
Piazza Vittorio. Però qualche annetto fa, & col sole.
Stamane pioveva di nuovo, molto forte; per questo era impossibile, faute de montre, sapere che ore fossero quando mi sono svegliato, perché era bujo. Due donne che passavano parlando ad alta voce all’altro capo del colonnato non facevano fede: di lì passano anche molti che vanno, a piedi, alla stazione, e il primo treno parte alle 4.40. Ho dovuto aspettare che spiovesse un poco, poi sono andato a prendere il 13, dove grazie all’obliteratrice ho saputo che era mostruosamente presto – le 6.25, ciò che vuol dire che non mi sono svegliato dopo le 6.00. Ho raggiunto l’Oftalmico, e mi sono preso un caffè. Non ho il computer dietro, quindi non mi sono soffermato a vedere se si prendeva qualche wireless – e poi la mappazza che mi porto dietro per quasi tutta la settimana non prende molto bene. Fumata la sigaretta, ha ripreso ovviamente a piovere, motivo per cui ho attraversato via Juvarra, rimanendo il più possibile accosto al muro, anche se era praticamente inutile, raggiungendo i portici di corso s. Martino. Qui c’era già parecchia gente, che però era un manipolo di gitanti che aspettava zaino in spalla il pullmann per Caselle; tutti molto allegri, mentre io, che strascicavo i piedi, ero assorto nel mio pensiero dominante – e cioè che non voglio passare un altro inverno a Torino. Quest’anno l’escursione termica ebbe qualcosa di eroico, s’è passati dai -15 gradi della brutta stagione ai quasi 40 dei giorni più caldi, e ha piovuto poco. Le piogge attuali hanno molto dell’autunnale, può darsi che la stagione sia già rovinata. Ma devo, devo arrivare a farmi quella settimana, quelle due settimane al coperto e al chiuso, è indispensabile per arrivare da qualche parte; o meglio, per sapere se è possibile arrivare da qualche parte, e, se sì, come.
Andando a coricarmi, abbastanza sul presto – così si spiega come mai mi sia svegliato anche prima del solito -, eccettuato un inquilino abbastanza occasionale come B., che si sarebbe trattenuto solo fin verso mezzanotte, poi sarebbe andato a lavorare a Porta Palazzo, c’erano solo altre tre persone, due che non conosco, e una che faceva parte di un piccolo gruppo, una specie di famigliola di zingari romeni – eppure deve aver rotto con loro, l’avevo vista litigare con la vecchia, mai vista così fredda e secca, che sottolineava alcune frasi gracchianti, spesso ripetute, con un gesto eloquente del braccio, sù e giù, come colpi di mannaja. Soprattutto mancava quella piccola vecchietta che già ci dormiva, chissà da quanto, quando ho cominciato a venirci io, che era ancòra inverno, e non ha mai mancato una notte, almeno che io abbia visto. Strano che ci fosse così poca gente, dato che piove della grossa.
Percorsi i portici di c.so san Martino, se si segue la curva e si procede sotto il colonnato, si continua in p.zza XVIII dicembre, quella della stazione di Porta Susa. Lì, nei pressi dell’edicola, e uno persino di traverso davanti al gabbiotto verde, c’erano almeno cinque corpi riversi, avvoltolati nelle coperte, con vicino i cartoni del vino, e i piccoli alimenti confezionati che portano i ragazzi della Croce rossa.
Lungo tutta via Cernaja non c’era nessuno, salvo il vecchio che si costruisce sempre quelle casette di cartoni, sembra un frigorifero pronto per essere portato via da un momento all’altro. Ho tirato dritto, e sono andato, passando p.zza Castello, sempre sotto i portici, e via Po, verso piazza Vittorio Veneto. Qui volevo sedermi su uno degli zoccoli tra le colonne, dove, se non piove di traverso, ci si può sedere a lèggere col maltempo: ho un sacchettino in cui c’è tra l’altro un romanzo popolare Lucchi, “Mamma Rosa” di tal Richebourg, da non confondersi, evidentemente, con Richepin. Passando, dalle vetrine di Arethusa la copertina di un libro mi ha promesso, per il 2012, per altri l’anno dell’apocalissi, la fine dell’età della ribellione. Già: ma che cosa s’intende per ribellione? Tutti amano la vita tranquilla, ma ci si ribella proprio perché oggettivamente è impossibile farsela. Poi ci sono quelli che vanno in cerca di esperienze eccitanti, o quelli che sono nati in contesti sottoproletarj, e non hanno idea di vita alternativa e non possono andare avanti se non lavoricchiando, litigando, attaccando bottone, sbronzandosi prevalentemente all’aria aperta, in mezzo ai loro simili. Poi ci sono quelli che hanno un passato che è come un cancro in piena metastasi, e non si risolvono a morire, dando ragione a Schopenhauer che diceva che il suicidio è letteralmente inconcepibile e che commetterlo è un estremo desiderio di cambiare vita, e vivono cercando di distruggere qualcosa, il proprio nemico, forse, o chi gli somiglia, o qualunque cosa viva o sia più di quanto potranno mai attingere.
E ho trovato uno zoccolo adatto, in p.zza Vittorio, dove mi sono fermato, nei pressi d’un bar. Curiosamente, davanti allo zoccolo successivo qualcuno aveva abbandonato un pajo di scarpe bianche in apparente buono stato. Due cameriere, di cui una bionda, coll’aria di quelle che devono cominciare a tirar fuori tavolini e sedie per il deòr, stavano ferme, e guardavano verso le scarpe, o meglio un po’ più in alto, più che altro nello spazio tra le due colonne. Donde è sbucato un uomo apparentemente sulla quarantina – ma chi non dimostra all’incirca una quarantina d’anni? – in mutande e camicia sangue di piccione cangiante, coi piedi nudi, che farfugliando a qualche invisibile competitore pezzdimmerd e stronz cercava d’infilarsi un pajo di jeans, a quel che pareva, sulla testa. Ecco, questo poteva essere un ribelle. Chissà quante frustrazioni, quanta rabbia, quanto odio: abbastanza, almeno, da spaventare le due cameriere, che continuavano a guardarlo – ma una già brandiva una sedia, si fidava quantomeno a tentare di cominciare a disporre l’esercizio per l’accoglimento della clientela – anche se tutto era deserto, ma lo sapranno loro, avranno qualche danaroso cliente fisso che scende di buon mattino dagli scalei di marmo dei palazzi circostanti, il sabato mattina verso le 7.00, alla vigilia del Ferragosto, qualche politico insonne, qualcuno che vive di rendita e va a letto tutte le sere con le galline in memoria di come il nonno fece fortuna, o che so io. Dato che il fattone aveva evidentemente voglia di alzare la voce, e io non avevo nessuna voglia di ascoltare nulla che fosse al disopra di qualche decibel, mi sono spostato sull’altro lato, & speculare, della piazza.
Per farlo, sono dovuto passare davanti al bar storico che fa angolo con via Po. Proprio davanti al bar un piccolo assembramento mi ha costretto ad uscire dal colonnato, per raggiungere il passaggio pedonale. Naturalmente, però, ho guardato che cosa radunasse quella decina di persone a capannello a quell’ora, lì. In terra c’era la forma, che m’è parsa toccantemente piccola, ridotta, di una ragazza giovanissima, bionda, avvolta in una coperta, o piumone, colore azzurro, o carta da zucchero. Chinata su lei una signora chiedeva dentro un telefonino: Chi risponde? E’ la mamma? Ah, è il papà? Senta, si tratta di sua figlia, c’è stato un piccolo incidente. Vorrebbe venire qui? Superato il capannello a destra, mi sono voltato a guardare la ragazza in faccia: era pallida, e avrei creduto che il piccolo incidente l’avesse uccisa, qualunque cosa fosse, se non avesse avuto gli occhj sbarrati e lucidi, e la bocca semiaperta che si moveva appena, a tratti, dandole un’espressione di incredibile disperazione. Si può aspettare una vita inutilmente prima di vedere un’espressione del genere stampata sulla faccia di un essere umano. Quello che in un tempo ipotetico, sicuramente lontanissimo, riusciva ad imprimere sui tratti delle persone una grave delusione oggi è demandato in minima parte all’alcool, altrimenti a qualche strana droga, che riesce a creare sensazioni e sentimenti del tutto primitivi, e preclusi a quest’umanità. Per questa semplice, e valida, ragione vi si ricorre.
Sono rimasto a lèggere la storia di Rosa, di Susanna Vernon, della bella monaca con una mano sola (mon[a]ca, ma in francese questo giochetto non ha equivalente) finché la padrona del negozio di vestiti dirimpetto, donna piccola e bionda, con la faccia rifatta e le labbra a gommone, non mi ha chiesto cerimoniosamente di spostarmi, ché doveva lavare in terra. Su quel lato della piazza, più sù verso via Po, dormivano in tre: uno, barbuto e serafico, da solo, e due, maschio e femmina, ancòra più sù, poco discosto. Difficile non lèggere tranquillità e appagamento in quel poco che sporge dei corpi di quei fiduciosi abitanti abusivi delle città. Io da mesi dormo senza coperte, esattamente così come sono vestito. Mi chiedo come sembro, io, quando dormo.
E io che stanotte dormivo, facendo un sogno che sapeva di pioggia anch’esso, di per sé, in compagnia di qualche altro depresso derelitto. Passi che la Croce rossa passa troppo presto, la sera – forse per risparmiare sulle merendine, il tè, le patatine -, ma nel complesso, decisamente, mi sto proprio perdendo il meglio della vita.
Esprimi pure (prego) la Tua garbata opinione!