650. Scheda: Procházka, “Politica per tutti” (1968).

18 Ott

Jan Procházka (1929-1971), Politica per tutti [“Politika pro každého”, 1968], trad. Bruno Meriggi, G.G. Feltrinelli Ed., Milano gennajo 1969. Pp. 286 + catalogo.
Jan ProchazkaRaccolta di articoli, discorsi al Congresso degli scrittori, risposte al letture per rubriche (tra cui quella per la rivista “My”), interviste 1962-’68, a cavallo tra prima e dopo l’invasione del gennajo 1968. Ogni brano è corredato da una nota del 1968 che precisa e aggiunge quello che prima non doveva/poteva essere detto; per quanto  Procházka, socialista democratico convinto, si esprima sempre con grande libertà in questi pezzi. Dal 1967 in poi molti suoi articoli hanno subìto la censura; due pezzi, uno particolarmente velenoso sulla funzione del Congresso degli scrittori e un altro in favore d’Israele, scritto al rientro da un viaggio in Egitto, sono rimasti impubblicati e sequestrati, per essere stampati per la prima volta in questa raccolta di dopo il gennajo 1968.

Il pezzo riguardante il Congresso degli scrittori è semplicemente una serie di 3 risposte ad altrettante domande circa l’utilità dell’organizzazione. Procházka è per certi versi uomo d’apparato: la sua carriera fino a questo momento si è svolta interamente all’interno delle organizzazioni create dal governo comunista, ed è entusiasticamente in linea col progetto socialdemocratico. Ma la sua adesione, come logicamente consegue alla sua spontaneità, non ha nulla di prono o conformista. In sintesi, sostiene, il Congresso potrebbe essere utile, ma non è, a causa di chi lo gestisce e delle forze che vi dominano: e questo è tutto quello che ci si aspetta da uno scrittore di genio che operi in un paese comunista. Ma, come sempre, le cose sono molto più complesse rispetto alla vulgata, e la situazione cecoslovacca, vista anche solo dalla specola del Congresso, non si rivela affatto il covo di pecoroni che qualcuno malignamente si potrebbe aspettare. Gl’iscritti non erano tutti appartenenti al PCC; solo una delegazione, ovviamente molto invadente, vi era rappresentata. Le questioni interne ad un’istituzione sepolta di un paese remoto e conquistato da decennj all’economia di mercato ovviamente non interessano più a nessuno, ma è significativo come la decisione del PCC di ritirare la propria delegazione dal Congresso dati dallo stesso 1967 in cui maggiore si faceva la pressione della censura; ed è doveroso sottolineare come questa specie di cacciata conseguisse ad un dibattito estremamente aspro ed appassionato, durante il quale Procházka aveva preso nettamente le parti avverse alla politica del PCC.

Più interessante ancòra è il pezzo su Israele. Procházka viaggia parecchio, con delegazioni statali, a scopo conoscenza e rappresentanza, non solo come scrittore/giornalista ma anche, da un certo momento in poi, come cineasta. La sua riflessione su Israele nasce in occasione di un viaggio in Egitto, che cadendo nel 1967 è immediatamente seguente alla Guerra dei sei giorni (1966). Procházka, che è un progressista, non può rimanere indifferente alle condizioni di arretratezza dei paesi che visita: la Nubia gli appare sordidamente povera, ma soprattutto immobile nel tempo, quasi, dice, i faraoni se ne fossero appena andati via. Per certi versi questo è assolutamente vero: per quanto riguarda vecchie e deprimenti costumanze non è cambiato nulla dall’età degli ultimi ramessidi, come si accorge quando, durante la visita guidata, davanti ad ogni tomba sente ripetere dal turcimanno che è stata saccheggiata. Stupito di tanta incuria, dopo un po’ di tombe spoliate chiede quando sia successo; “Tremila anni fa”, è la risposta. A fronte di questo sfascio praticamente eterno, Israele è un’eccezione che per Procházka non ha nulla di negativo. Per un paese così piccolo, dice, l’offesa è l’unica vera forma di difesa; pur precisando che quella dei Sei giorni è stata offesa per modo di dire, dal momento che le intenzioni bellicose dell’Egitto erano note e sensibili da un pezzo, e Israele s’era limitato a coglierlo in contropiede. Su un piano più generale, e questo è veramente interessante, Procházka rifiuta di accogliere la favola dell’espansionismo d’Israele: la sua schiacciante superiorità tecnologica, sostiene, gli avrebbe permesso di asservirsi tutte le nazioni circonvicine, se veramente avesse voluto perseguire una politica di conquista. E’ un paese sostanzialmente occidentale, con cui la Cecoslovacchia – come ha accettato di fare con gli USA – dovrebbe intrattenere rapporti diplomatici.

Per quanto riguarda la censura, JP riporta le parole di Marx ed Engels contro essa, che presumerebbe, nella sua azione, di scavalcare il pensiero popolare, che in questo modo non può esercitare la sua critica. Concede peraltro che quelle parole sono state scritte in un contesto completamente diverso; ma, se è per quello, tutto quello che Marx ed Engels hanno scritto è stato scritto in un contesto diverso.

La Cecoslovacchia ottiene l’indipendenza col trattato di Versailles: il padre della patria è Masaryk, che riesce a far approvare i nuovi confini ad un “nevrotico” Wilson, uno “stanco” Clemenceau e ad un “irritato” Lloyd George (definizioni di Procházka). Al tempo di JP la figura di questo statista è completamente screditata, oltreché poco studiata; non fu un marxista ma nemmeno poteva esserlo, e comunque non fu un reazionario. JP ricorda di essere rimasto colpito da alcune frasi singolarmente antiretoriche e veritiere per un uomo di stato, sul lavoro: quella cosa che non piace a nessuno e che pure costituisce l’unica vera felicità per l’uomo. JP ne auspica una rivalutazione.

La Cecoslovacchia è un paese comunista dal 1948. La posizione del paese è autonoma rispetto all’URSS in campo economico: oltre ad avere una fiorente industria per conto proprio (Škoda, Báta, &c.), non prevede per esempio gli accordi con la FIAT che invece ha l’URSS, &c. Inoltre il paese ha una sua visibilità all’estero grazie alla sua cinematografia. E’ noto soprattutto il nome di Forman. Anche in questo caso, il sistema socialista non è affatto inferiore a quello occidentale; anzi, gli occidentali si stupiscono che in Cecoslovacchia lo stato sovvenzioni anche la cinematografia sperimentale, rendendo i cineasti locali più liberi rispetto al mercato, del quale invece gli occidentali sono schiavi. JP ricostruisce grottescamente l’anteprima di una commedia non riuscita in casa del più grande produttore cinematografico americano, il signor M., durante una festa. Sceneggiatore, regista e principali lavoranti sono seduti ai lati dello schermo, quelli che contano occupano sedie più comode di fronte. Alla fine M. chiede chi siano il regista, lo scenografo, &c.; e li licenzia in tronco e in blocco. Il party riprende. In effetti è difficile immaginare alcunché di più “sovietico”.

Nel 1960 JP ha modo di vedere Otto e 1/2 al Cremlino; la traduttrice en chuchotage ha un ceco talmente duro da disturbargli la visione, tanto che dopo un po’ la dispensa dal servizio e segue da solo, come può. Nonostante non possa seguire il dialogo, si rende conto che Otto e 1/2 sta al film come l’automobile sta alla carrozza. Per film come quello o West Side Story la Cecoslovacchia non ha abbastanza soldi, e deve aspettare anni prima di potersi permettere i diritti; eppure il paese riesce, anche mancando la possibilità di conoscere l’ultimo grido, a produrre una cinematografia attuale, vitale e molto apprezzata all’estero.

Jan Procházka nasce in una località vicino Brno nel 1929; conclude nella cittadina natale gli studj d’agraria nel 1949 (è di famiglia contadina), e comincia sùbito ad organizzare tenute agrarie giovanili, interrompendo l’attività solo per il servizio militare lungo i confini del paese – un’esperienza snervante di cui scriverà cose molto contestate. Le esperienze con le comunità giovanili portano alla raccolta di racconti Un anno di vita (1955). Nel 1959 comincia a lavorare come direttore artistico cinematografico e sceneggiatore, facendo parte di un gruppo di lavoro a Barrandov. Del 1960 è il romanzo Verdi orizzonti, del ’61 La valanga, romanzi di formazione con protagonisti giovani. Del ’65 è il romanzo antimilitarista La sparatoria, contestato per la sua “cinica” durezza; eppure, in occasione d’un’intervista, Procházka dichiarerà di averlo scritto pensando ai quindicenni della sua epoca; ripensando ai miei quindici anni, dirà, ricordo che ero già abbastanza uomo per certe cose.

Il suo antimilitarismo è stato il primo motivo di dissidio con i lettori e la censura. Un primo bozzetto del 1963, in cui racconta come banalmente ha fatto a far sparire una serie di figurine con personaggj celebri dall’ufficio di un graduato, per essere perciò condannato ad eseguire un piccolo lavoro di muratura, scatena a suo tempo una polemica con i lettori della rivista su cui è pubblicato. Atti di ribellione appartengono all’uomo, com’erano appartenuti al ragazzo, e dunque anche all’autore. Un altro aneddoto, dell’adolescenza, ricorda da presso quello che gli avviene in séguito sotto le armi: l’atto incriminato coincide anche con il suo esordio come artista, consistendo in una frase, scritta col gesso s’un portone, in cui si dice che il tal dei tali non può perdere il cervello perché non ce l’ha; la scritta è per giunta corredata con un disegno, la sua prima opera di satirista. E’ condannato a ripulire il portone sotto gli sguardi malevoli dei paesani. Conclusa l’operazione, chiede ostentatamente dov’è la pompa, perché ha bisogno d’acqua limpida. L’ironia non è capìta; da qui in poi sa che la chiarezza è la dote più vitale dello scrittore.

Durante la scuola, scrive un tema comico sulle guerre che hanno riguardato la Cecoslovacchia nel corso della storia. La maestra, di mente evidentemente angusta, gli dice sorprendentemente che non può soltanto odiare, ma che deve imparare ad amare.

Le radici contadine contano moltissimo per il Procházka scrittore. Ricorre spesso tra i ricordi la figura del nonno, uomo integro, rievocato anche in chiave molto seria: grande lavoratore, incapace di mentire, diceva al massimo cinque parole al giorno, e l’ultimo giorno della sua vita ripose gli attrezzi, si diede una lavatina e morì. Qualità che nel clima di sospetto e menzogna che appestano la Cecoslovacchia dei suoi tempi sembrano irrimediabilmente perdute. La discendenza spirituale da Hašek, e l’appartenenza al lungo filone dell’umorismo praghese, è evidente: spesso Procházka rielabora, ritocca, aggiunge e toglie – ma soprattutto accumula, fino all’assurdo – a seconda che gli occorra per raggiungere un certo effetto. Cosicché in altra occasione si racconta del nonno sessantenne che riceve la visita del medico, che gli chiede in che contenitore sia solito bere la slivovice. Il nonno gli mostra un bricco per il caffè, da due decilitri. Il medico glielo sequestra e glielo sostituisce con un bricco da un decilitro. Per dieci anni il nonno va avanti, sempre bene di salute, ma mai veramente felice. Dopodiché viene in punto di morte; agonizzando, le sue ultime parole sono: “Se mi avesse lasciato il bricco da due decilitri sarei vissuto altri dieci anni”. (La nonna ha il disappunto di ritrovarsi vedova con queste sole parole, dedicate non a lei ma alla slivovice).

La vita di campagna è molto dura: i guadagni sono pochi e si va avanti con mezzi rabberciati alla meglio. Un giorno JP sorprende il padre mentre monologa nella stalla, dicendo al governo che non arriverà mai ai guadagni di quei milionarj americani (JP spiega che la sola amarezza del padre è di non essere utile al paese nella lotta all’imperialismo).

La visione dei fatti da parte di Procházka rimane immune dai loci communes della propaganda sovietica deteriore. Racconta di un funzionario comunista cecoslovacco a New York, rimasto seriamente traumatizzato perché non vi trova il contrasto di sfrenata ricchezza e spaventosa miseria che gli avevano detto.

Allo stesso modo lascia che dalle sue pagine traspaja la realtà della sua Praga, della sua Cecoslovacchia, senza infingimenti e senza appulcramenti di sorta. Ciò che non impedisce affatto a queste pagine di essere tutte letteratura. Si può contestare che la posta dei lettori di un giornale appartenente al blocco sovietico sappia quantomeno un po’ di vecchio; ma si avrebbe torto, specialmente oggi, che è venuto totalmente a mancare è proprio un atteggiamento sanamente strumentale nei confronti della scrittura; è esclusa qualunque possibilità di presa sul reale, se non attraverso qualche forma di mistificazione, o di meretricio. La riesumazione di scritture sepolte (sepoltissime: il presente testo, stando al quasi nulla che ne dice la rete, pare divenuto rarissimo, e non sembra nemmeno particolarmente richiesto) come questa ha il valore di restituire un contatto, in primo luogo, con una scrittura che, senza nulla sconfessare delle proprie istanze estetiche, formali, esiste e resiste inquantoché innanzitutto scrittura “di servizio” – il genere è quello della rubrica con botta-e-risposta, come Scerbanenco e la Gasperini ne tenevano negli stessi anni, e prima, in Italia – , utile all’informazione, alla puntualizzazione, al consuntivo minimo su fenomeni circoscritti o andamenti generali. Ho detto che attraverso un libro come questo torna ad essere possibile un contatto con una scrittura dettata da necessità; non mi arrischio a dire che la lettura di un testo similare, o di qualunque altro testo molto datato — testimone di una civiltà in senso lato, prima che letterario, diversa dalla nostra e precedente ad essa — apra automaticamente possibilità altre che di riflessione. Ma, appunto riflettendo, c’è da chiedersi se la capacità di uno (straordinario) scrittore di raggiungere a cadenze men che settimanali la verità simbolica su quanto di saliente gli vada accadendo intorno sia veramente figlia di un tempo determinato, o se invece non sia un’arte, o una motivazione, perduta per qualche motivo forse ancòra da precisare. O almeno così, dati i disperati presupposti, mi piace pensare.

La posta dei lettori finisce col dare un ritratto piuttosto crudo e problematico della Cecoslovacchia dell’epoca. Non ha molta importanza, dal mio punto di vista, fare la conta delle sciocchezze di cui l’ottusità dei regìmi parasovietici s’è resa responsabile, né dare conto della corruzione, dell’ipocrisia e del malfunzionamento intrinseci a tutti i governi socialisti; finirei col trovarmi a ripetere con persone di cui non faccio nessun conto una serie di luoghi comuni diventati ancòra più orripilanti, nel corso del tempo, delle deficienze che avrebbero preteso denunciare. Credo sia doveroso riconoscere che nel comunismo si riconobbero specialmente paesi arretrati, che del comunismo si fecero un mezzo per uscire proprio dalla loro arretratezza; gli scompensi, le forzature e le ingiustizie che si produssero nel difficile percorso sono argomento di tonnellate di libri storici e pseudostorici. Rimane, secondo me, da valutare quanto e se possa considerarsi ineluttabile un processo che, in forme molto simili, pur con le differenze dovute a diverse storie pregresse, ha riguardato tanti paesi; e il significato del trionfo in paesi rimasti prevalentemente agricoli di una dottrina – per così chiamarla – che doveva avere la massima espressione in paesi industrialmente avanzati. Si dovrebbe valutare seriamente se, e se sì quanto, il comunismo ha contribuito, pur tra tante storture, all’emancipazione di una fetta d’umanità, e alla sua consegna all’industrialismo globale; e ridare il giusto peso storiografico a fenomeni che, dati i presupposti ideologici dai quali siamo come occidentali in qualche tenuti a muovere, pajono paradossali, come per esempio la prevalenza di marxisti ortodossi negli USA (Veblen, Wilson, Fromm, Reich, Mailer) a fronte di un marxismo orientale passato attraverso il tradimento stalinista (il capitalismo di stato): per scoprire, magari, che aveva ragione Sartre, che Marx l’aveva peraltro più risentito che capìto, a sostenere che il marxismo è la filosofia necessaria di tutt’un’epoca.

In una data estrema come il 1977 Adam Schaff scopriva candidamente che la dittatura del proletariato altro non è che parlamentarismo democratico. Non so se se ne debba concludere che un pajo di miliardi di persone al mondo viveva da una sessant’anni nel più clamoroso errore esegetico, ma democratico è Procházka, e ad un pubblico democratico si rivolge.

Il quadro cecoslovacco, per come emerge dalle pagine di Procházka, è interamente problematico, ma è vitale. Anche certi toccanti provincialismi hanno, anche grazie al gusto dell’autore, un’impronta leggera, vagamente fiabesca. Per esempio, durante le visite di delegazioni del blocco, la prima cosa che Stalin portava a vedere era la fabbrica in cui erano confezionate le sue sigarette favorite: i macchinarj dividevano il tabacco, spingendolo nei tubetti di carta e chiudendo le sigarette nei pacchetti. Il delegato cecoslovacco rimase stupefatto, convinto com’era che al suo paese tutto questo fosse fatto a mano! L’ignoranza tra Russi e Cecoslovacchi era reciproca, peraltro. La Cecoslovacchia di Procházka è un piccolo paese, un po’ disperso nella compagine del blocco. Una ragazza appena stata in visita in Russia riferì che era vero che i Cecoslovacchi erano benvoluti, come appartenenti al blocco, ma i Russi con cui aveva parlato non avevano la più pallida idea di dove si collocasse esattamente il paese sulla carta geografica, e non sapevano nulla dei loro artisti, come Smetana e altri.

Felicissima la vena di JP quando è libera di spiegarsi fluvialmente col suo umorismo praghese. Per esempio, rispondendo alla domanda di un lettore in merito al consumo di alcool, JP, dopo aver mostrato il leggero ridicolo di una domanda del genere in un momento in cui si trovano solamente derivati del latte, si lancia in un pezzo di raro virtuosismo, in cui descrive matrimonj in cui tutti sono troppo ubriachi per rinunciare a fare cose men che disdicevoli: in occasione di uno, scalzano sampietrini scagliandoli contro i lampioni, fanno un chiasso indiavolato, al punto che la sposa manda all’inferno lo sposo prima ancòra che abbiano raggiunto l’altra parte della piazza, dove c’è il municipio; in un altro un invitato ubriaco impallina tutti i parenti con projettili di gomma, &c.

Paese piccolo, appunto, e soggetto, posto ce ne fosse l’occasione, ad antipatie razziste. Il governo aveva fatto venire a Praga numerosi africani a seguire corsi organizzati dallo Stato, e non sempre la cittadinanza s’era mostrata disposta a rinunciare a pregiudizj. Procházka riferisce di essere stato servito da un taxista prima di due africani, che per la verità aspettavano da più tempo; non solo, il taxista aveva creduto, durante la corsa, di doversi pure giustificare con ogni sorta di argomentazioni razziste, che l’avevano particolarmente ferito. Ma nella sua visione, progressista, è lo scontro tra fasi di civiltà, tra differenti arretratezze ad essere rilevante: inaccettabile l’ignoranza del taxista che trascura gli africani per servire il compatriota, inaccettabile il comportamento dell’africano che pretendeva fosse suo diritto insegnare alla moglie a stare al mondo prendendola a schiaffoni in mezzo alla strada.

L’economia cecoslovacca era ovviamente un disastro. Faceva parte della vulgata di un buon numero di persone nel mondo, almeno quelle che avevano qualche idea su come la Cecoslovacchia fosse fatta, che in questo paese esistesse una doppia valuta; Procházka riferisce di un arabo che, durante il viaggio in Egitto, gli aveva chiesto conferma di questa notizia. In un certo senso era vero, e ciò era dovuto a quella contraddizione capitalista che erano i grandi magazzini Tuzex di Praga, un luogo in cui era possibile acquistare solamente con buoni, non con moneta, e in cui era esposta merce di qualità incomparabilmente superiore a quella degli articoli normalmente rinvenibili nei negozj in cui si pagava con semplici corone. Chiaramente i buoni non erano dati a tutti, assolutamente. Ed esisteva tutto un mercato nero di buoni, e un numero piuttosto consistente di ragazze che si prostituivano per ottenerli. La prostituzione era una piaga cecoslovacca, spesso un’extrema ratio di donne altrimenti non particolarmente portate a questo speciale commercio per far quadrare i bilancj. Ma il pezzo delle “donne dei marciapiedi di Praga” non riguarda le prostitute – anche se riguarda tutte quelle donne esauste buona parte delle quali è a rischio di diventarlo: sempre stanche e di corsa, perennemente assediate dal bisogno di denaro, senza tempo da dedicare alla casa. All’epoca il 43% delle donne ceche lavora, contro il 38% della Germania occidentale e il 28% dell’Italia. La giornata comincia con l’affidamento dei bambini all’asilo; tutte le pulizie devono essere fatte la sera, perché la mattina non c’è tempo nemmeno di lavare un piatto; il mobilio dev’essere preso a rate, ci vogliono anni e anni per completare l’arredamento; il televisore è uno degli acquisti più impegnatìvi. Nessuno stupore che ogni tanto questa o quella si faccia vedere mentre sale sulla macchina di un uomo diverso da suo marito. A queste difficoltà contribuiscono però anche certe fisime subculturali, come il culto per un matrimonio borghese.

JP ricorda di essersi sposato – la moglie condivideva le sue stesse convinzioni – senza cerimonia e un salto al self-service per tutto pranzo. Il mobilio era stato fornito dai genitori di entrambi, cose vecchie e solide: una voce di spesa in meno. Il matrimonio con abito bianco e banchetto, mentre la casa è ancòra sguarnita, fa preferire a molti cecoslovacchi l’indebitamento alla stabilità. La scelta di JP di dedicarsi alla scrittura è stata ovviamente una scelta di sacrificj. Dapprima scrittore di vita militare, ha avuto come livre de chevet Il nudo e il morto di Mailer, dal quale non si separerebbe nemmeno per un prestito, essendo diventato rarissimo in Cecoslovacchia. Maileriano è stato anche l’esordio: s’è chiuso per quasi un anno in casa, ciò ch’è costato il pellicciotto della moglie e la loro biblioteca. Ma poi i romanzi di maggior successo di JP hanno venduto copie nell’ordine di centinaja di migliaja, con un guadagno per lui di qualche migliajo di corone. Per lui è motivo di grande stupore quando viene a sapere che un autore americano percepisce un milione di dollari per un romanzo che non ha ancòra scritto e di cui a malapena egli stesso sa il titolo, per il film che se ne trarrà.

La raccomandazione è spesso l’unico modo per levarsi d’impaccio. Per quanto gli sia penoso entrare così in questioni personali, racconta d’aver dovuto portare la figlia piccola in ospedale per un disturbo; la prima visita è  fatta alla bambina dopo tutto un mese di degenza, e solo perché JP è riuscito a farsi raccomandare da qualcuno. La visita porta alla scoperta che la bambina ha un terzo rene, nientedimeno. Avvicinandosi le vacanze di natale, la dottoressa manda quasi tutti i piccoli degenti a casa, ma per non svuotare il reparto trattiene la figlia di JP. Tutti gli altri bambini sono raccomandati, la figlia di JP no. Per caso, parlandone con una vicina di casa, JP viene a sapere che questa ha un’entratura; la donna se ne incarica, e la bambina può tornare a casa. A questo punto, completamente disperato, JP si rivolge a un medico privato, che in dieci minuti scopre che il male della bambina è dovuto alla radice non estirpata di un dente.

Richiesto dell’educazione delle figlie, racconta di uno strano paradosso, per cui una delle due mostrava una curiosa e inestirpabile simpatia per tutt’i personaggj negatìvi, di farabutti e delinquenti, dei romanzi. Dice di aver provato di tutto per metterle i cattivi nella luce peggiore; solo quando alla fine getta la spugna, la bambina prende ad amare i buoni. Semplicemente non voleva che il suo giudizio morale fosse condizionato. Sempre a proposito delle figlie, dice d’essersi fatto venire qualche scrupolo per il linguaggio impiegato in molti suoi scritti. Alcune delle frasi de La sparatoria sono di quelle che lui stesso sarebbe costretto a censurare se fossero usate dalle loro bambine. Allo scopo di non autorizzarne indirettamente l’uso, ha nascosto alcuni dei proprj libri, dei più potenzialmente pericolosi. Ma una delle figlie ha trovato ugualmente la copia nascosta de La sparatoria, l’ha letta e l’ha pure portata a scuola, dove l’ha prestata ad una compagna più piccola, dodicenne – senza che questo abbia minimamente influito sulla loro condotta o sul loro linguaggio; dal che gli pare poter inferire che la letteratura non ha il potere né di promuovere né di deprimere la morale.

JP dice di essersi accorto, un giorno, che le due figlie lo deridevano. Richieste del perché, gli avevano risposto che lo deridevano perché era ridicolo. Una delle cose più insopportabili per un uomo è proprio il non essere preso sul serio. Ma accettando anche la loro libertà di ridere di lui, JP dice di aver avuto una lezione di umiltà.

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