Tag Archives: osservazioni

553. Il ’99.

22 Giu

Quest'orrendo olio è un ritratto immaginario de La Sanfelice.

Non manca forse d’interesse la disputa, alla quale il Palasciano m’invitò a partecipare (ma io mi do il tempo solo di quest’oretta di connessione, la mattina, e il blog basta e avanza), circa il ’99, i giacobbe e i sanfedisti. La disputa, chi vuole se la riveda su facebook, dove il Palasciano ha presenza più intensa, e comunque i link ci sono, era cominciata dall’allarme lanciato per la minacciata chiusura dell’Istituto per gli studj filosofici presieduto eroicamente dal prof. Marotta, un’istituzione della cultura italiana, che comunque già anni fa s’era ritrovato costretto a rinunciare alcune proprietà per mandare avanti un’organizzazione che, nonostante sia fecondissima d’iniziative di momento, e nonostante esse iniziative siano seguitissime e abbiano dato luogo a pubblicazioni prestigiose, non riesce ad ottenere quello che è stato statuito ottenga, ossia i soldi per andare avanti. Non c’è nessun motivo per cui lo Stato non debba sostenere iniziative che evidentemente la collettività recepisce come utili & comportevoli. Ovvio: chiunque, a partire – scommetto – dagli stessi appartenenti all’Istituto, si augurerebbe di poter andare avanti senza contributi di sorta, o che essi fossero solo una parte degl’introiti; ma si dà il caso che o un’organizzazione, di qualunque tipo, ha fini di lucro, o comunque ha un’impostazione di tipo anche commerciale, o non ha: tertium non datur. Non si può rimproverare ad un’iniziativa culturalmente rilevante di non incassare moneta sonante, dato che la legge non lo consente. Legge che, però, consente che un vecchio professore si tragga il sangue di vena sparnazzando del suo, per attirare personalità sul fondo dello Stivale, e permettere a folti uditorj di conoscere e apprendere. Continua a leggere

411. Senti chi parla.

31 Ott

Lamentavo tempo fa su “L’Indice” (giugno 2002) la bassa qualità della prosa tedesca contemporanea pubblicata da Feltrinelli.

Anna Chiarloni, Su Uwe Johnson, “L’Indice” genn. 2003.

Ma avesse pensato un po’ di più alla sua, di prosa!

‘sta carampana.

263. E mo?

12 Giu

Non ho mai avuto un passaporto, prima.

Sono stato in p.zza Cesare Augusto, in Questura, Ufficio Passaporti; c’era anche, volendo, una fila della madonna, ma non era cosa che – ancòra – mi riguardasse, poiché sul modulo che il poliziotto mi ha dato da compilare c’è scritto che devo presentare:

  • Il modulo stesso, compilato in (quasi) ogni sua parte
  • Fototessera 2 di dimensioni, &c., sfondo chiaro, &c., distanza dagli occhj, naso, palpebre & sopracciglia &c. mm. tot &c. &c.
  • Fotocopia del Documento d’identità
  • Marca concessioni governative euri 40, 29
  • Versamento su cc postale di euri 44, 66 per costo libretto da 32 pagine (quelli da 48 o quello che  sono li hanno esauriti, arriveranno a fine giugno – ma me ne fregasse qualcosa).

A parte il fatto che versamento e acquisto della marca erano impensabili prima della chiusura (ore 13.00), e che domani ovviamente tutto è chiuso, per cui tornerò con comodo lunedì, la cosa meno sopportabile è che dal momento della presentazione della domanda si deve cominciare a fare una sola cosa: aspettare.

Tutto è relativo, ovviamente, a partire dal concetto di poco e di molto. Nel mio caso la bellezza (bellezza?) di venticinque giorni, esatti, è una cifra di giorni canonica, prestabilita, una specie di temporizzazione della consegna del passaporto, pochi non sembrano. Specialmente perché lunedì, che è il 15, non pensavo di passare per uno squallido ufficio passaporti a consegnare moduli e bollettini e marche concessioni governative. Pensavo di mettermi in cammino.

Quando il passaporto sarà a disposizione, e io sono convinto, intimamente, nella fibra, che mi sia nientemeno che indispensabile – non voglio assolutamente partire senza, poni il caso mi venga voglia di deviare verso Oriente, o di andarmene affanculo da qualche parte in Africa; nel caso, partendo senza, dovrei fare una cosa orribile, ossia tornare, e presentare richiesta; dopodiché non sarebbe una cosa che risolvi una botta e via, sarebbero sempre, appunto, venticinque giorni -, sarà luglio.

Non mi sembra umano.

Ho tre giorni per pensarci. Sono 85 euri di spesa; & 25 giorni di attesa. Devo decidere.

262. Quanto sia importante tutto ciò.

11 Giu

Non c’era motivo per cui mi facessi vedere alla manifestazione di jersera, essenzialmente per due motivi, uno dei quali si evince, sicuramente, anche dal mio pregresso pezzo, ed è proprio la mancata comprensione, da parte mia, del motivo per cui alcuni operatori, nonostante il loro posto di lavoro non sia affatto a rischio, abbiano deciso di scioperare e/o manifestare. Lo sciopero, peraltro, che alla fine doveva consistere nel tenere chiusi i dormitorj (sic!!!) almeno fino alla mezzanotte di jeri, è stato revocato; ma la manifestazione c’è stata lo stesso. Altro motivo per cui non ardevo dalla voglia di vedere come andava era nel fatto che mi sembra poco coerente fare sforzi per interessarmi a cose che non mi riguardano più, non almeno in questo specifico: ho detto che me ne vo, avrò più logicamente da pensare alla partenza & ai preparatìvi per la stessa, e non certo a come se la sfangano gli OS di Torino. Terzo motivo, certe presenze, antipatiche insoffribili forse pericolose, tra gli stessi operatori presenti (e anche tra i barboni, di conseguenza) dovevano ispirarmi prudenza.

Ma quando dormo fuori, e non è ancòra ora di dormire, cammino parecchio per il centro, gravitando intorno a via Po, p.zza Castello, via Cernaja, e, appunto, p.zza s. Carlo, alternando questi passaggj alle letture, che faccio ovviamente perlopiù in panchina, da qualche parte – ma ho notato che non mi piace metter radici in p.zza Carlo Alberto piuttosto che in p.zza Carlina, sono irrequieto, e mi muovo spesso.

A causa di questa mia irrequietudine sono passato diciamo tre volte in piazza s. Carlo, dove ovviamente ho approfittato per gettare l’occhio. Il concorso di popolo era più consistente del da me previsto; ma è vero anche che trattavasi di operatori, non solo di quelli dei dormitorj, per la più parte, più una fetta consistente di barboni; con qualche curioso esterno a queste problematiche che poteva essere attirato dalla musichetta che hanno cominciato a fare più sul tardi. Insomma, se la sono suonata e se la sono cantata.

Sono passato la prima volta alle 19.20, una seconda volta alle 21.15, una terza verso le 22.30. Il mio quarto passaggio è stato dopo mezzanotte, quando avevano sbaraccato tutto quanto. Al primo passaggio una donna che non ho riconosciuto stava raccontando un macchinoso apologo che parlava di un senzatetto e di un ministro, scandendo ogni parola con voce molto alta; non m’è parso meritasse, e ho tirato in lungo. Al secondo passaggio mi sono avvicinato, mentre tre, quattro cantanti-giullari proponevano sul piccolo palco alcuni canti della Resistenza con molti lazzi; ho individuato Andrea, che mi ha detto che per lui era andata benissimo, che c’erano stati parecchj interventi, tra cui quello che ho riprodotto qui sotto, peccato che lo spicher avesse qualche problema tecnico a reggere il foglio mentre leggeva, sicché c’è voluta un’operatrice (d’altronde, son lì anche per quello) che glielo tenesse sciorinato davanti alla faccia per consentirgli di disciferarlo e giungere fino in fondo. Poi ho salutato Gene, a cui ho chiesto se era presente una tal persona; lui mi ha chiesto se per caso trattassesi di una lesbica (chi potrei mai cercare, tra cento persone, se non una tribade?), al che ho risposto sì, e lui mi ha additato una persona che, all’incontrarla poc’avanti, gli era rimasta molto impressa proprio per questo suo fenotipo così spiccatamente saffico: infatti, era lei. Ho poi visto Guazzo, che – noto – è imbiancato parecchio (non capisco se sia cosa degli ultimissimi tempi, o se prima si tingesse), Rosa seduta abbastanza in disparte e dall’aria incongruamente attenta e intenta, Emanuele col quale non parlo, Mohammed col quale non parlo perché non saprei proprio che cazzo dire, due, tre, cinque, forse dieci o dodici barboni che andavano dal portatore di aspetto passabilmente familiare al ben noto; & alcuni altri di cui già non me ne frega niente a me, figuriamoci a voi.

La cosa stravagante è che nel porre alla menda quel pezzo, poi di fatto – per quanto faticosamente – letto durante la manifestazione, mi ci ero effettivamente un poco appassionato. Non per il mio caso personale, ma per altri casi, più gravi, o quelli sì veramente gravi, ai quali il Comune non provvede. E’ vero, e continuo a pensare, che sia sicuramente vergognoso far marcire uomini e donne di mezz’età in posti del genere; è sicuramente vero che il Comune mette a disposizione pochi fondi e sostanzialmente fa quasi nulla per alleviare sofferenze, disagj e venire incontro a tante ineludibili esigenze. Altro, naturalmente, è riconoscere una disfunzione, un’incuria, un’ingiustizia; altro è potervi, o sapervi, o esservi chiamato a, por riparo in qualunque siasi modo. Io ho, personalmente, gli affari mia a cui pensare, e il fatto che non siano esattamente poca cosa mi rende decisamente piuttosto inutile per qualunque causa comune. Ma non è solo questo: se volessi essere generoso, e soprattutto percepissi veementemente l’utilità di mobilitarmi per sovvenire altrui, meno fortunato ancòra di me, suppongo lo farei. Ma non è così che sento.

Mi  sono reso conto che qualcosa in tutto il ragionamento non va proprio la mattina, quando ho tenuto pallino per un quarto d’ora buono sulla faccenda, industriandomi a spiegare col massimo della passione che ci sono numerosi cinquanta-sessantenni che, trovatisi licenziati dall’oggi al domani, con pochi anni mancanti alla pensione, senza famiglia, si sono ritrovati in mezzo alla strada, e non sono coperti dai servizj, e trascorrendo lunghi periodi in strada spesso si sentono male. La perplessità – che veramente, in sul momento, non capivo – dipinta in viso alla mia interlocutrice il primo mezzo minuto ha lasciato gradualmente il campo ad un’espressione ancòra più incomprensibile, con alcunché di ostile, ossia respingente, o contrariato – ecco: contrarietà è l’espressione esatta. Se non mi avesse ascoltato con attenzione avrebbe avuto l’occhio vitreo, o avrebbe sbadigliato, o avrebbe interrotto con un gesto vagamente insofferente la lunga querimonia spargendo un po’ di cenere di sigaretta nell’aria; ma era proprio attenta, e quello che dicevo non le piaceva per niente, e persino io che non capisco quasi mai quello che non m’aspetto sono stato costretto a leggerglielo a chiare cifre espresso nella fisionomia.

Il momento in cui  ho realizzato, come dicheno gli Americani, deve essersi riflesso in qualche esitazione o della fisionomia o dell’espressione, perché l’interlocutrice – al momento ridotta dalla mia parlantina a qualcosa di molto più prossimo al silenzio assoluto che alla odd sentence, come dicheno gl’Inglesi, lasciata cadere di tanto in tanto – ha inarcato le sopracciglia, cosa che le ha conferito un’espressione ancòra più fredda, e mi ha fatto una di quelle domande che pur non essendo retoriche contengono già una risposta – e non so se mi spiego; ma forse si spiegherà la domanda stessa, che è stata: “Sono tanti?“.

Chiaramente, non volendo buttare la spugna così sùbito, ho armeggiato un po’, ho detto naturalmente che sì, sono tanti, che la Fiat a suo tempo ne licenziò moltissimi, che molti hanno — stavo per dire “finito i soldi della liquidazione”, ma a questo punto mi sono frenato, perché m’è balenata in mente l’idea che a questo punto mi sarei potuto arenare su un’altra di queste semplici domande non-retoriche, del tipo: “E perché?“, dopodiché avrei armeggiato inutilmente e ce ne sarebbe stata un’altra, e un’altra ancòra, finché non mi sarei arenato definitivamente. Ho preferito puntare a poppavia di dentro a una sirte, così ho evitato alla mia interlocutrice, con la quale potevo parlare di tante altre cose molto più interessanti, di levare i venti contro la stessa. Ho creduto quindi bene concludere la mia sconclusionata prolusione con un balbettio indistinto.

Già: quanti sono? E soprattutto: Sono tanti?

Domande a cui non so rispondere. So che i servizj sono insufficienti, ma è vero anche che i servizj sono una cosa penosa. Non siamo in Inghilterra, o in Scandinavia, o in qualunque paese avanzato dell’Europa occidentale, dove il servizio pubblico funziona, nel senso che da strutture del genere esci veramente entro breve termine, dove trovi un lavoro con relativa facilità, o ti è dato, e dove il sussidio non è un pourboir, come dicono i Francesi, o un poco d’argent de poche che non serve nemmeno per un caffè di tanto in tanto, o le sigarette.

Piazza s. Carlo non si è riempita. Ma come? Non esiste più la miseria? Non ci sono i poveri, i licenziati in tronco di mezz’età, i barboni, le famiglie a rischio? Ci sono: ma non vedi spettacoli d’altri tempi con eserciti di affamati che invadono le strade, chiudono i passaggj fuori dalle chiese e dai pubblici esercizj, che manifestano sotto il Comune, che infastidiscono gli abbienti, che si buttano a dormire per traverso sotto i portici. Ci sono, ci sono anche quelli: ma non sono legioni. Non sono tanti.

Nonostante la crisi, nonostante i soldi che sono razzolati da pochi a discapito di tutti, questo è un paese che non è infettato dalla piaga della barbonia; non al livello che si verificherebbe in qualsiasi paese nordeuropeo quando si toccassero, per qualche motivo, gli  estremi di una crisi economica di pari intensità – perché io credo che soldi ne girino in generale molto pochi, molti meno che in altre zone d’Europa. Là squadre di sbevazzoni puzzolenti infesterebbero ogni angolo di strada, un negozio su due avrebbe le vetrine spaccate, la crisi duramente scontata dai più deboli diverrebbe automaticamente emergenza sociale.

Qui non succede, perché da buoni terzomondisti quali ancòra siamo, ben distinti dall’uomo civile per il prevalere dell’uomo naturale, privo affatto dei concetti di sovranità e di individuo, quando c’è la crisi – e una crisi da noi può durare anche mezzo millennio, e noi, credo, appena ce n’avvediamo – ci stringiamo l’un l’altro insieme, per non patire il freddo, la fame e soprattutto le cattive figure: li chiamano, e certi ne sono fieri, commossi, i veri ammortizzatori sociali. Quasi tutti hanno una famiglia, un parente, una nonna, uno zio, un ex-consorte, persino figlj, o nipoti. Ci pensano loro, i parenti.

L’unico censimento ‘completo’ mai fatto finora, a cura della fondazione Zancan, è stato quello della notte del 14/03/2000, in occasione della quale furono contati tutti gli ospiti dei dormitorj, i barboni gravitanti intorno alle stazioni e agli altri ripari più o meno di fortuna noti agli operatori del settore; da questa conta venne fuori una cifra, sicuramente da considerare inferiore al vero, che non raggiungeva le 100.000 unità. Una pubblicazione a cura dell’Assessorato all’igiene del Comune di Roma, dello stesso anno, conteneva una stima pari al doppio, evidentemente da ridimensionare. Ultimamente si parla di 30.000, di 50.000, di 80.000 persone. Sono poche – già lo avevo detto in altra occasione. Sono meno degli Ebrei e degli Avventisti del settimo giorno messi insieme. Le Soroptimiste saranno il doppio, suppongo; per raggiungere una cifra del genere basterà mettere insieme i malati di corea di Huntington, di cerebropatia spongiforme, di lebbra e di gomito del tennista. E’ verosimilmente sufficiente raddoppiare il numero dei casi di neonati bicefali e tripigj nell’ultimo anno. Non sembra nemmeno una categoria a rischio. Sembra un’élite. Potrebbero costituire un Club dei Mestieri Stravaganti, o un circolo di bocce.

Nell’inverno 2008 i barboni a Milano erano 1600, e per censirli ci sono voluti 240 operatori: un operatore ogni 6,66666666666667 barboni, ci avranno messo un minuto e mezzo a testa (compresa la verifica e la prova del nove), e poi si saranno messi tutti a giocare a strip-poker con le mignotte della stazione.

Qui a Torino le cose non possono essere più disastrose. A dir tanto (bisogna considerare che Milano è la 2a città più popolata del Paese, Torino dev’essere oltre il decimo posto, ha un milione di abitanti) avrà 1000 barboni, gente veramente buttata in mezzo alla strada. C’è un flusso di extracomunitarj abbastanza continuo, è vero, ma sono anche i primi che si sistemano altrimenti, vengono qui, in fondo, per lavorare; sono il fior fiore della loro gioventù, non uomini di panza che hanno logorato completamente il proprio rapporto con il contesto (gli stranieri comunitarj sono fuori discussione, perché un anno fa il Comune decise di concedere loro solo 3 mesi tra frequentazione e permanenza effettiva nei dormitorj, dentro tutto, e la stragrande maggioranza ha stabilito di rimanersene direttamente fuori). Credo ne circolino 1000, ad essere generosi 1200 (!). Il Comune mette a disposizione 7 strutture (comprendiamole tutte, anche quelle appena chiuse), per 24 posti medj l’una fanno 168 posti; più i privati, Ormea, Negarville (o s. Luca che dir si voglia), Sermig, che faranno almeno altrettanto; mettiamoci Sacchi (prima accoglienza + attempati), Marsigli (alta soglia), Ghedini (attempati e malati) e poco altro, arriveremo io credo a 400 posti in tutto (avevo il conto esatto, non so dove ca. l’ho perso). Qualcuno – anzi, anche più di qualcuno – rimane fuori tutte le sere (nel senso che c’è sempre qualcuno a cui tocca, non nel senso che sono sempre gli stessi, ci mancherebbe); si sente la differenza quando ci sono i nuovi arrivi in massa dall’Africa (per l’accoglienza di una fetta di questi, profughi, in v. Bologna sono state escogitate soluzioni praticamente autogestite, almeno in fase iniziale), che sono la variabile più importante. Per il resto lo ‘zoccolo duro’ è poi sempre quello.

E’ vero, i posti sono insufficienti, ed è una vita logorante, soprattutto per chi non è più giovinetto e ha il peso di una vita da portarsi sulle spalle. Ma se i barboni, molto semplicemente, gli homeless, i senzadimora, i senzatetto, i senzacasa, gl’incapienti, i nullatenenti, fossero semplicemente troppo pochi sia per ispirare politiche realmente efficaci e risolutive, sia per sollevare utilmente, quantomeno, il problema? Tanti quanti sono, probabilmente, non rappresentano un’emergenza. Sono, loro, personalmente, in condizioni emergenziali, talora anche persino disperate; ma nel complesso sono solo la dimostrazione vivente, come chiunque, solo da una specola un po’ particolare, o molto particolare, che la vita non tratta tutti allo stesso modo.

Ecco, io non auguro a nessuno di fare questa fine (anche perché un augurio non basta; io ricordo, per quanto mi riguarda personalmente, ed è una cosa che riconosco anche in quello che ho potuto intellegere della maggioranza dei casi di cui sono venuto a conoscenza, ovviamente diretta, parlando con i compagni di sventura, che il processo di barbonificazione è lungo e complesso, segno che è a sua volta non una condizione nella quale l’individuo è immerso, quanto il frutto di una sua progressiva trasformazione – il mio punto di vista, da allora, è cambiato per esempio moltissimo), ma rimane il fatto che se fossimo in una società meno ‘naturalmente’ ammortizzata, per cui uscire dalla famiglia il più delle volte non è solo difficile, ma anche poco auspicabile, sicuramente il numero dei senza tetto sarebbe dieci volte, venti volte, cento volte superiore. In quel caso si avrebbe la vera emergenza; e, paradossalmente, i mezzi che adesso lesinano, essendo la questione in fondo a tutta una scala di priorità, sarebbero molti di più, in modo apprezzabile anche a livello individuale, almeno così credo: il rapporto con le istituzioni, per quanto riguarda queste evenienze e il tipo di servizio necessario, si ridurrebbe a una cosa davvero temporanea, da lasciarsi rapidamente alle spalle.

Sono stato, nella jetta, fortunato ad elaborare una mia idea di narrazione di questo tipo di vita; l’isolamento mi ha permesso più lucidità, quella necessaria a scegliere un taglio del tutto diverso rispetto a quello normalmente adottato nel trattare queste questioni (quanto precede questa parentesi vuol dire che intanto il taglio c’è, adesso si tratta di fare il libro – purché non succeda altro, famolecòrna). E uno sguardo assolutamente solitario sul fenomeno, chiaramente in termini autoriferiti, sulla città vista da quest’angolatura, su tutto quello che di ‘normale’ e di ‘anormale’, di scontato e di imprevisto si accompagna a questa condizione (?), è quello che ci vuole per raccontarla senza propinare qualcosa di irrimediabilmente falso, guasto, ai malcapitàti lettori.   

Per ora è un mondo che si autoalimenta, non grande e non piccolissimo. Per quello che è, come mondo di relazioni, come ‘sistema’, può essere raccontato o nel momento in cui morisse, cessasse di esistere – qualora tutto si risolvesse -, o quando fosse diventato talmente imponente da far intravedere, da lungi, una guerra civile. Chissà quanto ancòra funzioneranno i nostri tradizionali ammortizzatori – non posso sapere quando, ovviamente, ma anche l’Italia si adeguerà, presto o tardi, agli standard di un po’ tutt’Europa, e non potrà più nascondere a sé stessa le crisi quando arriveranno.

Peccato, comunque; peccato che sia stata un’esperienza tanto poco esaltante, & formativa.

258. La funzione di questo blog.

6 Giu

Se c’è una cosa altamente positiva (ma anche altamente negativa: dipende da quello che scopri) di un blog wordpress, è che appena accedi, come autore, alla board, vieni a sapere immediatamente non solo tutto quello che vi succede, che è scontato; ma, grazie alle statistiche in bell’evidenza, anche l’esatto perché delle visite al blog stesso – mica è la stessa cosa!

Vale a dire che ho scoperto che il motivo che può spingere i lettori qui sopra possono essere diversissimi da quelli che ho io a scrivere. Tutti i bloggeurs hanno esperito come effettivamente una fetta dei proprj visitatori debbano la loro venuta alle ricerche più strampalate tramite motori di ricerca, e come due o tre parole-chiave, che possono portare su siti dei tipi più disparati, parole che il bloggeur non ricordava nemmeno di aver scritto, possano portare persone dagli interessi del tutto esorbitanti a queste serendipità. Succede anche coi testi copincollati, specialmente quelli che contengono idiozie sesquipedali, o dal fascino singolarmente trash per la volgarità devastante (il copincolla incoraggia questi trasferimenti in blocco senza richiedere sacrificio alla schifiltà del bloggeur più scrimitoso: altro sarebbe dover copiare, fisicamente, ogni cosa: ci sarebbe automaticamente una scelta), poniamo gl’interventi più deliranti su fora molto popolari, o la pornografia casereccia di certi siti a bassissima soglia. Alcuni di questi ricercatori – che uno s’immagina necessariamente come adolescenti soli, ninfomani sboccate, satiriaci impotenti, chissà perché, mentre magari non c’è niente di più distante dalla realtà – si affezionano a certe ricerche, o ne sono addirittura ossessionati, come succede a me con lo sconosciuto compulsivo che cerca sempre nonna bocchinara e a letto con la zia (il primo ha fatto lievitare le visite a quei post che hanno in scolio l’autobiografia di Luca Bersi, i secondi lo sparutissimo articolo con la citazione dal sequel de La zia Mame, tanto per dire quanto c’entrino).

Però questi sono casi diversi da quello che, con un po’ di perplessità, ho esperito anch’io. Questo blog non è stato aggiornato continuamente, e ci sono anche parecchj buchi temporali, settimane e forse mesi in cui non ho scritto niente; però il trend rimane, sia pure in maniera abbastanza velata, visibile: si parla di letteratura, ci sono sonetti, riferimenti abbastanza fitti al Barocco (su cui sono stranamente pudico, lo dico retrospettivamente, nel senso che non me l’aspettavo), al melodramma, &c.; e poi ci sono i riferimenti, più o meno scarni, alla mia situazione vagamente stradajola e gli sfoghi estemporanei; e alcune altre cose che riflettono quello a cui penso, almeno quando scrivo, la maggior parte del tempo. Però ho anche fatto riferimento a cose e persone – soprattutto a queste ultime mi riferisco – che non fanno parte del mio universo di significato, e che ho voluto incontrare, o rievocare sulla base di ricordi, consapevole di portarmi dietro un bagaglio di vissuto e convinzioni non necessariamente compatibile – ma, mi sono detto, come ho potuto vagamente interessarmi di altre realtà che non quelle mie più congeniali, così posso anche scriverne.

L’aspetto paradossale è quello denunciato dalla top list, vale a dire quella statistica generale che riflette l’andamento di tutti i 258 post scritti finora; nemmeno uno contenente miei versi o una mia lettura ‘alta’ vi è compresa. Al primo posto c’è Sonia Cassiani, dopo che per mesi era stata seconda, di cui ricordavo le imprese al Maurizio Costanzo Show; al secondo Giuditta Russo, che venne qui, anche, a commentare, e accolse con molta gentilezza le mie critiche al suo lavoro, che secondo me rifletteva una situazione esistenzialmente e psicologicamente comunque non stabile; al terzo c’è un post in cui ci sono le parole-chiave di una settimana di tempo fa, alcune delle quali parole erano continuamente ricercate prima, e continuano ad essere ricercate adesso, tanto da dare l’impressione di parole-chiave che cerchino sé stesse; una mia filza di quartine, è vero, occupa il quarto posto, ma stando a quello che mi dicono le parole-chiave, e anche la cascata dei commenti, dipende solamente dalla polemica ospitata sotto esse quartine, non alle quartine stesse. &c.

Questo leggo sulla dashboard:

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E’ lecito, da parte mia, chiedermi, in base a questi dati, a che cosa sia servito questo blog?

Da una parte i visitatori che mi conoscevano da prima, e che qualche volta hanno commentato, chessò, alcor, isakisisos, ven, ziacap, opi, francesco, hanno continuato, almeno stando ai commenti, ad interessarsi alle cose mie più personali; altri, visitatori occasionali, hanno tenuto a farmi sapere quanto mi disprezzano, magari senza più manifestarsi; ma esiste tutta un’altra fetta di pubblico, che con ogni evidenza è prevalente, che qui viene a leggere tutt’altro, e ha portato i margini del mio blog al centro – di che non lo so: della propria attenzione sicuramente; ma soprattutto della mia.

Che poi quest’attenzione, che non so donde nasca e che non condivido nell’intensità, non significa affatto attenzione di lettore: ho ricevuto anche la mail di uno che diceva di essere un giornalista, di aver visto che avevo intervistato (sic!) la Cassiani, e se avevo ancòra il suo numero di telefono.

Chiaramente non era successo nulla di tutto questo, io la Cassiani non ho mai avuto modo d’incontrarla, men che meno d’intervistarla o di averne il numero di telefono. Poteva essere un giretto ispettivo, come il tentativo di eliminare un sospetto, come uno scherzo: non so nulla.

Anche se di recente m’è parso di scoprirmi dentro una vena intervistajuola; tant’è che Remo Bassini, senza che nemmeno avessi osato proporglielo (avevo confessato una velleità), mi ha dato la sua disponibilità per essere vittimizzato da una sequela di mie domande [alle quali sto effettivamente pensando]).

La mia top list ha profeticamente anticipato, forse, una tendenza che prima o poi si sarebbe manifestata in me: quella di una specie di marzullo autogestito. Rimane, anche, il fatto che Sonia Cassiani e Giuditta Russo sono le colonne portanti, che io lo voglia o no, di questo blog. Io ho continuato a scrivere ottave e resoconti di lettura, mie riflessioni sulle notti di Torino e invettive contro gli operatori. Loro, manco fosse Tv sorrisi, hanno continuato a rileggere i tre articoletti riguardanti queste eterodosse gentildonne.

E’ come scoprire di aver sempre voluto, in realtà, tutt’altro rispetto a quello che si credeva; come Riccardo Greenhow (ma io l’avevo messo, ricordo bene, tra i miei musi ispiratori; insieme alle sorelle Maddox, cui credevo di assomigliare maggiormente), che di giorno pensava a cose alte, e scriveva romanzi rosa in stato di sonnambulismo.

A questo punto, perché non portare tutto alla luce del sole?

Adunque: essendomi scoperto piccolo intervistatore; essendomi già visto attribuire un’intervista da un visitatore, per quanto sia successo solo una volta, e sia stata un’esperienza fuggevole; dovendo probabilmente crearmi un parco-intervistati di qualche spessore, per non lasciare il povero Bassini da solo; dovendo trovarmi pure qualcosa da fare, oltre alle 375837252187 che già ci sono, la settimana prossima, perché non propormi in questa inedita (o quasi: ci sono due cosucce mie in questo senso, in rete, a quella scellerata di Gianni Papa e ad uno scrittore di cui non ricordo nemmeno più il nome – l’idea era sempre di papa) veste?

Qualcuno vuol farsi intervistare?

Chi vuole aderire accj un grido, alzi il medio, mostri dove il nonno portava l’ombrello – insomma, faccia sapere.

253. Vendetta.

22 Mag

Jeri pomeriggio mi sono raccolto a dare udienza ai pensieri, per la prima volta dopo qualche giorno, e ho scritto nuovamente qualche riga, per un’oretta consecutiva. Essendo rimasto solo per la gran parte della giornata, ed essendo stato còlto nuovamente da quei pensieri che normalmente si fanno in solitudine, e avendo fatto dentro me le solite considerazioni da anima amareggiata, avendo – quindi – in pronto l’argomento, ho scritto cose singolarmente contorte a proposito della vendetta – dato che la mia amarezza non si limita a sé stessa, ma sconfina sempre nel rancore, e che il rancore mi spinge sempre a pianificare mentalmente qualcosa di brutto da far capitare a qualcuno: “… una vendetta presuppone che la vittima, già carnefice, sia in grado di sentire tutto il significato di essa vendetta. La legge del contrappasso implicità un’identità tra vendicatore e vittima della vendetta. Se la vendetta deve compiersi su un essere inferiore, a che cosa serve? Altro è eliminare ogni traccia del nemico, ciò che può avere una sua validità e una sua oggettiva necessità, ma un omicidio totalmente impunito – e l’impunità mi serve, perché mi serve la libertà – è un’evenienza talmente rara da richiedere più che un semplice ajuto del destino (figuriamoci, allora, dieci, o venti), e da non poter essere in alcun modo e in alcun caso preventivata. Ma lasciare semplicemente un segno, infliggere dolore fisico, è una lezione, in terminologia mafiosa un esempio: se la vittima è uno degli ultimi esseri al mondo ad essere in grado di recepirla in quanto tale, la lezione è come non fosse data, non si può dare. Dunque, in mancanza o in assenza della possibilità dell’eliminazione fisica, è materialmente insensato pensare a qualunque vendetta. Ne consegue che l’unica soluzione è la difesa: non ha senso nessuno pensare di sostituirla con la vendetta. La vendetta è la difesa dei tardigradi: se la difesa manca o è intempestiva, allora nasce il desiderio di vendetta. La stessa vendicatività, come atteggiamento durevole, o permanente affatto, di una personalità, è segno di debolezza. L’impotenza dìun individuo può essere dovuta o all’incapacità di difendersi inveterata per via di troppi fallimenti, oppure essere dovuta a circostanze avverse, che colpiscono tutti, ma poche volte nel corso di un’intera vita: in questo secondo caso la vendetta può essere consumata, e di fatto è, come difesa a posteriori, non essendosi potuto fare altrimenti; in casi come il primo, invece, la vendetta, che nella fattispecie – infatti – sovente non è consumata né calda né fredda, ma rimane solo morbosamente vagheggiata, è semplicemente la tentazione di una difesa tardiva, cioè di compiere poi l’azione che doveva essere commessa prima – a prescindere dalle conseguenze, e nell’uno e nell’altro caso. Sbaglierei, però, a sostenere che il perdòno liberi, perché anche il perdòno è inutile, e sovente immorale. L’unica cosa che liberi è la difesa. In più la vendicatività discende da un generale difetto rappresentativo, e cioè che la realtà possa credibilmente giocarsi su piani temporali diversi, a piacimento. Il principio secondo cui la vendetta ha validità presuppone che una reazione avvenga effettivamente in un dato momento, ma moralmente avverrebbe in un tempo diverso, precedente. L’atto concreto, nel suo esplicitarsi, non è apparentemente azione vòlta ad un fine immediatamente ravvisabile e non è reazione a nessun’azione alla quale sia immediatamente concatenata; è un gesto isolato, spiccato nel tempo, e dunque in apparenza inopinato – e di fatto inopinato, se lo si considera nella sequenza degli eventi -, irrelato, insensato. Acquista valore e senso solo per chi, il vendicatore, lo correli alla sua matrice remota, ossia quella violenza della quale la vendetta, rivalsa e giustizia, è reazione e punizione: ma perché azione e reazione siano riconnessi è indispensabile che tutto il tempo intercorso sia annullato nella coscienza del vendicatore – e, negli intenti, anche della vittima -, ovvero che, prima ancòra, sia possibile ritenerlo annullabile, sia pure sotto questo solo aspetto. Il vendicatore ritiene di fermare il tempo, di porsi su un piano del tutto distinto rispetto a quello della logica: non quella diacronica, ma quella cronologica sì. Il vendicatore è un ottimista disperato, o una strana sorta di efficientista, che conferisce un valore enorme, salvifico per sé, alla propria azione: in grado di ristabilire un equilibrio spezzato, di restaurare la giustizia, di fermare il tempo, e che so io? Mentre crede in un equilibrio che possa essere riparato postumamente; in una giustizia che non conosce nessuna urgenza, astratta,  sfrondata di tutte le valenze con l’umano commercio; in un tempo che si può alterare a piacimento. La visione della morale, della giustizia e del tempo nel vendicatore è in realtà incredibilmente impoverita rispetto a quello che, anche tragicamente è; il vendicatore non concepisce l’ineluttabile al difuori di sé, e nella stessa immersione del sé in certe condizioni ambientali, ma solo nella propria intenzione. Dipende dai casi – e dalla sua consapevolezza – se è un mostro, un eroe o molto semplicemente un coglione. Sono molte le conseguenze a lungo termine di fatti avvenuti in epoche anche molto precedenti: ma mentre in questo tipo di fenomeni è il tempo che si dimostra attore, nel caso della vendetta si assiste ad una rivolta contro il tempo in nome di un’impossibile riparazione”.

250. E’ tardi!!!

19 Mag

Mi dispiace, soprattutto per la buca data a ven, che mi aveva invitato alla Fiera del libro: ma proprio non ce la faccio. Sarà una questione simbolica, sarà che proprio certe cose sono scivolate, molto semplicemente, fuori dalla mia vita, senza che necessariamente possa dirne il motivo, ma nemmeno quest’anno ci andrò. In questi giorni a Torino ci sono stati il Gay Pride, le sentite manifestazioni degli operaj Fiat a Mirafiori, il corteo degli anarchici, che si è attendato lungo il Po, dirimpetto ai Muri, e che jer mattina ha avuto qualche scontro con la polizia – devo ancòra leggerne sui giornali. Ho tratto, da tutto questo fermento, solo un’impressione generale e generica di sottotono, o perché sono disattento, e in fondo sarebbe anche logico essendo tutte tematiche da me distantissime, o perché Torino riesce ad ovattare, neutralizzando, tutto, o perché – e rimane la cosa più verosimile – non ho visto abbastanza di nulla. 

Sta di fatto che nemmeno quest’anno andrò alla Fiera del libro, come dicevo. Della quale Fiera, però, ho letto qualcosa sui giornali che ho sfogliato velocemente in biblioteca – una cosa che non faccio quasi mai -, per trovarvi l’ennesima conferma del fatto che gli eventi sono sempre destinati a superarmi. Sul Corsera di sabato 16/05, p. 20, “Cronache”, si dava conto della lite, scatenata a Genova da tal Nicola Abbundo, Consigliere regionale della Liguria, e da un Michele Scandroglio, Coordinatore regionale del Pdl, che richiedevano l’intervento della [con licenza parlando] Carfagna (sic!) e del Questore su un’iniziativa del Pride cittadino presso la biblioteca comunale “De Amicis”: si chiamava, l’iniziativa, “Due regine, due re”, e il suo scopo era far scrivere ai bambini favole gay di lieto fine. La finalità, secondo Lilia Mulas del GP era quella di far “comprendere la diversità senza drammi”, e non quella di “orientare sessualmente i bambini” – cosa meno agevole di quanto evidentemente paja a questi Abbundo & Scandroglio, specialmente attraverso la scrittura di favole. Per quanto sappiamo quale importanza abbia la narrazione nella creazione di categorie mentali. Sicché suppongo che tale esercizio potesse risultare utile in specialissimo modo ai bambini omosessuali – ho le idee molto chiare in merito, perché, appunto, è da un po’ che ci penso. Come se non bastasse, sulla Stampa in egual data si dava conto, p. 72, del libro scritto da Vladimir Luxuria, nell’art. “Le favole di Luxuria. Pienone ieri pomeriggio per il libro di Vladimir”. La rima interna m’è parsa vagamente sinistra (parlo rigorosamente pro domo mea), ma ho voluto léggere prima di correre immediatamente alle conclusioni. Per avere conferma che un libro di favole omosessuali esplicitamente rivolto ai giovanissimi: il libro del Luxuria s’intitola infatti Le favole non dette, nate da un’idea, e da una proposta, di Elisabetta Sgarbi, che gli/le aveva chiesto “un racconto che aprisse al tema dei transgender”; precisa Luxuria di aver pensato “soprattutto ai più giovani”.

M’è dispiaciuto, perché sono anni che accarezzo, del tutto sterilmente, l’idea di un Fiabe, apologhi e letture per bambini omosessuali, che avrebbe alternato, nello stile di Scappa, scappa, galantuomo e del Libro dei bambini terribili per adulti masochisti, brani di libri già scritti, curiosità storiche, versi e teatro, nonché racconti-apologo di macchinosi innamoramenti infantili & heroiche vendette; avevo già mentalmente pianificato un Vermandois, che mi avrebbe permesso di intrecciare la storia funesta dello sventurato figliuolo di Luigi XIV con quella della Palatine grande sodomitologa, dell’abbé de Choisy il travestito e di Monsieur con tutti i suoi mignons; un tremendo racconto di una gita scolastica, durante la quale il bambino omosessuale manomette i freni del pullmann su cui viaggia la scolaresca facendolo precipitare, compreso di compagni di scuola e maestre, in un burrone, e altre cose. Un poemetto sarebbe stato dedicato ad Andrew Philip Cunanan, e non sarebbero mancati portraits en silhouette di numerosi personaggj storici, vindiciae storiche, riabilitazioni, e spigolature copiose dai più gustosi e codini testi che si sono dilungati in materia; ed un rifacimento della Guerra di Troja tutta in funzione della storia di Achille & Patroclo, magari, se la mia ambizione fosse giunta a tanto. Aggiungivi i Racconti della Manica Tagliata, rifatti alla mia foggia, o in varie fogge, e integrati di notizie storiche, & novelle; &c., &c., &c.

Non voglio dire che la cosa non possa più farsi, ma il fatto che mi si sveli così crudamente nello spirito dei tempi (ma anche la serie delle raccolte Mondadori per lesbiche, quella parallela a Man on Man, s’intitola Principesse azzurre, se è per quello), oltre a privarmi dell’eccitante prospettiva di fare il proverbiale botto, rende lo spunto un po’ più opaco persino agli occhj miei, e ne addomestica, comunque, in partenza qualunque eventuale ricezione. Lo stesso fatto che quei già condotti esperimenti siano esplicitamente rivolti ai giovanissimi, mentre la mia idea avrebbe tratto forza dal poter contrabbandarsi per una lettura infantile, senza necessariamente essere, mi sgonfia ulteriormente gli entusiasmi. Ma credo non dovermi lamentare, dal momento che con questo, molto meritamente, sconto la mia prosuntuosa accidia, la mia stolida lentezza, la mia sfiduciata smidollatezza.

249. Vuoto.

15 Mag

Del tutto in contrasto con l’andamento obbligato delle mie ultimissime giornate – che si sono rallentate, nei ritmi, a causa del mio (volontario) adeguamento ai ritmi di terzi [quasi sempre la presenza di terzi, non so se questo valga solo per me, rallenta] -, con la loro metrica scandita e non sostenuta, mi sento tuttavia leggero.

Anche compilando il solito diario, un nojosissimo, ossessivo brogliaccio, che non ho mai riletto e che perdo periodicamente in giro, mi sono imposto, da qualche tempo, di non dar voce & espressione ai miei stati d’animo, ai sentimenti, e di scrivere solo fatti, riportare discorsi, o approfondire tematiche: questo non tanto in vista di una lettura che, anche potendo materialmente esserci, non ci sarebbe stata mai, ma perché suppongo che concentrarmi sulle descrizioni, sui fatti, sulle cose, e non sulle sensazioni che le cose e i fatti e le relazioni interpersonali suscitano entro me, mi ajuti a scrivere meglio, mettendo continuamente alla prova il mio strumentario e costringendomi a sforzi retorici e di formulazione, vincolandomi ad un’espressione più precisa; sempre in prospettiva di quello che dovrei o dovrò scrivere in un futuro che ormai sembra allontanarsi a tal punto da indurmi serenamente a pensare di averlo ormai smarrito una volta per tutte; perché per tutti questi anni – i sette e rotti lustri che ho trascorso in queste lande sublunari -, con l’eccezione forse del primissimo, mi sono sempre pensato come scrittore, e il mio cervello, evidentemente poco aggiornato, ragiona sempre in termini di scrittura. Non so nemmeno se sia possibile cambiare questa impostazione; dovrei preoccuparmene, questo sì, perché ormai la mia vita, ossia quello che ne resta o che è riuscito a venir fuori di quello che doveva essere la mia vita, rende quest’impostazione del tutto inservibile, e dunque, anche, un ostacolo. Dovrei preoccuparmene perché mi occorrerebbero altre strutture mentali, altri strumenti, anche retorici: sarebbe infinitamente preferibile, per me nelle presenti condizioni, saper parlare con la ggente, piuttosto che spremermi dalla pera alcunché da scrivere, ma come è difficile disfarsi di una forma mentis, così sembra complicato anche crearsene una nuova. Scrivere scrivo, perlopiù riflessioni e resoconti, ma anche in questo caso, essendo sparito sistematicamente tutto quello che ho scritto, nutrendosi evidentemente la mia scrittura soprattutto di sé stessa e di certi incontri, rendendomisi sempre più manifesto come scrivere non serva a nulla, nemmeno alla scrittura – per servire alla scrittura dovrebbe, quantomeno, lasciare traccia fisica di sé -facendomisi continuamente e sempre più palese la fragilità della scrittura, dei suoi supporti – permeabili, infiammabili, deperibili, sottraibili -, di fatto, tranquillamente, va lentamente ma sensibilmente esaurendosi in me anche questa predisposizione, che non è mai diventata vocazione, che non è mai diventata destino.

Mentre sperimento una quotidianità teoricamente depressiva e routinière, e di fatto consistente in un continuo assedio, che non sempre sono riuscito a reggere felicemente. Non credo si tratti di una transitoria perdita d’interesse: è un’entropia, perché la lenta e inesorabile esaustione è cominciata troppo tempo fa. Per troppi anni nessuno ha creduto minimamente che ci fosse qualcosa, sotto; anni, per converso, passati in gran parte in solitudine, senza il beneficio della conversazione con intendenti & virtuosi, e senza il sostegno dell’accademia. Anche chi ha concesso che qualcosa ci fosse, nel riconoscerlo mi ha dato l’impressione che avrebbe di gran lunga preferito che non ci fosse nulla. Chi ha riconosciuto e apprezzato quello che c’era lo ha spesso e facilmente scisso dalla mia persona, come se la scrittura potesse sussistere in assenza di chi la genera.

Nel frattempo mi sono successe cose – ho detto del lungo assedio, in effetti; e ho detto come di rado sono riuscito ad opporre una difesa. Ecco, la mia è una vita tutta consumata a tenere la guardia bassa, essenzialmente per mancanza di slancio vitale, energie, forze fisiche; e con la scusa che potevo, o dovevo, comunque andarmene, in qualunque momento – verso che cosa non so e non ho mai saputo; da che cosa, invece, m’è sempre stato chiaro. Eppure non mi sono mai mosso; non tanto per timore di trovare altrove gli stessi impedimenti che trovavo nello hic et nunc, quanto perché non mi sono mai ritrovato ad essere veramente inserito nell’ambiente in cui mi trovavo. Con, in più, le cose, orribili e avvilenti perlopiù, che mi succedevano, e che servivano a ricordarmi della mia collocazione sostanzialmente laterale, estranea al corpo vivo, remota dal centro – epperò non ignota al centro, non irraggiungibile, non in qualche paradossale modo riparata, protetta.

Anche in questa città me ne sono successe diverse, sempre dello stesso tipo; ho incontrato manifestazioni di ostilità ingiustificabile, mi sono trovato di fronte a muri che non mi sono nemmeno accinto, posto ce ne fosse pur la possibilità, a scalare, ho avuto la riconferma della mia natura involuta, riflessiva e rinunciataria, ma anche genuinamente accidiosa, e della mia inettitudine ai rapporti umani; e, a proposito della mia inettitudine ai rapporti umani, della mia spiccata attitudine ad astrarmene, perlopiù, trovandoli perlopiù inutili e in certi casi, dove ci si sforzi a una consuetudine abbastanza lunga, anche dannosi, dispendiosi e offensivi.

Per il mio mestiere, di tanti rapporti umani non ci sarebbe stato nemmeno bisogno; venuta meno la possibilità, mancando la spinta necessaria, di esercitare esso mestiere, non mi offende nemmeno più nemmeno la qualità del mio isolamento, che non è un isolamento protettivo e sottoesposto, ma una condizione di sovraesposizione e di semplice mancanza di contatti, di conversazione, di quotidiano commercio. Anzi, nulla più mi offende, né la mancanza di privatezza, né l’irta amicizia di chi millantava ajuti e sostegni, né il tempo perduto, né il rimpianto, né il rimorso; prevalgono, su tutto, la stanchezza e la prospettiva, che in qualche modo mi tiene in vita, di andarmene. Anzi, la qualità, spiccatamente ‘da disadattato’, di questo mio sentire con sollievo la prossima partenza, e solo perché è una partenza, una separazione da luoghi situazioni persone, mi fa in qualche modo sorridere; con un pizzico di esasperazione, anche, devo ammettere, perché ho, con questo, l’ennesima, inutile e non richiesta, conferma di quale ostacolo abbia sempre rappresentato per me la mia indole, schiva, incapace di comprensione per qualunque forma di aggressività, risentita, umbratile, forse fragile, delicata – ma non tendente al pessimismo, per esempio, che è una forma di fatalismo, che è una forma di conformismo.  Se solo fossi stato un pessimista le cose mi sarebbero andate in modo molto diverso: avrei accettato gran parte delle cose che mi sono successe, trattandosi appunto di cose negative, e me ne sarei potuto lamentare in forme artifiziate e pretenziose, trovando forse ascolto e credito, mentre di fatto non sto accettando, non ho mai accettato, nulla di tutto questo. La mia mancanza di accettazione – nemmeno in nome di qualche convincimento essenzialisteggiante, non sono mai arrivato a tanta maturità filosofica; e poi questo atteggiamento mio è un fatto troppo precedente a qualunque realtà speculativa ed estetica perché possa prestarsi a qualunque elaborazione in termini rigorosi, se non sistematici – mi ha sempre dato l’illusione di esserci e, nel contempo, non esserci affatto. La stessa esclusione mi è servita a sentirmi così fuori da tutto. Finché, naturalmente, ti ritrovi a dirti Poiché non c’è cosa qui che non ti veda è tempo di cambiare la tua vita: cosa, ait, che non ti (mi) veda, non tu che vedi la cosa, ma la cosa che vede te. Peggio che andar di notte se non è nemmeno la cosa che ti vede – sono voci tenui, ci vorrebbe molta più pace sostanziale e non apparente per percepirle,  e per percepirle fino a quel punto – ma la persona, anzi, diverse, troppe persone. Dallo sguardo inequivocabile.

Non si capisce nulla di quello che ho scritto, me ne rendo benissimo conto – se è per quello non ho mai, io stesso, capìto perché scrivo, e perché proprio su un blog. Io, poi, personalmente, troverei detestabile inciampare in un post del genere, tutto considerazioni personali, espressione e non comunicazione, schizofrenia e non atto sociale; è il tipo di post che normalmente non finisco di léggere, e il cui autore-tipo normalmente evito. Non riesco, dunque, a immaginare chi dovrebbe leggerlo, e con che frutto. Ma anch’esso consegue a quell’atmosfera, abbastanza per me peranco irrespirata – se non quidditativamente, per qualità, ossia intensità & profondità -, una situazione di vuoto pneumatico nella quale, specialmente in questi ultimi giorni, mi sto muovendo. Senza timore, senza alienazione, senza orrore panico, senza speranza di uscirne, senza rimpianto d’altro. Sento solo quelle due cose: vuoto e stanchezza, stanchezza e vuoto; e il vuoto mi solleva dal provare più stanchezza.

239. Da adlimina.

25 Mar

e di rampolli che fregano i taxi a capri e che sono i più ignoranti d’europa

Appunto: sono ignoranti come capri.

238. Passeggio.

25 Mar

    
 Non fan per me quelle sagome dritte
Che sempre passano agli stessi orarj,
Ben ravviate, e coi vestiti cari,
Stirate e vacue, come in un Magritte.
     Composte a un modo, sia che stiano zitte,
Sia nei ridenti e vuoti conversari,
Non amo genti che a numeri pari
Passano, non felici, e non afflitte;
     Senza che in anni abbia mai posto mente
Che di quel di cui vivono, escludendo
Che non ne so, non me ne frega niente.
     Non rinvenire, in tanta massa, è orrendo
Nulla di non omologo, & saliente;
Salvo in chi è perso, o in chi si sta perdendo.

52. Et nous avons des nuits pars altera.

8 Feb

Stanotte (e ancora grazie) mi hanno lasciato dormire seduto nella sala d’aspetto del Maria Vittoria, e dovrebbe essere l’ultima volta. Non c’è molto da dire sulla sala d’aspetto del M. V., se non che è piccola e senza attrattive. Oltre a due file di sedute di plastica blu ci sono quattro distributori, uno di bibite fredde in bottiglia piccola (ma escono calde, perché il refrigeratore, evidentemente, non funziona), uno di junk-bruscolini, uno di bevande calde (caffè, insomma) e uno di bibite fredde in bottiglia grande (ma è quasi sempre tutto esaurito; il distributore funziona, però, anche da cambiamonete, nel senso che se metti dentro l’euro e tiri la levetta ti restituisce due pezzi da cinquanta centesimi, ciò he può avere la sua utilità). Dalle 20.00 alle 24.00 ca. godo la conversazione di X e Y, i quali dormono uno in macchina e uno in una soffitta, ma trascorrono volentieri le serate in compagnia. Non c’è stato bisogno d’altro che di questa frequentazione per rendermi conto dell’incredibile quantità di argomenti di cui non so una cippa e di cui nemmeno mi frega — e non lo dico con spavalderia, lo dico con senso di colpa e con pena. Ma, soprattutto per quanto riguarda i greatest hits, le cose straripetute, dalle tre-quattro alle cinque-seicento per sera, può essere istruttivo, perché qualcosa mi rimane impresso. Ovviamente non prendo per oro colato tutto quello che mi si dice, non tanto perché temo la malafede dell’interlocutore di turno, quanto perché, a livello di conversazione da bar, può essere l’interlocutore per primo a non aver capìto praticamente nulla di quello che dice. Ragion per cui prendo tutto con molto sale e pepe, o come spunto.

Altro tipo di conversazione ho avuto nelle prime ore della mattina, con un personaggio da me conosciuto a suo tempo in v. Carrera, che ha attaccato discorso chiedendomi per l’appunto se in v. Carrera non vado più. Segue mia risposta, che no, perché sospeso, ma soprattutto il litigio che precede la sospensione dà di cappello a tutta una situazione per cui, insomma, tutte le volte che vedo un operatore mie viene da vomitare, e anche quando mi vedo capitare le due stronzette della boa urbana mobile venute a recuperare qualcuno lì al M. V. mi devo alzare e me ne devo andare perché mi vien da vomitare. Dico che non sopporto di essere messo sotto i piedi, anche cortesemente. Be’, mi dice, effettivamente l’operatore tale o l’operatrice tale sono dei prepotenti. E ricordava un fatto, di anni fa, riguardante un tossico, peraltro sieropositivo, che come molti che non possono più drogarsi, o non possono più drogarsi tanto, tampona coll’alcool. E’ un bravo ragazzo (per modo di dire, è ultraquarantenne), dal fisico piuttosto meschino, e in più molto malridotto. Assolutamente non uno in grado di difendersi fisicamente. Una sera era arrivato ubriaco in dormitorio, e lo avevano fermato sulla porta — due operatori maschj — perché ubriachi in dormitorio non si può entrare. Una regola che è applicata solo di rado, in generale, e sempre con questo povero disgraziato. Comunque sia, il poveretto ha chiesto, in quell’occasione, che gli lasciassero una mezz’ora, un’ora di tempo per smaltire un po’ gli effetti della bicchierata fuori dal cancello, e poi di farlo rientrare. Ma gli operatori sono stati inamovibili. Càpita spesso che qualche utente, invitato più o meno gentilmente ad andarsene, non intenda ragione. In quel caso, ammenoché non si tratti dell’ineffabile Laura Scarpellino o della sua amica Raffaella (la psicologa di v. Carrera, mica cazzi), per non dire di quando si tratta di tutt’e due in turno insieme, di norma si chiama la polizia, e si sospende almeno per un mese l’utente che ha opposto resistenza. Un tempo, evidentemente, le cose erano gestite molto più sportivamente, perché al rifiuto del povero sbronzo gli operatori avrebbero risposto a cazzotti; non solo, ma quando il poveretto è cascato in terra, avrebbero continuato ad infierire, prendendolo a calci, tra vociazzare di sporco ubriacone e va a sapere quant’altro. Erano almeno in sei o sette presenti, e nessuno ha alzato un dito, o ha saputo che fare — si tende sempre a farsi i cazzi proprj, nell’inutile speranza di campare cent’anni. La vita di strada comporta quasi sempre un filo di mitomania, ma chissà perché io a certe cose ci credo.

Ha voluto sapere chi mi aveva buttato fuori per via di un barattolo di penne e di un bidone dell’immondizia vuoto. Le ho detto chi era stato. «Ah, Laura», ha detto, «certo. Quella è proprio una troja». E mi ha raccontato un’altra cosa, sempre di qualche anno fa, quando la Scarpellino non faceva l’operatrice in dormitorio ma girava sul bidone della boa urbana mobile. Non è nemmeno un aneddoto — è la Scarpellino che a un certo punto passava sul ben noto catorcio e che sporta la testa d’antefissa dal finestrino gli ha urlacchiato contro: «Figlio di puttana!!!». Ma chissà che cos’era successo. Erano tempi, come mi aveva spiegato il capetto della struttura a suo tempo, in cui c’era molta più confidenza tra utenza e operatori. Confidenza è quasi la parola giusta.

Questo pomeriggio dovrei recuperare un sacco a pelo. Spero proprio di riuscirci, così torno a passare le serate da solo.