PER LA SIGNORA X, GIOVANE DONNA, APPENA INTRAVISTA; MORTA. SVA ABITVDINE D’INDOSSARE LVNGHE VESTI FLVTTVANTI.
T’ebbe la terra prima che il mio oblio, Prima di vita che a me fuor di mente, Ora ombra in Ade non rammenti niente, E, vista appena, sei ricordo mio. Rubo il volto al non visto spicinio; Come uno m’apparì rifaccio a mente; S’è nulla il tutto tuo, quel tuo pallente Nonnulla è tutto, finché un che sono io. Postumo inganno, arra per te ubertosa Pare dell’ora tua fluttuante vita Quella che t’infiorava onda setosa: Velo a una fioritura ora appassita, Svelò a sfiorirti una Nemica ombrosa, Velò a illustrarti un’amistà fiorita.569. Epigrafe.
23 LugPer la tomba d’un celebre scrittore.
DISADATTATO, TIMIDO, INATTVALE, SCHIVAI LA VITA, E IN CARTE SON VISSUTO; SE SI PERDE QVEL SOLO CHE S’È AVUTO, CON RAGIONE MI DICONO IMMORTALE.548. Gashlycrumb Tinies 8.
26 Mag
Y sta per YORICK, che si prese un colpo in testa.
Curiosità appagare è una virtù Se più t’innalza quanto più va a fondo; E il tuo voler sapere o è stolto, o è immondo: Ché (il cuore ad avvilire) hai gli occhj in sù.Oh ad elevarti il Coppo viene giù: Par dire: “Hai domandato? E io rispondo; E, mentre il vero a te più non nascondo, Rivelo a me che cosa cerchi tu”.
Gli occhj abbassi; ma è tardi, te n’avverto: Ché (parrà strano) il Vero mai si vide Trovar passaggio dentro un cranio aperto;
Mentre al virtuoso Coppo ora sorride, Ch’è adesso fatto onninamente certo Che, se va in testa a un ebete, l’uccide.
547. Gashlycrumb Tinies 7.
26 MagX sta per XERXES, divorato dai topi.
Al saper ch’hai omonimo un monarca, A decollate Ziggure e Piramidi, Ròso il tuo piede da imbestiate Clamidi Tenero a te prepone dura Parca.Senza un padre a ridar capo coll’Arca, Spedando Sfingi, agli appiedati Abramidi; Senz’aspo schiavo che il colmo t’inamidi Di crespi regj alla letale barca.
Prima d’ergersi, a fondo ecco i tuoi casi; Ma, piccino, persino in te – che farci? – Più piccole entità davan coi nasi.
Gran morale potresti ora cavarci: Più in alto è il sommo, e più contan le basi. Né testa o piede hai più per arrivarci!
487. Sera estiva (nella veste grafica di Francesco Marotta).
17 NovCosì dovrebbe essere molto più leggibile rispetto a prima. Francesco, che è stato così gentile da fare una seconda versione, completa di tutte le 45 stanze, ha pensato bene di isolare ogni strofa, e dedicare a ciascuna una pagina. Forse la soluzione migliore, per un dettato così assordante. Chi non avesse ancòra patito questa tortura secondo me farebbe bene ad alleviarne i tormenti andandovi incontro direttamente dal link sottostante, senza passare dal letto di Procuste di quello che ho postato io; fruendo, tra tanti strazj, dei lenimenti della grafica comoda, e della ricercata immagine di copertina.
Grazie ancòra a Francesco Marotta.
243. “Rive” di Gabriele Frasca.
24 AprArrivo a Gabriele Frasca, di cui avrei dovuto léggere Santa Mira diverso tempo fa (quando ero in tempo a farlo, perché ce l’avevo tra mano), attraverso il neolinkato blog di falecius , a due mani – una delle due mani, l’estensora dell’art. linkato qui, è stata allieva di Marzio Pieri, che a Frasca si è dedicato anche nel contesto di un corso ormai di qualche anno fa. Ho dato uno sguardo, in contemporanea, a due volumetti di poesie (“Collezione di poesia”), Lime del 1993 e questo Rive del 2001, del quale ultimo ho l’impressione, girovagando per la Rete, che in generale si sia parlato di più. In effetti questa seconda raccolta è più ponderosa, ed è sparsa di etichette più centratamente barocche: una serie di Orologj segna l’inizio del libro, mancano totalmente componimenti senza rime, e verso il finale si incontra una carrellata di “ritratti critici”, denominati fenomeni in fiera, titolo, però, deplorevolmente reminiscente Chiambretti, più una serie di piccole parafrasi da McLuhan. La quinta sezione della raccolta, dal titolo rimavi, è costituita di sonetti.
Ho trovato quasi tutto scarsamente comprensibile, salvo un componimento, guarda caso grosso modo narrativo, dal titolo Molli, esempio di realismo postbarocco abbastanza smaccato, in cui è descritta una vecchia canara perseguitata dalla ragazzaglia: potrà non essere originale ma è riuscito (ed è riuscito, va da sé, proprio perché non è originale, ma c’è chi preferisce la riuscita all’originalità).
Uno dei Fenomeni da fiera, i componimenti satirici, i più risentiti, mi è sembrato particolarmente centrato, quello della Donna editor, che m’è rimasto impresso e che riporto così, currente calamo, come mi sovviene:
se la testa raccolgo nei racconti mi disse una figura senza forma con le mani convulse a fare i conti è perché do di calco dentro l’orma di ciò che senso ha solo nei raffronti e intreccia le sue corna con la norma e nel noto ritorna con gli sconti perché io so che quanto è stato detto va ribadito, affinché sia perfetto e che la vostra muta intelligenza della quale son filtro e quintessenza sonnecchia mezza viva coi dumasMette conto di ricordare però che tutti questi ritrattini critici sono ispirati al mondo dell’editoria (c’è posto anche per me, volendo: almeno quando scrivo post come questo rientro nella tipologia del brodo-recensore).
Strano l’effetto dei branetti da McLuhan, che deprecava la perdita di orizzonti cosmici in favore di una miopia specialistica nella nostra società, compartimentata ed “elettrica”; tra le mani di Frasca, questa predicatoria luttuosamente sociologico-gesuitica si riduce di significato, semplificandosi, e riducendosi a suono, a sberleffo, a finneghismo. L’effetto è strano perché la palinodia è eseguita da un verso filiato dalla poesia “sbagliata” che tentò di conquistarsi spazj nell’età della scienza (Gravina), assumendone le categorie, o creandosi categorie e prassi omologhe; per cui hai uno studio scientifico che guarda con nostalgia struggente alla poesia, come dev’essere definito qualunque pattern cosmico di qua da ogni formalizzazione; mentre la poesia che ricanta brani di questo studio recupera modalità ed etiche di una poesia che guardava con invidia alla scienza.
Ma è un ragionamento del tutto estrinseco a questi componimenti, che non mi pajono molto felici, esattamente come gli Orologj, che servono semmai a dimostrare, nascendo peraltro, quanto al nucleo originario, una manciata d’anni prima della raccoltina di Orologj barocchi per cura di Vitaniello Bonito (1996), come, con tutta l’acqua che è passata sotto i ponti, sia scivolata via anche parecchia perizia formale, e che quelle cose, su cui passiamo a seconda con compiacimento o con compatimento, fossero belle o brutte, oggi non si possono più fare. E comunque sono poemetti in prosa, il cui primo nucleo nacque per una serie di trasmissioni radiofoniche; laddove il tentativo di recuperare quell’ossessività, quella tragica allegria, quella polverosa micragnosità, quella maraviglia, derivando tutte queste barocche tinte in via direttissima dalla prassi, dalla costruzione paziente, da una forma mentis edificata, artifiziata, non poteva riuscire, mancando appunto al poeta d’oggi quell’organizzazione retorico-formale. Se era solo un omaggio, è un po’ lunghetto: gli orologj di Frasca (non solo a sole, a corda, ad acqua, &c., anche “a rime”, p.es.) sono una dozzina, e sono inerti e scarichi.
Il limite di una poesia d’oggi che sia nutrita di barocco è il limite tecnico: e già i barocchi avevano difetti al limite del sopportabile.
Avevo anche preso qualche appunto, come al solito, ma prendermi il disturbo di andare di là a prendere il blocco con l’unico scopo di tediarvi – non che tema il vostro tedio, ma non è certo il mio fine – mi fa sentire un coglione alla sola idea.
Qui il tempo s’è guastato jersera, nel giro di forse cinque minuti: il cielo si è coperto di un compatto strato nuvoloso, color piombo, lampi ramificati si sono allungati in mezzo al livore bollicante, qualche tuono s’è udito, qualche goccia è caduta. Al momento non piove, ma il sole è nascosto, e fa freddo, o almeno fresco. Il clima qui non è mai esaltante, nel corso dell’anno sono poche le giornate calde. Se poi considero la mia eccitante vita sociale, il surrogato di esistenza che trascino in questa città, la voglia di vivere che tutto quanto mi trovo intorno mi dà, i libri che ogni tanto m’induco – chissà perché – a léggere, insomma, non posso dire di trovarmi davanti un quadro troppo positivo.
238. Passeggio.
25 Mar
230. “Turin” (da Benn).
7 Feb“Vado, le scarpe rotte, per la via”, Ha scritto il grande genio universale Nell’ultima missiva — stette male, Lo portarono a Jena — psichiatria. “Libri per me non riesco a comperarne, Sicché li leggo nelle librerie; Appunti — esco a comprarmi un po’ di carne: — Così, a Torino, le giornate mie”. Lor Fetenzie la pancia piena rasa A Pau, Bayreuth, Epsom s’ingolfavano. Abbracciò due ronzini che passavano, Finché lo trasse il suo affittuario a casa.
Con qualche licenza, da Gottfried Benn, Poesie statiche 1935-1946.
229. La stazione ferroviaria di Nettuno.
3 FebTu che credevi ogn’atto tuo, ogni passo Assiduamente vigilato, e attento L’Occhio ostile a ciascun tuo movimento, Apprendi il vero, e restaci di sasso: Per gogne e roghi è aperto il sottopasso Della stazione, a usarsi a piacimento: L’Occhio non fa la spia, se manca o è spento. Apri il bavero; & rialza il capo basso. Ostacolo non è alla privatezza, Cieca, la scolta, & ai diporti tuoi: L’Occhio è là, ma di te non ha contezza! Getta maschere, sciarpe, & va ove vuoi; Bando alla paranoja! alla tristezza! (In più, ora sai che ffà, quando t’annoj).
228. Unruhe.
28 GenInvano pensi che dai contrappesi Che le ore per tuo tramite misurano, Tratti i chiodi che sempre ti torturano, Di libertà godrai gl’istanti attesi. Se mai ti vedrai sciolto dagli arresi Ferri che tempo al tempo qui assicurano (Ché le cose che durano non durano), Peso morto cadrai coi morti pesi. Pari a te mi sembr’io, triste Inquietudine, Che oscillando, agitandomi, un mai sorto Mattino aspetto tra martello e incudine: Così aspetto, né requie ho, né conforto (Ma immoto!), libertà: beatitudine Che godere potrò solo da morto.
225. Sonetto.
9 GenUna bagascia istituisce un paragone tra la propria funzione e quella dell’orologio. Ambo battiamo; però proferita E’ da te l’ora; a me «Ora!» si dice, E sovente più volte, ah me infelice!, Prima che intera un’ora sia finita. Mentr’è in ciò la mia sorte alla tua unita: Nel ripartire il tempo; e nell’altrice Mano ostinata d’ambedue motrice Finché resti la macchina sdrucita. Da un solo ufficio la vicenda alterna Delle di lei durate è regolata, Che la consuma dalla parte interna. E poi che resta tanto scardassata Che buon tempo non più un po’ vi si scerna, Come oramai inservibile, è gettata.
219. Al Sonno.
17 NovIPNO, tiranno già, ora refrattario Anarca, & infingardo, che tra reti Capziose tra il volere mio divario Ponesti spesso, & storici, & poeti, Perché mai neghi adesso il necessario Riposo, o, dove sia, che mai Ti vieti Indurre in me & oblio, pace, & ristoro, Io non capisco, io non mi spiego, io ignoro. *** Vero è che cristallizza a me le notti In veglie raggelate ispido Arturo, Che gli occhj a me con ghiaccj non mai rotti Spalanca Inverno irrigidito & duro, E so se inane vi s’opponga, & lotti (E in specie quando esposto all’aere oscuro) L’intrinseco calore, e trovi immiti Ceppi di brine, e sbarre in stalattiti. *** Vero è che l’incombenza irta di Crono Periunt & imputantur mi deversa Contro, da quant’intorno a me vi sono Quadranti, rinfacciando la perversa Vita a me, che vaneggio, & che sragiono, In ogni ora additando un’ora persa, In ogni dì additando un giorno in meno, E in fondo al tempo vuoto un fosso pieno. *** Vero è che, nel girarsi, il diffidente Sguardo, per imprudenza ormai sottile, Non scorge un volto umano tra assai gente, Non vede gente amica in clima ostile, Non ha clima secondo in terra algente, Non trova salda terra in fogna vile, Sicché Ti teme, e ai sogni Tuoi non cede, Perché rinati da quel ch’esso vede. *** Vero è che, del passato incubo atroce, La memoria di sangue deturpata Mi garrota le notti, e con la voce D’alcuna ombra negletta strambasciata S’oppone a che abbia pace, e più feroce Si fa nell’ombra, & torva, e allucinata, Che me in tant’anni ha perseguìto tanto Che seccò il sangue al cuore, le urne al pianto. *** Vero è che la Vergogna inveterata, Che oggi arrossisce come alla prim’ora, Contro m’è volta, e con la sua annodata Sferza mi sferza, & che non mai scolora Spiega scoprendo faccia butterata, Ché è quella lue che la fa rossa ancòra (Lue che arde però meno della fretta Ch’io compia in chi la merita vendetta). *** Vero è ben tutto questo; ma se questo, Mina della mia fabbrica infiacchita, Coll’urto suo prevale, atro & funesto, Sull’anelito a conservar la vita, Dunque l’estremo limite m’appresto A valicare; & quest’ombra avvilita In cui, sono anni, affondo non disdice A un passo d’altri più non infelice. *** Ma se è vero che etern’oblio m’accoglie, Quanto a schiudersi tarda atrocemente! Dunque Tu scendi, e tocca queste spoglie Con la virtù che è Tua, pietosamente: Con la virtù che dal dolore stoglie, L’ultime volte a queste membra spente Dà conforto; & insegnami le torte Vie per cui s’entra al regno della Morte.
205. Da conversazione (a g.).
8 OttPoi che mia madre giù dalla finestra Una per una buttò le mie borse, Sicché mi trovo del futuro in forse, Battendo in giro un piatto di minestra, Odo che mossa tarda, ora, & maldestra Dal crollo i grassatori non soccorse, E chi già allegro speculò & estorse Farfuglia ora Ave e Pro peccata vestra. Se piansi, allora, ora che a pavimento Giaccion le borse vostre, oh sfruttatori, Non m’importa che scarso emolumento Frutti la borsa a me dei passatori: Purché vi tocchi un po’ del patimento Di stare all’aria, e con le borse fuori.
202. Abbastanza bene, grazie.
29 SetSenz’occhio di riguardo a ciò che sento (1), O ai numerosi impegni (a cui non crede Quasi nessuno, in verità), si chiede Spesso da me qualche componimento. Senza inferire intoppo, o patimento, Che alla musa dispiace, e che mi lede, Senza cui solo con baldanza incede Coi suoi numeri Clio, che odia il tormento. Senza pensar ch’io abbia le risorse Impegnate in qualch’opera importante, Immatura tuttora, e ancòra in forse. Senza idea della mia borsa vacante. Senza sospetto di sventure occorse. Comunque, sto benino. Grazie tante. —————– (1) Qui c’era un’ipermetria. Così impari a improvvisare. Stronzo.
197. Sera.
9 Ago
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