata Tebaldi si è spenta il 19 dicembre 2004 nella sua casa di San Marino, all’età di 82 anni.

    E grazie dell’attenzione.

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    LXXIII. Vita della signorina Tebaldi.

    17 Ott

    LXXIII.

    Carlamaria Casanova, Renata Tebaldi. La voce d’angelo. Electa, Milano 1981. Pp. 253.

    https://i0.wp.com/ecx.images-amazon.com/images/I/41S70AM2ZFL._SX352_BO1,204,203,200_.jpg

    Due sabati fa sono andato a prendere vestiti usati a s. Antonio di Padova, presso la parrocchia omonima della via omonima. Avevo bisogno di un ricambio di mutande e uno di calzini. L’addetto, un simpatico volontario che mi chiamava “amico”, ha insistito affinché prendessi anche un maglione, un paio di pantaloni, e alcune altre cose.

    Vedendo che il magazzino conteneva anche libri vecchi, giocattoli, barattoli di pennarelli &c., ho chiesto se per caso avessero anche carta, quaderni o altro su cui scrivere — non avevo quasi piu’ nulla, e non potevo permettermi di comprare alcunché. Dopo una breve ricerca una signora me ne ha trovati quattro o cinque, che ho preso volentieri. L’addetto che mi chiamava “amico” ha detto che nessuno chiede mai libri o quaderni, sicché li dànno doppiamente volentieri. Così ho capìto che eravamo contenti in due.

    Ma, in piu’, mi ha regalato anche questa biografia della signorina Tebaldi, scritta da una recensora, piu’ che musicologa, che scrive da molti anni per varii rotocalchi e giornali, soprattutto per la Notte.

    E’ stata pressoché una coincidenza, perché uno dei tre dischi che possiedo, e che posso ascoltare, quando ho delle pile o una presa della corrente a portata, è proprio una Giovanna d’Arco storica, con Bergonzi, Panerai e la Tebaldi (1951), cosa che fa di me, unitamente a questa biografia di recente acquisizione, un tebaldiano quasi perfetto.

    Renata Tebaldi è nata nel 1922, e ha cantato dal 1946 al 1976, ininterrottamente. Vive, che io sappia, ancora*. E’ stata in qualche modo consacrata, a suo tempo, dalla scelta che Toscanini fece cadere su di lei per la parte sopranile nel Te Deum di Verdi. La Tebaldi non ha avuto un repertorio esorbitante: solo 35 titoli, da cui si possono serenamente togliere alcune riesumazioni, come — poniamo — l’Olimpia di Spontini o Salambò di Casavola, insieme ad altre; rimangono soprattutto i titoli pucciniani piu’ importanti, Bohème, Fanciulla del West (benché affrontata tardivamente), Madama Butterfly (anche se la Tebaldi era decisamente un po’ troppo matronale per la parte), e il Verdi maturo e tardo, soprattutto Desdemona dell’Otello.

    La biografia ripercorre le tappe fondamentali della carriera della Tebaldi, dilungandosi generosamente (nonostante l’esiguità del testo, 150 pagg. circa effettive) sulle sue borse, i suoi cappellini, le sue pianelle, i suoi stivali, la sua storia d’amore col maestro Basile, che poi andò a schiantarsi in autostrada, i suoi inizi difficili (la madre la fece partecipare ancora pupetta a una pubblicità di pappette per bimbi col fine di attirare l’attenzione del padre, il fedifrago Teobaldo Tebaldi), i dolci e i quadretti della sua tata. Di queste 150 pagg. di testo effettive, ben 35 sono dedicate, quasi altrettanto generosamente, ai problemi di peso della Callas, alle false e strombazzate storie d’amore della Callas, al divorzio della Callas, alle due ottave mancanti della Callas e ad alcune altre cose, a vario grado imperdonabili, che la Callas avrebbe fatto e, soprattutto, detto — fino al famigerato articolone scritto per il Time del nov. 1956, che la signorina Tebaldi e la signorina Casanova ritenevano, fino al 1981, argomento di dibattito, quando già da 23 anni era chiaro al mondo che era uno spregiudicato falso, dovuto al fatto che la querelle non era presa molto sul serio dalla stampa internazionale, così come le parole della Callas, e della signorina Tebaldi.

    Le somiglianze, soprattutto al contrario, con la vita della Callas (tra le somiglianze per dritto, il marito [che la Tebaldi fu tentata di prendere, ma rimase signorina, après tout] vecchio, la rentrée in Oriente con un vecchio collega, i cagnolini, &c. &c. &c.) sono molte e impressionanti. La signorina Tebaldi è stato un esemplare unico di saprofita intelligente. Son cose che non si dovrebbero fare, certo, così vorrebbe la morale; eppure, ci vuol stomaco anche per fare queste cose — ci vuole una vita, e scusatemi se è poco.

    Gli aneddoti sui colleghi di lavoro sono scipiti; di musica non si parla affatto. Le foto sono molto anni Cinquanta, come la voce della Tebaldi. Al momento pensavo mi avrebbe interessato di piu’, ma devo confessare che alla fine mi ha annoiato terribilmente, tanto che ho dovuto leggerlo in quattro o cinque riprese.

    *] Per poco; sarebbe morta Mi sbagliavo; era già schioppata, il 19. dicembre 2004. Il 17. ottobre di questo post si riferisce all’anno 2005., perciò quasi un anno dopo che la signorina era andata ad patres. Pensa te come passa il tempo.

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    LXXII. Sigh… Sob…

    15 Ott

    LXXII. … quella vacca di didone (http://www.didolasplendida.splinder.com) mi ha bannato… come farò, adesso, senza il blog peggiore della Rete?… sob… sigh…

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    LXXI. In segno di pace

    13 Ott

    LXXI. In segno di pace, linkerei la Sirenetta e la contessa Sparacazzi.

    Posso?

    Pace a parte, linkerei anche thursday. Tanto siete le sole che vengono qui.

    (Solo donne, tra l’altro).

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    LXX. Il punto.

    13 Ott

    LXX. Premetto che non è mia intenzione né cacciare né trattenere a viva forza nessuno. Non ne ho, in fondo, nemmeno la possibilità. Posso solo dispiacermi se la Sirenetta se ne va, ovvio.

    Facciamo un po’ il punto? Sotto il penultimo mio post c’è questo commento della Sirenetta:

    "boh, secondo me ‘sta vita fa schifo da qualunque punto di vista tu la guardi, e le illusioni c’è chi ha smesso di farsele anche se si trova nella cosiddetta "vita normale"… e per quel poco che posso sapere del tuo modo di vivere attuale, immagino che anche da lì, da "quel lato" ci sia qualcuno che le illusioni continua a farsele… no?"

    Un post come questo, che non differisce da quelli precedenti (posso anche copincollarli, ma perdo altro tempo, e ne ho sempre poco), non dice che la vita fa schifo concordemente a quello che ho detto io. Dice che quello che vivo io sostanzialmente equivale a quello che vivono (tutti gli?) altri. Che — inferisco — è inutile parlarne.

    1. Se la mia vita fa schifo come quella di chiunque altro, voglio far cambio con chi dico io. Chi dico io non dovrebbe aver problemi, date le premesse. Io men che meno.

    2. Circa l’inutilità, è vero: è inutile scrivere, vivere e tenere blog. Ciò detto, ci sono indubbiamente blog piu’ divertenti e attraenti (secondo i gusti, ovvio), ma io non so far niente di simile. Essenzialmente perché non me ne frega proprio una cippa di minchia.

    ***

    Io, nella mia smisurata presunzione, cerco semplicemente di testimoniare qualcosa. Non è stato possibile, finora, per vari motivi. Essenzialmente perché, da subito, sono stato centrato da messaggi, diretti od obliqui, che tendevano a scoraggiarmene. Benché la mia parola non valga piu’ nulla. Quanto mi è venuto fatto di riuscire a scrivere sulla mia vita attuale può essere svalutato in vari modi, ciascuno rappresentato dalle formule canoniche:

    1. "Tu ti lamenti troppo e non fai un cazzo".

    2. "Tu stai troppo a guardare".

    3. "Tu guardi troppo a quello che non va negli altri e non guardi a te".

    4. "Sapessi con che cosa combatto io, tutti i giorni" / "Quello che passi tu lo passano tutti, che ti credi", &c.

    5. "Siamo tutti uguali" / "Paghiamo tutti gli stessi prezzi" / "Pensa se fossi nel Kossovo", &c.

    Tutti argomenti che, utilizzati come criterio censorio, porterebbero alla cancellazione del 201% di tutto quello che è stato scritto dall’inizio della storia del mondo — almeno tutto quello che va sotto il nome di ‘letteratura’.

    Non so se il problema sia con me o con la letteratura in sé; e francamente non m’interessa.

    Né m’interessa accusare la Sirenetta di aver pensato o detto, piu’ o meno chiaramente, una o due o tre di queste cose, o tutte. Ma potrebbe esserci qualche remora culturale, da parte sua (o magari da parte mia, non è mai detto).

    Dico solo che continuo a percepire un po’ di ‘freno’. E che sono molto lontano (molto) dall’aver detto la millesima parte di quello che riterrei necessario dire sulla situazione che sto vivendo.

    Vado avanti come penso sia giusto.

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    LXIX. A miracol mostrare.

    12 Ott

    LXIX. Ormai è un po’ di volte che mi càpita di leggere un commento di LaSirenetta che dice: "Ah, vabbè, ma questo succede anche a me". Ah, vabbè, ma se è per quello la blogsfera è piena di gente che tiene le corna, il mal di stomaco, alla capa, che non cià una lira — dovrei dire, io, per esempio (corna a parte, è solo una delle 2328438546363 cose che mi mancano, anche se non posso dire di rimpiangerle): "Ah, vabbè, ma se è per quello anch’io ho male a un occhio, ho i debiti, ho la tosse, mi rompo a far la fila, mi manca il mio cane"?

    Io mica posso chiedermi, prima di scrivere, quello che può interessare alla Sirenetta.

    Alla Sirenetta, per quel che ne so, potrebbe non fregargliene niente, di quello che scrivo. Per quel che ne so io, non me ne frega niente nemmeno a me!!! Io, semplicemente, sto aspettando il momento dell’ispirazione. E’ colpa mia se tarda? O se latita proprio quando mi connetto?

    Ho raccolto un sacchetto di fogliacci, tutte cose che ho scritto da quando sono a Torino, dal diario a qualunque altra cosa. Ho dato uno sguardo: la ferocia della mia stipsi, la mia fetente ingenerosità, la mia infernale aridità mi si sono catapultate sulla faccia con violenza inattesa. Ben mi sta. Temo che di quest’anno non rimarrà nulla, se non il ricordo perenne del mio disonore.

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    LXVIII. Bisognerà pur postare qualcosa,di tanto in tanto.

    11 Ott

    LXVIII. Anche se, ad essere sincero, il pensiero di quest’ultimo anno attualmente mi pesa molto, e l’influenza che mi rincoglionisce non mi aiuta certo a raccogliere le idee. E’ un momento di scelte — ho la testa nel pallone — o magari nemmeno, ma non ho testa per tante cose. Scrivo o leggo, ma quello che scrivo e/o leggo me lo tengo per me. Al momento (è chiaro, qui siamo in Rete, è un’altra cosa) mi sembra la cosa piu’ sensata da fare. Insomma, quando arriva il momento di condividere (dio che odio), mi accorgo che non me ne frega niente di condividere alcunché con chicchessia. E poi mi conviene tenere il profilo basso, comunque.

    Il fatto è che, purtroppo, cambia la prospettiva. Non so come avrei visto le persone che sfioro passando, oggi, o la città in cui mi trovo, da un altro punto di vista. Fattostà che adesso sono in questa condizione, e questo è il mio punto di vista. Va da sé che tutto mi paia ripugnante, malvagio, angusto, soffocante, tetro, osceno e insopportabile.

    Non solo: credo anche che sia giusto e normale così. Quello che vedo adesso, insomma, è la verità. Una vita normale è una vita che permette di coltivare delle illusioni. (Ed è proprio per questo che la rimpiango. Solo che se mai potessi, un giorno, riavere una ‘vita normale’, alle illusioni dovrei rinunciare già in partenza. Non so se mi spiego).

    Sarebbe bello, forse, riuscire a descrivere esattamente quello che vedo e sento. Ma, in fondo, non servirebbe a un tubo, come qualunque cosa io possa, ormai, fare.

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    LXVII.

    8 Ott

    LXVII. Vorrei tanto essere di quei grafomani che si attaccano alla rete e fanno il conto dei peli del culo (come hanno risolto il problema della vergogna, peraltro?); ma non ci riesco. Essere pieni di sé è già essere pieni di qualcosa di raccontabile. Io tutt’al piu’ sono pieno di muco.

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    LXVI. Facce.

    5 Ott

    LXVI. Sono un po’ a disagio. Sono sicuro che riuscirò del tutto ovvio, quasi noioso — ma, in fondo, si è sempre ovvii e noiosi, quando si parla di Bello, di bellezza, di cose belle.

    Per un uomo a cui piacciono le donne è facilissimo, anzi quasi automatico, attribuire la bellezza di una faccia a quello che può avere di bello una faccia femminile — ovvero la regolarità dei tratti, le proporzioni tra le parti e i contorni smussati. Va da sé che la bellezza canonica, quella che si suppone, almeno a livello superficiale, indiscutibile, dovendo addossarsi se non aderire a un canone, finisca fatalmente coll’essere ripetitiva. Quello è il canone, quella (dunque) è la faccia bella, e quella no. Essendo le donne piu’ belle degli uomini, è giocoforza che siano tutte simili tra loro?

    Cerco solo di spiegarmi come mai io faccia fatica a riconoscere donne d’aspetto piacente tra loro, e come mai, innanzitutto perché non mi dànno problemi di riconoscimento e identificazione, io sia istintivamente piu’ attratto da una donna brutta. Su tutte queste cose (del tutto scontate) sono stati certamente scritti milioni di volumi, ma io I. non li ho letti, II. non sono interessato a leggerli, andando alla ricerca di tutte le complicate conseguenze di questi stupidi e rozzi fatti, per il semplicissimo motivo che non vedo quali conseguenze dovrebbero, rimanendo entro i confini del naturale e del sensato, avere. Per me le cose si riducono a questo: le donne brutte si riconoscono meglio, quelle piacenti sono sovrapponibili e intercambiabili. Potrebbe essere un buon punto di partenza per una disquisizione sulla bella zoppa, la bella nana, la bella cieca, la bella vecchia, la bella collotorto barocche, che tanto piacevano a Bian