Muriel Barbery (1969), L’eleganza del riccio [“L’élégance du hérisson”, Paris 2006], trad. di Emanuelle Caillat [diario di Paloma] e Cinzia Poli [diario di Renée], Edizioni e/o, Roma 12 05 2008(16.a) [2007(1.a)]. Pp. 321 + Indice + Catalogo.
L’autrice, che qui si dà nata a Bayeux e su wikipedia a Casablanca, è docente di filosofia a Saint-Lô. Al romanzo (il suo secondo) ha arriso uno straordinario successo europeo; nel 2009 ne è stato tratto un film, abbastanza fedele sia alla lettera sia allo spirito del romanzo, con l’unica differenza sostanziale che nella pellicola la piccola Paloma tiene un diario videoregistrato e non per iscritto, e poche differenze secondarie (tra cui il gag del pesce rosso della sorella di Paloma, Colombe [Colombà nel film], vuotato nel cesso dalla prima e ripescato in séguito in un altro cesso – dopo un avvelenamento da barbiturici).
Si alternano pagine dei diarj di Paloma Josse, figlia di un politico progressista e dell’addottorata in lettere Solange, nonché sorella di Colombe, ragazza modajola e superficiale, che sta però per concludere un master alla Normale con una tesi sui particolari e gli universali di Occam; e pagine dei diarj di Renée Michel, la 54enne portinaja del palazzo signorile in cui abitano i Josse e altre 7 famiglie (tra cui i Pallières, i Grelier, gli Arthens), vedova da 15 anni di Lucien, donna corpulenta, incolore, sciatta. La centralità del tema classista nell’economia ideologica di un romanzo molto ideologico come questo è stabilita in prima battuta, durante un breve scambio tra il giovane Pallières e la concierge: il giovane (in pieno 2006, a Parigi, si noti bene) più parlando tra sé che, ovviamente, alla portinaja che si dà per scontato certe cose non le sappia, dice che Marx gli sta “cambiando la visione delle cose”. Al che la portinaja fa un passo falso, di quelli che s’è ripromessa non commettere mai pena la compromissione del suo equilibrio esistenziale, e sostiene che il giovane farebbe bene a lèggere l’Ideologia tedesca piuttosto che Il Capitale; e pensa all’XI tesi su Feuerbach, nella quale Marx sostiene, secondo lei a torto, che il mondo sarebbe migliore se la gente pensasse a soddisfare i proprj bisogni, e non ad inseguire i proprj desiderj. La portinaja si morde tardivamente la lingua, ma fortunatamente il giovane è troppo assorto per registrare, e l’incidente rimane senza conseguenze: la vita può procedere come prima. In realtà Renée Michel è coltissima, di molte letturee, ama la musica classica e le mostre di pittura; ma nessuno deve saperlo. S’è organizzata in modo che nessuno veda il suo piccolo santuario in cui custodisce libri e ascolta con le cuffie la sua musica favorita; tutti quelli che si rivolgono in portineria vedono uno scontato gabbiotto con un televisore, ch’ella non guarda, sempre acceso, e il suo grosso gatto Lev che dormicchia in poltrona. Quando si rivolgono a lei risponde a monosillabi, ogni tanto inframettendo qualche errore di pronuncia (“guasi” in luogo di “quasi”).
Parallelamente si svolge la vicenda di Paloma, che entro il suo tredicesimo compleanno – il successivo 15 giugno – ha deciso di morire. All’uopo sta sottraendo, una per una, pillole di barbiturici alla madre; progettando di ingurgitarle in un momento in cui si trovi da sola nell’appartamento, in modo da aver agio, poco prima di morire, di dargli fuoco. La soglia dei 13 anni deve segnare per lei l’inizio dell’adolescenza, e un avvicinamento ulteriore all’odiata vita adulta, alla sua prigionia, alle sue sopraffazioni, alla sua meschinità, alla sua limitatezza: la chiusura in un ruolo, tipica dell’ipocrisia adulta, per lei è simboleggiata dal pesce rosso nel suo vaso, ed è rappresentata dal padre, innanzitutto, che segue con passione lo sport in televisione e nutre sensi di colpa per aver messo l’anziana madre in casa di riposo (Paloma detesta la nonna paterna per motivi ideologici, perché dopo una vita di privilegj ha un alloggio di lusso, una specie di premio per chi non ha mai fatto nulla nella vita, mentre vecchj d’estrazione modesta di spengono in squallide stamberghe dopo una vita di fatìche). E’ rappresentata dalla madre, che vive in funzione di due sole cose: dell’analisi a cui si sottopone da moltissimi anni, prendendo parte a sedute durante le quali un notorio cialtrone l’ascolta e le fa eco stupidamente; e delle sue piante, che nebulizza rivolgendosi a loro come se potessero sentirla. E’ rappresentata dalla sorella, che sarà anche normalista ma è anche un’individua meschina che aspetta che la nonna muoja per ereditare, e ha un carattere maligno e prevaricatore, fa un dottorato in filosofia medievale ma si veste come una stracciona stilosa e parla come i ragazzi delle banlieues perché – questo pensa anche Renée – nessuno comunque potrebbe mettere in discussione la sua intelligenza.
Le vite di quelle due anime che si scopriranno a suo tempo gemelle si svolgono vicine, ma a lungo nella reciproca ignoranza. Renée riceve spesso in visita la sua migliore amica, la portoghese Manuela, che per tutto il libro è definita un’aristocratica senza denaro e senza cultura, una nobildonna dell’animo, anche se le uniche sue caratteristiche di cui si dà conto sono la sua abilità di cuoca, dal momento che porta sempre con sé dolci sopraffini di sua confezione, e, stando alle conversazioni tra lei e Renée che si riferiscono, un penchant del tutto prevedibile per il pettegolezzo da serve.
L’illustre critico gastronomico Arthens, moribondo, dà ordine di non far passare nessuno da lui se non il figlio tossicodipendente Jean; dalla sua specola, a modo suo privilegiata, Renée segue l’agonia dell’illustre uomo attraverso l’andirivieni di quelli che chiedono di vederlo, fino alla morte. Dopodiché nel palazzo arriva un ricchissimo giapponese, Kakuro Ozu, ex-commerciante in articoli elettronici, che desta la curiosità ammirata di tutti.
In presenza di Ozu e di Paloma, distrattamente, Renée si lasacia sfuggire la prima parte della frase incipitale di Anna Karenina, quella sulle coppie felici che si assomigliano tutte – mentre quelle infelici sono infelici ognuna a modo suo, completa Ozu. Renée è a disagio, ma ormai si è tradìta. La simpatia tra Ozu e Paloma, che studia il giapponese ed è appassionata lettrice di manga, è istintiva. Parlando di Renée che forse non è quello che sembra, Paloma la paragona al riccio, pieno di aculei fuori, “terribilmente elegante” dentro. Incuriosito ed affascinato da Renée, dalla possibilità di una concierge di cultura e sensibilità fuor dell’ordinario, Ozu (vedovo da dieci anni, dopo che la moglie fu portata via da un cancro; mentre dall’ ’89, cioè da 15 anni, Renée è vedova di Lucien), le spedisce una bella edizione di Anna Karenina, che la donna, pur spaventata, non ha la forza di rifiutare. D’indi in poi seguono alcune cene, la projezione di un film giapponese da entrambi molto amato; tuttavia Renée ha nel suo passato un ostacolo insormontabile che si oppone alla continuazione dell’amicizia, e lo confida a Paloma, che ha preso l’abitudine di venirla a trovare spesso nella guardiola.
Rammentando il suo passato di provinciale, povero e tetro, tra lavoro dei campi, studj interrotti alla quinta elementare, padre duro, madre indifferente, rievoca la figura luminosa della sorella, tanto bella quanto lei, Renée, è sempre stata brutta, andata a servizio in casa di signori, poi evidentemente mantenuta di qualche signorino, infine sedotta ed abbandonata all’alba del parto illegittimo. A concludere la gravidanza era tornata a casa, devastata dal dolore, ed era morta sùbito dopo aver dato alla luce un bambino, morto a sua volta tre giorni dopo. Da quel momento Renée aveva deciso che non si sarebbe mai immischiata con gente ricca – se non appunto nella veste professionale che è la sua attuale. Poiché il fantasma della sorella l’ha costretta a declinare con durezza un invito a cena, per il proprio compleanno, dal signor Ozu, Paloma, che non vuole che i rapporti tra i due si raffreddino, s’incarica di raccontare al signor Ozu la dolorosa storia udita da Renée.
Basta una frase del signor Ozu a far capire a Renée che è stata tradìta a fin di bene dalla ragazzina: “Lei non è sua sorella”, le dice il signor Ozu, e pare che questo basti a sbloccarla, e a far sì che la cena abbia luogo. Ma Renée continua in generale ad avere difficoltà ad accettare la relazione tra il gran signore e la portinaja, finché il destino non interviene a risolvere la questione.
Un mattino Renée trova il barbone che d’abitudine dorme nei pressi della casa mentre esegue una sorta di ballo di san Vito in mezzo alla strada, col rischio di farsi investire dalla prima auto che passa. Per evitare il peggio, Renée accorre; ma una macchina che sopraggiunge proprio in quel momento investe lei, lasciandole solo il tempo di rivolgere qualche pensiero affettuoso ai suoi conoscenti prima di morire.
In conseguenza di questa morte, Paloma decide di non togliersi più la vita.
L’enorme successo arriso al libro e alla pellicola meriterebbero analisi approfondite, perché se è vero che queste problematiche di classe, sensibilissime pur in confezione tanto ovattata e discreta, possono grazie alle cure dell’astuta autrice essere riferite, volendo, ad un mero problema psicologico della concierge protagonista, solleticano però pur sempre un certo gusto un po’ rétro di parte del pubblico. Ma proprio per questro, nonostante sia un prodotto letterariamente aggiornato, cioè non abbia in sé nulla di vistosamente attardato, tuttavia il libro poggia su un’ideologia un po’ difficile da digerire, al dì d’oggi; ed è per questo che il suo successo sarebbe, potendo, da notomizzare con cura. Ammenoché, ed è questo che vien fatto di sospettare in sulle prime, l’autrice, che potrebbe avere un percorso biografico non così meramente e puramente francese, non abbia voluto dar voce ad una nostalgia tutta letteraria e di recupero per le dolcezze di un classismo ormai distrutto dal tempo.
Si può credere nell’esistenza delle classi, ma il classismo nell’accezione corrente è un atteggiamento ideologico, sovrastrutturale, deperibile come tutti i fenomeni storici, che nei termini riproposti dal romanzo non fa, decisamente, parte dell’universo di significati dell’uomo contemporaneo; almeno non di quell’universo di significati che siamo soliti identificare come individuatamente contemporaneo. Eppure la visione immobilista che ne deriva non sembra aver disturbato, o incontrato indifferenza. Il testo è trapuntato di riferimenti colti: ma è impossibile non accorgersi che è tutta bazza per falsi pensatori. Il richiamo a Marx delle prime due pagine è vagamente incomprensibile, tanto è ellittico, e avrà bisogno di essere precisato più oltre come rifiuto del desiderio, che la fruizione della bellezza consente di opporre, pur offrendo le dolcezze del conseguimento; Renée che si arena su Husserl, oltre a dare il sospetto di dar voce a personali durezze di comprendonio dell’autrice, è un evidente rifiuto della fenomenologia come condizione perennemente “aperta” dell’uomo contemporaneo, con conseguente sospensione del giudizio morale ed estetico in senso tradizionale. Renée che, poi, legge di nascosto la tesi di dottorato di Colombe su Occam che si chiedeva se esistano solo i particolari o solo gli universali parte col dire [e, N.B., già conosce quel testo di Occam in particolare, che è una vera rarità] quanto sia peccato che intelletti superiori si perdano in simili quisquilie, per poi definire comunque “affascinante” la tesi di Occam, e rovesciare addosso a Colombe la colpa di aver reso inutile la tesi [!], adesso diventata vitale e feconda, di Occam col farla discendere dalla di lui teologia – e trasferendo da un piano concretamente umano e filosofico ad un piano angeli-&-capocchie-di-spillo una teoria realmente illuminante.
Ma sono quasi certo, appunto, che il 99% dei lettori dell’opera della professoressa non sono affatto disturbati da questi cortocircuiti, o almeno non più che dalle riflessioni estetologiche in materia di belle arti: laddove Vermeer e Hopper sono considerati manifestazioni storiche di un unico Ideale metastorico, epperò le nature morte fiamminghe sono dette preferibili a tutto il Quattrocento (e il Cinquecento) italiano.
Quello che lascia maggiormente perplessi non è tanto quello che il libro dice, quanto la possibile collocazione in questo mondo delle due protagoniste: Paloma è eccezionalmente intelligente, e questo giustificherebbe la profondità della sua riflessione, ma la sua è proprio quel tipo d’intelligenza che può solo scaturire dall’esperienza: quella appunto che non può non mancarle, non avendo nemmeno tredici anni. Come fa a sapere che la nonna ha fatto una vita solo di lusso, superficialità & agj, e che cosa può saperne dei poveri vecchj che muojono in case di riposo squallide – non più, magari, delle case in cui sono vissuti dalla nascita durante tutta la vita attiva? Vede in televisione i ragazzi delle banlieues che bruciano le auto; dato che è un romanzo classista, e dunque fondato interamente su un problema pseudoidentitario – ed è questo che evidentemente affascina il lettore della Barbery – la dodicenne arriva a concludere persino questo:
… forse la più grande rabbia e la più grande frustrazione non sono la miseria, la disoccupazione o la mancanza di avvenire [sic!!!]: la rabbia e la frustrazione derivano invece dalla sensazione di non appartenere a nessuna cultura perché sei lacerato tra culture diverse, tra simboli incompatibili. Come puoi esistere se non sai dove sei, se devi accogliere nello stesso tempo la cultura dei pescatori thailandesi e quella dell’alta borghesia parigina, quella dei figli di immigrati e quella dei membri di una vecchia nazione conservatrice? Allora bruci le macchine, perché non appartieni a nessuna cultura, non sei più un animale civilizzato: sei un animale allo stato brado. E un animale allo stato brado brucia, uccide, saccheggia (p. 251).
Ed è perfettamente inutile che la stessa riconosca, sùbito dopo: “Lo so che non è molto profondo”, perché non è di profondità che si tratta, è una questione di realtà dei fatti, e queste affermazioni sono spallate e false, oltreché degne di un imam più che di una dodicenne altoborghese.
La stessa inverosimiglianza si trova – ma è poi più che altro irrealismo (un irrealismo che può esserci, purché si prenda la tangente del fantastico, o dell’eroico, e la Burbery ovviamente non fa né l’una né l’altra cosa) – in Renée, che veicola un ideale di “Bellezza” da scartare e consumare come le sue tavolette di cioccolato, i dolci di Manuela e l’ultimo dvd. Mi chiedo se due affermazioni come queste siano notevoli in sé o solamente perché sono state messe in bocca a una subalterna, a una serva:
A che cosa serve l’Arte? A darci la breve ma folgorante illusione della camelia, aprendo nel tempo una breccia emotiva che non si può ridurre alla logica animalesca. […] Dà forma e rende visibili le nostre emozioni e, così facendo, conferisce loro quell’impronta di eternità che recano tutte le opere le quali, attraverso una forma particolare, sanno incarnare l’universalità degli affetti umani […] … l’Arte è l’emozione senza il desiderio (corsivo dell’A.; pp. 197-198).
La letteratura, per esempio, ha una funzione pragmatica. Come ogni forma artistica, ha lo scopo di render sopportabile l’adempimento dei nostri doveri vitali. […] Sappiamo di essere bestie dotate di un’arma di sopravvivenza e non dèi che modellano il mondo con il loro pensiero, e quindi occorre qualcosa che renda questa sagacia tollerabile, qualcosa che ci salvi dalla triste ed eterna febbre del destino biologico (p. 242).
Sono definizioni condivisibili solo in parte, cioè come definizioni di una parte, e una parte minima, di una realtà molto più complicata. Quello che lasciano fuori è il fatto che l’arte nasce e si sviluppa e si consuma nello scambio, nel costante rapporto di osculazione tra reale e fittizio innanzitutto, e, forse soprattutto, nella condivisione tra fruitori; e anzi non si capisce com’essa arte abbia potuto realmente essere significativa, specie per un periodo così lungo, per una donna che non ha mai avuto la tentazione né di vivere né di scambiare, non dico molto, ma un’opinione – sempre parlando di “Bellezza” -, o un libro, con qualcuno: se non in una finzione volta a solleticare il solipsismo, il narcisismo di un pubblico viziato e vacuo.
Ma si può corteggiare l’inverosimile, si può rompere qualche regola; pur di avere il coraggio di non guardarsi indietro, di non rimpiangere troppo la via vecchia camminando per la nuova. E invece è proprio questo che la Barbery ha fatto, riservandosi di salvare Paloma dal suicidio, perché in fondo è così giovane; e facendo morire nella maniera più stupida Renée, solo ed esclusivamente perché né l’autrice né il suo pubblico, forse proprio inquantoché figlj della serva, avrebbero avuto piacere di vedere un ricco commerciante sposato con una portinaja d’origine contadina. Quando proprio la morte volontaria della ragazzina e il felice avvenire della donna avrebbero risolto parecchie contraddizioni. [09 06]
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