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358. Endecasillabi.

5 Ott

Da Palasciano s’è scatenata una polemicuzza su un componimento d’occasione dell’owner; un anonimo ha sostenuto (si veda qui quale e chente sia il componimento, e che cosa si dice nel commenti): a) che la sinalefe che farebbe quattro sillabe delle teoriche cinque di “è affettata” è illecita, anzi “orrenda”, al che non saprei che rispondere, se non che, nel parlato, mi sembra che la copula finisca sempre, naturalmente, in sinalefe con quanto segue, e che non ci ho mai trovato nulla di particolarmente ripugnante;  b) che, e questa è la cosa che mi è parsa più strana, gli endecasillabi con accento forte in iii posizione contraddicono alla metrica classica.

A parte il fatto che per “metrica classica” io ho presente quella greca e quella latina, e la definizione mi stride, trovo in genere queste discussioni di una penosità terrificante. Ma la pulce nell’orecchio l’anonimo me l’ha messa, nel senso che mi sono effettivamente chiesto non se – giacché so già, grazie al piffero, grazie a qualche vecchio manualetto, che l’endecasillabo con acc. in iii posizione non solo è dabile, ma ben attestato, e praticamente inevitabile (e poi, perché dovrebbe essere evitato lo sanno solo l’anonimo e l’imperscrutabile ente superiore che l’ispira) – bensì quante volte l’abbia usato Dante in un canto della Comedia.

Intendiamoci bene: Dante non è, quanto a musicalità del verso, tutt’oro macinato e perle strutte. Poteva ben darsi che i suoi endecasillabi con accento in iii posizione risultassero come sempre icasticissimi & gagliardissimi, ma magari un filo troppo gotici per il molle gusto corrente. Nulla di tutto questo; tra gli endecasillabi con acc. in iii ce ne sono alcuni dei più musicali, evocatìvi e anche memorandi tra i versi del canto I (mi baso sulla cura del Sapegno, Ricciardi, Napoli):

1. I, 5: esta selva selvaggia e aspra e forte

2. I,15: che m’avea di paura il cor compunto

3. I,20: che nel lago del cor m’era durata

4. I,25: così l’animo mio, ch’ancor fuggiva [con cesura] *

5. I,33: che di pel maculato era coverta

6. I,41: sì ch’a bene sperar m’era cagione

7. I,44: ma non sì che paura non mi desse *

8. I,54: ch’io perdei la speranza de l’altezza

9. I,58: tal mi fece la bestia sanza pace

10. I,59: che, venendomi incontro, a poco a poco

11. I,63: che per lungo silenzio parea fioco

12. I,64: Quando vidi costui nel gran diserto

13. I,65: – Miserere di me – gridai a lui *

14. I,69: mantovani per patria ambedui

15. I,78: ch’è principio e cagion di tutta gioia?

16. I,79: – Oh, se’ tu quel Virgilio e quella fonte *

17. I,82: O delli altri poeti onore e lume

18. I,84: che m’ha fatto cercar lo tuo volume

19. I,86: tu se’ solo colui da cu’ io tolsi

20. I,114: e trarrotti di qui per luogo etterno

21. I,129: oh felice colui cu’ivi elegge!

22. I,134: sì ch’io veggia la porta di san Pietro

23. I,135: e color cui tu fai cotanto mesti

Sono 23 versi (magari ne ho dimenticato qualcuno; uno eccedeva, e l’ho tolto) in cui l’acc. cade sulla iii; il canto in totale ne ha 136. Gli accenti forti dipenderanno anche da ragioni espressive: in “che m’avea di paura il cor compunto” non è il caso di segnarlo sulla iii “che m’avèa…”); ma in “esta sèlva selvaggia e aspra e forte”, dato il bisticcio, non è inopportuno. In “che per lùngo silenzio parea fioco”, può sottolineare l’agg.; ancòra più plausibile “tu sei sòlo colui da cui io tolsi” (‘tu sei quel solo, quell’unico da cui, &c.’); “o felìce colui cui ivi elegge!”, &c. Ma, anche attenendomi ai soli 4 vv. in cui l’acc. forte in iii non ha alternative, mi sembra chiaro che non è affatto una rarità; e men che meno che possa ritenersi scorretto, o che laceri l’orecchio.