Da Palasciano s’è scatenata una polemicuzza su un componimento d’occasione dell’owner; un anonimo ha sostenuto (si veda qui quale e chente sia il componimento, e che cosa si dice nel commenti): a) che la sinalefe che farebbe quattro sillabe delle teoriche cinque di “è affettata” è illecita, anzi “orrenda”, al che non saprei che rispondere, se non che, nel parlato, mi sembra che la copula finisca sempre, naturalmente, in sinalefe con quanto segue, e che non ci ho mai trovato nulla di particolarmente ripugnante; b) che, e questa è la cosa che mi è parsa più strana, gli endecasillabi con accento forte in iii posizione contraddicono alla metrica classica.
A parte il fatto che per “metrica classica” io ho presente quella greca e quella latina, e la definizione mi stride, trovo in genere queste discussioni di una penosità terrificante. Ma la pulce nell’orecchio l’anonimo me l’ha messa, nel senso che mi sono effettivamente chiesto non se – giacché so già, grazie al piffero, grazie a qualche vecchio manualetto, che l’endecasillabo con acc. in iii posizione non solo è dabile, ma ben attestato, e praticamente inevitabile (e poi, perché dovrebbe essere evitato lo sanno solo l’anonimo e l’imperscrutabile ente superiore che l’ispira) – bensì quante volte l’abbia usato Dante in un canto della Comedia.
Intendiamoci bene: Dante non è, quanto a musicalità del verso, tutt’oro macinato e perle strutte. Poteva ben darsi che i suoi endecasillabi con accento in iii posizione risultassero come sempre icasticissimi & gagliardissimi, ma magari un filo troppo gotici per il molle gusto corrente. Nulla di tutto questo; tra gli endecasillabi con acc. in iii ce ne sono alcuni dei più musicali, evocatìvi e anche memorandi tra i versi del canto I (mi baso sulla cura del Sapegno, Ricciardi, Napoli):
1. I, 5: esta selva selvaggia e aspra e forte
2. I,15: che m’avea di paura il cor compunto
3. I,20: che nel lago del cor m’era durata
4. I,25: così l’animo mio, ch’ancor fuggiva [con cesura] *
5. I,33: che di pel maculato era coverta
6. I,41: sì ch’a bene sperar m’era cagione
7. I,44: ma non sì che paura non mi desse *
8. I,54: ch’io perdei la speranza de l’altezza
9. I,58: tal mi fece la bestia sanza pace
10. I,59: che, venendomi incontro, a poco a poco
11. I,63: che per lungo silenzio parea fioco
12. I,64: Quando vidi costui nel gran diserto
13. I,65: – Miserere di me – gridai a lui *
14. I,69: mantovani per patria ambedui
15. I,78: ch’è principio e cagion di tutta gioia?
16. I,79: – Oh, se’ tu quel Virgilio e quella fonte *
17. I,82: O delli altri poeti onore e lume
18. I,84: che m’ha fatto cercar lo tuo volume
19. I,86: tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
20. I,114: e trarrotti di qui per luogo etterno
21. I,129: oh felice colui cu’ivi elegge!
22. I,134: sì ch’io veggia la porta di san Pietro
23. I,135: e color cui tu fai cotanto mesti
Sono 23 versi (magari ne ho dimenticato qualcuno; uno eccedeva, e l’ho tolto) in cui l’acc. cade sulla iii; il canto in totale ne ha 136. Gli accenti forti dipenderanno anche da ragioni espressive: in “che m’avea di paura il cor compunto” non è il caso di segnarlo sulla iii “che m’avèa…”); ma in “esta sèlva selvaggia e aspra e forte”, dato il bisticcio, non è inopportuno. In “che per lùngo silenzio parea fioco”, può sottolineare l’agg.; ancòra più plausibile “tu sei sòlo colui da cui io tolsi” (‘tu sei quel solo, quell’unico da cui, &c.’); “o felìce colui cui ivi elegge!”, &c. Ma, anche attenendomi ai soli 4 vv. in cui l’acc. forte in iii non ha alternative, mi sembra chiaro che non è affatto una rarità; e men che meno che possa ritenersi scorretto, o che laceri l’orecchio.
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