499. La voce.

12 Gen



Per la verità su Nazione Indiana non andavo più da un pezzo – tralascio questi giorni che non ho frequentato praticamente la rete. Ma dopo che Domenico Pinto mi ha scippato quella paginetta su Scrittura e stampa, ho fatto di tanto in tanto un salto.

Mi sono soffermato soprattutto su questo articolo, del poeta Carlo Carabba, recensione del primo Almanacco BUR; e ho apprezzato la chiarezza d’idee del giovane (classe 1980); e l’ho ancóra più apprezzata quando ha dato risposta a Francesco Pecoraro che, da common reader, gli chiedeva lumi circa i problemi della poesia oggi. Tutta la risposta, improntata ad una certa secchezza di toni, dev’essere letta, è un’analisi che suona – quantomeno – perfetta.

Di essa ho trovato particolarmente interessante questa frase:

Si assiste … a una produzione poetica fortemente manieristica in cui spesso è difficile distinguere un autore dall’altro”.

Che è una presa d’atto abbastanza ardimentosa; essendo possibile solo, si suppone, a chi non ha timore di scoprirsi.

Sono andato a cercare un po’ di poesia di Carlo Carabba in giro per la rete, ovviamente, per avere idea di un poeta che non ha timore di essere sé stesso, invece di ricicciare pregiudizj di scuola e banalità.

La critica è assai promettente; e il tasto su cui molto si batte è, appunto, la voce spiccata del giovane autore, la sua unicità. Per Gli anni della pioggia, PeQuod 2008, Mario Desiati ha detto, : “Carlo Carabba è un poeta unico nel panorama dell’ultima generazione”. Raffaele La Capria (ib.), Corsera: “Un poeta si riconosce dalla voce, e Carlo Carabba (all’ esordio con Gli anni della pioggia, edizione peQuod, pp. 64, 7,50), una voce ce l’ha”. Franco Marcoaldi, Repubblica (ib.): “LA VOCE DI UN POETA. E’ così raro scoprire una voce nuova nella poesia italiana, che con piacere segnalo il libro d’esordio di Carlo Carabba: Gli anni della pioggia”. Più sfumato degli altri, ma grosso modo in quella direzione, Massimo Gezzi, Manifesto (ib.): “il giovane Carabba mette in versi un normalissimo “io”, senza sotterfugi intellettualistici o timori reverenziali” (ma è un “individuo-massa”).

Quello che però mi ha vagamente sconcertato sono gli stralcj riportati dai varj recensori:

Desiati:

Purtroppo l’italiano / ha un amore soltanto, e doloroso

Di notte studio date / persone e storie. E penso alla morte. / Ai centenari che non / avrò visto/ alle celebrazioni / passate che ero troppo piccolo / per apprezzare a pieno…

La Capria:

Da qualche parte in qualche / tempo sono già ritornato – e scrivo / di quanto sarà stato, degli incontri / se saranno avvenuti, e quali

Marcoaldi:

Traballo e non sempre penso pensieri / dignitosi, ma spesso / strisciano bassi, ridono / talvolta colpevoli innocenti / quasi mai quasi sempre / ignari di pensare

Gezzi:

Se l’energia è prodotta dal quadrato / del corso della luce e dalla massa, / se si diffonde su una curvatura / infinita e perfetta / […] io resto testa all’aria / tra i moti corruttori / del mondo sublunare

Sconcertato perché 1. la voce di Carlo Carabba non mi sembra affatto inconfondibile; 2. sono versi banalissimi, piatti (ed è per questo che c’è il punto 1.). Desiati, sorprendentemente, lo riferisce ad un filone ‘metaforico’ della poesia; ma c’è da dire che la metafora dev’essere ben nascosta, perché a me questi sembrano solo stralcj di diario.

Un gruppo di componimenti abbastanza consistente si trova riunito qui.

Se devo scegliere le peggiori (le più dimostrative) ne prendo due. Già “un signore che passava” su NI faceva notare, a proposito di Sanguineti: “è (relativamente) facile raggiungere esiti convincenti, asciutti e densi giocando con le parole, il difficile è farlo scrivendo dell’amore per la mamma…”. La dimostrazione di questa difficoltà è nella poesia che alla mamma ha dedicato il Carabba:

a mia madre
Tu sai che morirai
prima di me, è giusto,
e anch’io non voglio darti
il dolore di sopravvivermi.
E quando morirai sarò al tuo fianco,
spero, pronto a donare e avere
ogni parola e abbraccio, fino
all’ultimo dei giorni
con te vicina prima
di un addio che certo
non capirò da subito
essere tale, un distacco
che non saprò pensare
di cui non saprò dare conto.
Che sia il figlio a restare è naturale.
Ma non so
chi ci sarà a lenire il mio dolore
nei pensieri notturni o intento
a fare l’inventario dei tuoi scritti.

Qualcuno potrebbe, a questo punto, intendere quello del Carabba come “coraggio”, addirittura, perché si è esposto in prima persona; posto che il poeta che scrive della mamma sia esemplificabile con lo stesso Carabba. Ma nei luoghi comuni, nella prosa ritrita, non c’è nessun sentimento; dunque non c’è nemmeno coraggio.

Sembra quasi sempre prosa che va a capo di tanto in tanto. Altro è arrivarci da un certo esercizio di versificazione, altro è non aver mai coltivato una poesia di rispondenze foniche. A questo proposito mi pare infelice, perché, di nuovo, scontato, il componimento Risveglio:

Risveglio
L’ho già trovato in chiese boschi e grotte
o contraffatto ad arte
nei quadri veneziani.
Mi fugge dalle mani
ora che sono sveglio,
come se il mare uscisse da due porte.
Per afferrarlo meglio
respiro un po’ più forte.
Dal mio pensiero parte
il cielo della notte.

Dove c’è un’intensa orchestrazione fonica, specialmente in relazione cogli altri componimenti, ma l’esito è, quod erat demonstrandum, di filastrocca.

Posso naturalmente inferire – anzi, in un certo senso ci sono costretto – che, per come vanno le cose, l’eco psittacistico dell’unicità della poesia del Carabba dipenda da quello che il Carabba stesso, come critico, ha detto di voler fare, e di cui la repubblica letteraria s’è fatta evidentemente carico come di cosa effettivamente fatta. C’è qualcosa di positivo nell’aver preso atto che la poesia deve avere un common reader; ma ci vuole un common verse (il concetto è, come dite voi, “anglosassone”: Kipling, Edna Saint Vincent Millay, A Shropshire Lad, & so on) per quello; non scarabocchj da telefonata lunga.

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