Lamentavo tempo fa su “L’Indice” (giugno 2002) la bassa qualità della prosa tedesca contemporanea pubblicata da Feltrinelli.
Anna Chiarloni, Su Uwe Johnson, “L’Indice” genn. 2003.
Ma avesse pensato un po’ di più alla sua, di prosa!
‘sta carampana.
Lamentavo tempo fa su “L’Indice” (giugno 2002) la bassa qualità della prosa tedesca contemporanea pubblicata da Feltrinelli.
Anna Chiarloni, Su Uwe Johnson, “L’Indice” genn. 2003.
Ma avesse pensato un po’ di più alla sua, di prosa!
‘sta carampana.
Sono in p.zza s. Carlo, mi ritrovo su una panchina davanti agli archi intestati alla s. Paolo, che sono tredici. Ci sono 14 gradi e sono le 20.11. Ho il caval d’brons del Marocchetti sulla sinistra, davanti a me. Noto che hanno già messo quelle discutibili installazioni prefestive, che rendono la piazza ancóra più buja di quanto sia normalmente: i lampioni sono stati ornati in modo che adesso non mandano la solita smorta luce giallastra, ma, nell’ordine – cominciando dai lampioni che pendono dagli archi suddetti, luci giallo-rosso-blu, verde-giallo (almeno; forse giallo-verde-giallo, ma di qui non si vede bene), blu-giallo-rosso, rosso-giallo(-?), rosso-blu-giallo (proprio davanti a me), azzurro-giallo-rosso, rosso-giallo-verde, una specie di arancio-rosso, rosso (?)-rosso, verde-giallo-rosso, blu-giallo, giallo-blu-rosso. La piazza è poi illuminata, all’interno del perimetro, da 4 coppie di di alti grappoloni di lampioni, colorati adesso allo stesso modo, e avvolti come in specie di matasse, o gomitoli, che però non s’illuminano, e comunque sono una cosa tristissima a vedersi. Guardo le cose, pur tra i fumi del nimesulide e della febbre, con una tale affettuosità – anche gli sporchissimi piccioni, che continuano a fare la spola tra la fontanella e una delle panchine interne ai portici alle mie spalle, passandomi tutte le volte sopra la testa, col rischio di lasciarmi qualche stronzo in capo – che mi rendo conto di volerne prendere nota perché domani, effettivamente, potrei dovergli dare l’addio, per qualche tempo. Domani spero veramente che mi ricoverino, ho un’infezione violenta, e domani faranno otto giorni. Finirà col fondermi il cervello, e preferirei evitare, ché già funziona sì e no.
La combinazione di nimesulide e ciproxin – nessuno dei quali, dev’essere detto, è un antipiretico – ha funzionato due sere fa e nella giornata di jeri. Oggi, il disastro. Anzi, io non sono affatto sicuro che jeri sia andata così bene come mi sentivo. Mi sentivo intronato e accaldato, ma è vero che i due farmaci, o uno dei dei due, mi sta dando insonnia, e quando ho dormito troppo poco, e rimango col sonno arretrato, ho degli stati, il giorno dopo, spesso simili alla febbre. Se già ce l’ho, posso solo supporre, mi aumenta. Jermattina mi sono svegliato alle 5.30; era presto, ma cinque ore e mezzo possono ancóra andare. Stamattina, invece, mi sono svegliato alle 4.15, e sono proprio quattro ore e un quarto di sonno, che mi sembrano poche anche per me che non sono un gran dormitore. Ho fatto un giro, sono andato in centro, ho preso un caffè ad un distributore, e alle 6.30 sono risalito al luogo del mio giaciglio. Non avevo sonno, ma avevo un senso di arsura tremendo, e ho bevuto a tutte le fontane che ho incontrato. Alle 7.45, in procinto di uscire dopo fatta la doccia, m’è venuto un sospetto. Effettivamente, mi sono detto, antipiretici non ne sto usando. Forse la febbre assente, o molto più verosimilmente più bassa, della giornata di jeri dipendeva, chennesò, da un effetto sorpresa, da una coincidenza felice, da qualcosa che, comunque non posso sapere. Non sapendo, che si fa? Ci s’informa, giustamente: mi sono fatto dare il termometro, l’ho disinfettato e l’ho messo sotto l’ascella. Pensando che registrasse un 37 e 2, 37 e 5 al massimo. Quando l’ho estratto da sotto l’ascella dichiarava 38 e 1. Al momento, e sono le 17.05, mi sento, non caldo, ma rovente. È una febbre che non smette mai, sale e scende, a capriccio. Noto che mi prende dopo mangiato, questo fa sospettare una gastroenterite febbrile al mio dottore, ma non ho più gonfiore e ripienezza indigesta che con qualunque altra febbre io mi ricordi. L’infezione c’è, e io credo si sapere che cos’è. Ai medici, m’è parso capire per via indiretta, non piace diagnosticarla. Cercano di dare tutte le spiegazioni possibili e immaginabili, ma la tbc non è mai endemica, preferiscono mali più di moda, come adesso la suina. Ma io non ho praticamente nulla alle vie respiratorie, se non un senso di secchezza dovuto ai due farmaci, che m’asciugano come un’aringa.
Stamani sono andato alla Nazionale, in un posticino appartato, ho scritto qualcosa, con molta fatìca, anche perché avevo il braccio leggermente grippato, insomma mi faceva male. Poi volevo mettermi a léggere molto giudiziosamente i bugiardini – che sono romanzi, si tratta di ciprofloxacina e nimesulide, sono abbastanza delle bestie e hanno quintali di controindicazioni (col ciproxin non si possono mangiare i latticini, per esempio, perché vanificano l’azione; non lo sapevo ed è buono a sapersi ma la regoletta l’ho rispettata, pur senza volere) – ma sono crollato col capo sul tavolo.
E ho fatto un sogno stranissimo, dico sul serio, in cui non mi è stato dato riconoscere, se non sul finale, due personaggî che realmente conosco. Sono in grado, con tutti i sogni, che rievoco di norma con tutta la minuziosità possibile e cerco sempre d’interpretare con un certo distacco (ma chisssenemporta, in fondo, interessano solo a me), di ricostruire l’origine delle fattezze dei personaggî anche sconosciuti: solitamente fondo insieme due o tre facce con particolari diversi, che nei minuti del ritorno alla veglia riesco quasi sempre a ravvisare – ammenoché non mi tornino in mente, all’improvviso, nel prosieguo della giornata –, oppure un volto intravisto in autobus me ne ricorda uno simile, che mi torna in sogno, o mi fornisce la parte di un volto, un pajo di mani, un’andatura. Qui no: ho capìto da sùbito che non avrei riconosciuto nessuno, ammenoché non si fossero aggiunti personaggî, e questi fossero stati familiari. Era un mondo che di tanto in tanto rimpiango, ma molto acutamente, anche e soprattutto perché mi sfugge. Sicuramente molte cose le volevo rimuovere, fecero troppo male al momento; altre, semplicemente, non le capii proprio, e mi sono scivolate via, o si sono inscritte come engrammi in forma di geroglifico che nessuno saprebbe più sciogliere.
Ho trovato poi dopo il nucleo, diciamo estetico, il centro generatore da cui tutto si dipartiva: era un tempo, entro la fine degli anni Settanta, ma senza l’aspetto soverchiante che avevano le cose allora; ed ero in una grande città, polverosa e rugginosa, battuta dal vento, con molte costruzioni dall’aria leggermente disfunzionante, e macchine sperimentali che agli occhî di oggi non sembrerebbero nemmeno troppo antiquate. E un luogo, me ne sono reso conto al risveglio, in cima ad un palazzo, dove c’era una terrazza e una lunga angusta casa: palazzone e terrazzo che mi sembrerebbero enormi anche adesso. Ed ero in mezzo a persone che non ho mai conosciuto prima; e la luce era singolare, perché è la stessa che colgo adesso con gli occhî arrossati dalla febbre, l’aria forse tepida, intrisa di un’umidità che s’ispessisce e fa velo in lontananza, e come straccj che volano nell’aria attraversata dal sole decisamente malato di questi giorni. Si trattava di affrontare un lunghissimo viaggio, i mezzi parevano di fortuna ma una specie di pensoso ottimismo regnava sulle conversazioni. Mentre si preparava qualcosa che mi viene da definire doloroso, ingiusto, ma non sono questi i termini. Un giorno o l’altro saprò chi era quella gente, che ci facevo lì, qual era la mia funzione nel tutto. La cosa importante è aver esperito – dopo chissà quanti anni – il vero e proprio incubus, quel sogno che sembra essere ispirato da forze esterne. Anche se c’era qualcosa di familiare, la mia visuale su quelle cose era completamente diversa aliena. Di qualcuno che non ho mai conosciuto.
Ho attribuito chiaramente tutto ai sette giorni – facciamo cifra tonda – di febbre ininterrotta, e a che cos’altro?
Poi ho avuto un’altra immagine, caratterizzata dalla stessa fotografia sgranata, ma molto diversa: barocca e violentissima, e un’impressione trattane come di simbolo, o visione in senso proprio.
Ho rialzato la testa, pesantissima sul collo che ha scrocchiato nello sforzo, in un modo veramente allarmante. Mi sono reso sùbito conto che non stavo bene, e per distrarmi mi sono messo a léggere il bugiardino del medicinale che conosco meno dei due: il ciproxin, soprattutto gli effetti indesiderati “rari” e “molto rari”; alcuni sono curiosissimi: aumento o diminuzione di un fattore della coagulazione del sangue, aumento dello zucchero nel sangue, tinnito, perdita dell’udito, insolita sensibilità agli stimoli sensoriali, disturbi mentali (reazioni psicotiche), disturbi della coordinazione, disturbi della deambulazione, distorsioni nella percezione dei colori, rottura di tendine, soprattutto tendine di Achille, confusione, disorientamento, reazione ansiosa, sogni insoliti, depressione, allucinazioni, &c. &c.
Ma era ormai mezzogiorno; all’una avevo un appuntamento, il posto era lontano e con questa slongia febbrosa, purtroppo, sono intronato e lentissimo, e rimango indietro, coi vecchî.
(Non ho riletto; & sfido io).
Adunque, questo blog doveva toccare la cifra mille entro la fine di settembre e chiudere entro la fine di questo mese d’ottobre. Non avevo fatto, ovviamente, i conti con i problemi tecnici che si sarebbero presentati, e con i malori che mi avrebbero colpito; né avevo tenuto nel debito conto i disgusti che non sarebbero mancati, né i tempi di postamento, interminabili, e di per sé soli capaci di mandare a carte quarantotto ogni mio tentativo di serbarmi entro i termini promessi.
Purtroppo la vita fa quello che vuole, e io non ho lo spirito di sagrifizio che mi permetta di tener fede ad impegni, specialmente così ameni. Sicché non mi sarei messo a copiare e postare i sonetti che mancano (gli ultimi tra i quali, molti – e mi vien male, non dico per scherzo -, quelli a cui tengo maggiormente, perché credo esser riuscito a spremermi fuori uno stile da socco, & ben mio, che proprio non m’aspettavo, e mi riferisco in special modo a’ capriccj) con la febbre alta, o facendo la spola tra sette, otto, cento biblioteche con i blocchi in mano e le falde a svolazzarmi dietro.
Tutto a suo tempo arriverà.
Ma devo prolungare l’esistenza di questo blog, anche perché per me non voglio trattener nulla nulla di quello che ho tra mano, che non mi serve proprio, e che comunque è nato per finire qui sopra, sotto i vostri avidi occhj.
Stavolta non mi darò termini così stretti, perché ormai lo so – eh, la lezione l’ho ormai imparata – che tutto può succedere, e qualunque cosa può sconcertarmi i programmi, per quanto semplici possano sembrare, & senza pretese.
La proroga è, più rotondamente, fino alla fine dell’anno. E speriamo che stavolta ce la faccia a votare il sacco senza intoppi.
Scusate l’incomodo, & arrisentirci a domani (ma chi è Emanuela?).
Sospettavo la tbc, mentre il dottore, che finalmente ho consultato oggi, sospetta la suina. Ma è ancóra prematuro stabilirlo: devo prima prendere due medicine, che sono il nimesulide e il ciproxin, che mi permettano di buttar giù la febbre e farmi passare i dolori alle ossa. Ho dolori a tutte le ossa, ciò che mi consente di dire che sì, è vero, il corpo umano contiene non meno di 3892 ossa. Almeno il mio corpo umano. Però devo aspettare a domani a prendere le medicine, perché non ho i soldi, ma consola un poco l’idea che un certo numero di ore che mi separano da oggi a domani lo passerò dormendo, e dunque in stato d’incoscienza; risvegliandomi fradicio di sudore, certo, e con la testa come un cestone, scosso dal parletico, con gli occhî che lacrimano e sparando cazzate ogni volta che apro bocca, ma vivo, perdio, & avviato ad una felice guarigione. Anche se un po’ mi dispiace dover deporre i miei propositi omicidi: sarebbe stata l’unica cosa in grado di dare un minimo di spessore a quest’esistenza da bestia.
Rimarrò quattro giorni in osservazione, dopodiché si vedrà se le medicine hanno fatto il loro effetto: se non avranno fatto effetto, spero almeno che avranno contribuito ad abbattere la febbre, rimettendomi nelle condizioni di lucidità indispensabile a continuare la mia opera di delazione e sputtanamento a mezzo blog, la quale dovrebbe continuare alacre, se si trattasse di malattia che non perdona, fino alla mia dipartita. Dipartire passi, ma non con questi pesi sullo stomaco!
La domenica sera soprattutto, non essendoci alternative, mi reco spesso ai già citati servizî vincenziani, di v. Nizza 24, specialmente quando ho talmente fame da temere seriamente di cominciare ad autodigerirmi furiosamente. Questo anche perché quello che passano lì non è molto buono: di tanto in tanto, anzi, credo su segnalazione di qualche utente, subiscono qualche ispezione, e certi giornali locali riportano, a cadenze di qualche mese, la notizia che nei panini sono state trovate quelle che chiamano “tracce di muffa”. Io non ho nulla in contrario ai miceti, non più di quanto sia ostile ai batterj in sé, o alle polveri sottili: ma so che qualche volta possono far male. Se, aprendo il sacchetto – bianco, dove sono schiacciati dentro i due panini, insieme con due tovagliuoli, normalmente unti del contenuto dei panini stessi –, sento che se ne sprigionano gas tossici, uscendo dal portone deposito il sacchetto direttamente nel cassonetto dell’immondizia, tanto so che per una sera non morirò.
Questo articolo, apparso sulla Stampa di non molto tempo fa, riporta il grido di dolore di questa piccola suora sarda, che si chiama Teresa Bella, che è la responsabile dei servizî che distribuiscono i suddetti panini. Come si vede, lamenta il fatto che il fisco fa pervenire in ritardo il 5 per mille destinato alla chiesa cattolica; vedi qui. Risultato, nello specifico & particulare, Teresa Bella ha meno soldi a disposizione, come tanti altri abituati a raccogliere i soldi della comunità attraverso il fisco, oltre ai donatìvi spontanei. Ma sta di fatto che Teresa Bella non è affatto una dipendente della chiesa, per quanto riguarda il suo lavoro, che consiste appunto nel somministrare colazioni e sacchetti-cena, e nel distribuire vestiti, ma del comune di Torino. I servizî socioassistenziali non sono affidati alla chiesa, che non può farsene carico istituzionalmente: la chiesa ha, ovviamente, le strutture e il personale adatti per svolgere certe mansioni, e gli enti locali pagano lo stipendio a tutti quelli che esse mansioni svolgono. Suor Tirolesa sostiene che i soldini del Comune arrivano in ritardo: e va bene. Capirai che cosa me ne frega a me, sono 28 anni che è lì e l’unica cosa sicura è che non è mai morta di fame. Ma è assai sospetto definirli “i pochi soldi” che il Comune “passa”: non è una mancia, è il necessario a far sì che la struttura, come le altre affini, continui a funzionare.
È sicuramente vero che a questa signora sono venute a mancare risorse, essendo venute a mancare ovunque. Chi vuole accedere al servizio deve esibire un documento d’identità, ed essere registrato; è un servizio ufficiale, che si regge su un’anagrafe interna, come tutti quelli che operano per conto del Comune, e che fornisce al Comune i dati necessarj a sapere quante persone accedono e su quali risorse debbano contare i suddetti operatori per fornire il detto servizio. Capisco che si lamenti che il Comune dà poco – dànno sempre poco per i servizî socioassistenziali, a quello che si sente; ma la sua lamentela riguarda soprattutto il 5 per mille.
Dice poi delle prenotazioni per i vestiti, che sono talmente pochi da non permetterle di dare a tutti al momento in cui fanno richiesta. Prima ci si presentava, ci si metteva in fila, si entrava quando era il proprio momento e si prendeva quello che ti davano. Adesso no: pare ci si debba prenotare – sono anni che non passo a prendere vestiti lì, mi baso sulla notizia del giornale. Io, veramente, ho visto un’altra cosa.
Per quanto riguarda i vestiti, molto, ovviamente, dipende dai donatìvi delle persone che vengono appositamente a lasciare sacchi di vestiario presso una portineria accanto alla mensa. La gente dona poco, s’infervora quest’orfana del 5 per mille.
Ma, appunto, io ho visto un’altra cosa, che sul giornale non c’è: sono infatti alcuni mesi che sull’ingresso di detta portineria c’è un cartello che informa con dispiacere che al momento (sic) non si ritirano vestiti. Vale a dire che non si accettano, “per il momento” – un momento può avere una durata assolutamente elastica -, donatìvi in vestiti. Girano voci implausibili sulle favolose ricchezze contenute nei magazzini di via Nizza; attenuando un po’, basterebbe ragionevolmente, e benevolmente, arguire che questa signora ne sia talmente piena da non poterne raccogliere altri. Ma come si spiega, allora, che lamenta di aver dovuto imporre la prenotazione per chi si presenta a chiedere vestiti? A parte il fatto che ho saputo che anche la distribuzione di vestiti, che già tempo fa si lamentava piuttosto insoddisfacente, è stata ripetutamente sospesa, ultimamente, a causa del fatto che molti straccioni prendevano i vestiti più belli per portarli a vendere al Balôn. Non ho ancóra capìto per quale motivo non potessero, o non dovessero, farlo – Teresa Bella preferisce che spaccîno, o rubino? – ma tant’è.
Questo di sospendere a tutti il servizio a causa del comportamento furbetto o troppo esuberante di alcuni è un vizio di questa signora, o di chi la rappresenta. Già la settimana passata, arrivato poco prima delle 19.00, sono stato servito dallo spioncino del portone (che fa tanto Dickens), ciò che poteva essere solo dovuto a disordini dentro l’androne; già in altre circostanze ho visto succedere la stessa cosa. La sera dopo alla stess’ora, infatti, un cartello sul portone informava che i panini non sarebbero stati distribuiti a causa del “comportamento scorretto” di alcuni. Lì dipende, chiaramente, da quanto hai fame: la questione di principio non conta affatto, per me; nella fattispecie io avevo poca fretta, al momento, e m’ero fatto un giro – di là dal fatto che è un periodo in cui comunque, sarà il fresco, mi ritrovo a inghiottire a tutte le occasioni praticamente qualunque tipo di commestibile, o equipollente, senza troppo sottilizzare, purché faccia massa nello stomaco.
Insomma, domenica sera, per esempio, avevo fame. E alla solita ora, verso le 19.00, ero davanti al portone, ermeticamente chiuso, dei servizî vincenziani di v. Nizza, come un imbecillino, sola & unica presenza nell’area antistante; laddove normalmente c’è una piccola folla. Se c’era stato un avviso, non si vedeva più – è supponibile che qualcuno l’abbia strappato, fatto a pezzi e gettato via.
È poi passato un vecchietto, evidentemente antica conoscenza di Teresa Bella, che mi ha detto, richiesto, che quella sera nulla era stato distribuito; a causa del comportamento scorretto di qualcuno – lui ha usato un verbo, che piace qui in Piemonte, “bisticciare”; credo in quasi tutte le regioni d’Italia per “bisticciare” s’intenda il cinguettio di una coppia di passeri che si contendono un fuscello, o la lite di due bambini per una pallina; qui, anche quando si sgozzano, si piantano una scure tra le scapole e s’impiccano nelle reciproche budella, si dice che “hanno bisticciato”.
Understatement o manliness o semantizzazione regionale che sia, benché al servizio accedano molti che non sono certo piemontesi, e nemmeno italiani, e neanche europei, una spessa gromma di tolleranza cola su tutti quelli che si trattengono in queste lande per qualche tempo. Nessuno, che io sappia, si lamenterà per essere stato trattato come un bambino deficiente, e strumentalizzato per una lite che – a me sembra evidente – dovrebbe essere stata scatenata dalla ribalderia villana degli stessi operatori di quel posto del piffero: infatti le liti furibonde che scoppiano lì dentro a cadenze regolari non avvengono in nessun altro posto. Io stesso, pur senza averci mai litigato – anzi, pur senza averlo in precedenza mai conosciuto –, sono stato regolarmente trattato in modo gratuitamente cafonesco & plebeo da un notorio finocchio cogli occhiali dalla montatura spessa, finché una bella sera gli ho dovuto necessariamente spiaccicare i panini sugli occhiali; e devo dire che si è calmato solo relativamente. Ora, per fortuna, non c’è più.
Scommetto che se avessi chiesto a qualcuno dei frequentatori abituali, eccettuati i diretti coinvolti, che cosa ne pensano, mi avrebbero detto con aria virtuosa che “suor Teresa ha fatto bene”, ché così “impariamo” (!) – salvo farsi passare sottocappotto il sacchetto della cena dalla vecchia ciula dall’altra entrata, ovviamente, essendosela lavorata in anni e anni di solerti strategie lecca- e paracule.
Per una cena negata il Cristo fu tradìto. Questi cristiani non hanno imparato proprio una mazza, dalla (loro) storia. O hanno capìto tutto?
E codesta Teresa Bella? Cinque per mille a parte, lo stipendio del comune continua a prenderlo?
Va bene, stamani dovevo andare a farmi assegnare un altro medico della mutua, perché la dottoressa che avevo scelto, solo per il fatto che era in zona molto centrale, prima che ne avessi bisogno la prima volta, si è ritirata, e quello che l’ha sostituita mi ha detto che comunque il trasferimento devo farlo. Insomma, già che c’ero, mi sono fatto consigliare il medico di famiglia da qualcuno che mi sembra goda ancòra di buona salute, e prendo quello. A me è ignoto se all’Asl di v. s. Donato siano aperti, nel pomeriggio; se sì, bene, sennò faccio tutto domani in giornata. Continua a leggere
Dalla parte di là alcor posta la pagina di Plutarco sulla moglie di Cesare e Clodio il Bello; e questo ha naturalmente una connessione precisa con le ultime cose che sono successe e di cui i giornali hanno parlato. Ci sono, credo, due modi di intendere il nil sub sole novum: 1. trajamo utili insegnamenti dai classici, ché in essi c’è tutto; 2. che nausea.
Io sono dei secondi, che non sono molto. Tacito può appassionarmi, chiaramente – c’è da dire che all’epoca i tiranni erano veramente tiranni, la ciarpa che c’è adesso, dopo un lunghissimo processo di democratizzazione, non è più né mai più sarà la stessa cosa: sono solo mestatori, profittatori, & cavalcatori della corrente, nei casi peggiori.
Poi c’è stata la storia del povero Marrazzo, che nonostante avesse dichiarato nel profilino autobiografico ufficiale che passa tutto il tempo libero insieme con la moglie e le figlie, si è fatto filmare, cogliere sul fatto e ricattare da due carabinieri – temo che i ricattatori non potessero essere altro che due carabinieri, data la merda che sono le nostre forze dell’ordine – e poi smarronare totalmente sulla pubblica piazza.
Vanno di moda gli scandali sessuali, ultimamente; cose all’americana, che per l’Italia credo siano una novità. Prima non si sottilizzava troppo; una relazione extraconiugale, purché rigorosamente eterosessuale, non si negava implicitamente a nessuno, e magari più d’una.
Il significato di tutta l’operazione, però – io devo premettere di essere un caso unico al mondo di paranoico al contrario: sono sempre portato a pensare che la gente sostanzialmente accetti determinate cose, & tendo a sottovalutare la marea nera di odio feroce che questi miei attuccj skuinzj riescono regolarmente a far montare, o le febbri spastiche di disgusto che i miei apprezzamenti (ad altissima voce!) sui podici degli womini belli causano – mi sfuggiva. Mi sono detto: non ha fatto una buona figura perché ha messo le corna alla moglie; e il fatto che sia andato con un trans non ajuta certo. Capisco tutto, ma la eagerness con cui ha reagito, invece di dare le dimissioni (dato che così aveva deciso) e stop, e, prima ancòra, il suo negare il cristo in croce, il suo dire ai due alti traditori “Non rovinatemi”, il suo adattarsi a pagare, sono tutte cose – mi sono detto – che sono assai peggio di un metter le corna alla moglie e andare con una trava.
Devo ringraziare un addetto della Nazionale, che jeri, uscendo dalla biblioteca per il consueto giro per negozj fricchj in orario di lavoro, ha fatto, rivolto a un collega di merende, quest’osservazione, semplice ma per me fino a quel momento fuori portata:
“Almeno Silvio“
, ha detto,
“va colle donne; invece questi culattoni di sinistra…”.
Sì, appunto: questi culattoni di sinistra. Che poi, a ben guardare, se uno deve proprio mettere le corna alla moglie, è molto più sensato farlo per andare con un mezzo uomo, o un uomo affatto: rimanere sempre sulla stessa sponda significa pur sempre non andare con una donna per andare con un’altra, non c’è varietà.
A parte questo, che in effetti non c’entra poi molto, perché Marrazzo ha pagato? Non poteva spalancare la finestra e mettersi a urlare al soccorso? Non poteva prendere a ciabattate i due delinquenti carabinieri? Stavolta qualcosa non ha funzionato, se il copione era previsto sin da Plutarco. Infatti, è più che noto come mai Caesar Regina preferisse scaricare la moglie che far cadere tutte le colpe su Clodio Pulcro.
E tenersi dentro tutto così, poi; per forza s’ammala.
Come lo capisco.
A ROMA SEPOLTA SOTTO LE PROPRIE ROVINE. In Roma cerchi Roma, oh pellegrino, Né di Roma hai tu in Roma le avvisaglie: Cadaveri son quante alzò muraglie, E tomba a sé trovato ha in Aventino. Giace, dove regnava, il Palatino; E, limate dal tempo, le medaglie Più appajono evizioni alle battaglie Del tempo, che blasone del Latino. Solo il Tebro restò, la cui corrente, Se l’irrigò città, ora sepoltura La piange in suono funebre e dolente. Roma, di bello & grande in tua fattura Scorse quant’era fermo, e solamente Quello che scorre t’è rimasto, e dura!
1. Giacomo Lubrano (1619-1693), da La febbre contagiosa della lascivia, in Prediche quaresimali (posth., 1702). Cit. in Prosatori e narratori barocchi, scelta e introduzione di Giorgio Bàrberi-Squarotti, apparati di Fulvio Pevere, “100 libri per 1000 anni”, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2002, pp. 809-810.
Che lagrimevole istoria si legge negli annali di Francia! Carlo Magno, gloriosa idea de’ prencipi, invittissimo negli eserciti, giustissimo ne’ tribunali, zelantissimo ne’ santuari, da che fu preso dalla febbre pestifera del senso diede in uno sbalordimento d’indegnissime turpitudini. Mortagli la concubina, non volle che gli uscisse di camera, disfacendosi in lagrime alla vista di quelle diffigurate bellezze. Già tutto gonfia, tutto annerita, tutto fracida ammorbava col puzzo la reggia, né, per quanto gli suggerissero le consulte de’ satrapi, le prediche de’ religiosi, le censure de’ vescovi, mai fu che mandasse a sotterrare quella reliquia di succidumi. Carlo, che pretendi con ostinatezza tanto contumeliosa al tuo nome? Ti han vedute le nazioni incoronar di trionfi la Chiesa e piantar sulle ruine della barbarie sconfitta i labari della croce: ora ti piangono adultero di un’estinta e da primogenito della fede degenerato in cadetto della lascivia. Minor male sarebbe che incrudelissi da superbo. Screditò gli Ercoli la conocchia di un’Onfale, i Sansoni il pettine di una Dalida: quanto più vergognose son le tue smanie, che amoreggiano con una fantasima di putredini? La Francia sta per toglierti di mano gli scettri della grandezza e publicarti il minimo della vilezza. Così tramonta il sole de’ cristianissimi nell’ombra di una dannata? Così finiscono le conquiste della tua spada in uno sterquilinio di biasimi? Che razza di sceleragini, abbominevoli fin nelle bestie che si sfamano di cadaveri? Dove ti precipitano le passioni, a perdere in un colpo la fortuna di re, la fama di magno, la natura di uomo? Guarda ben l’orridezza della tua donna disfatta in uno scolatoio di marce, guarda le trecce che si sfilano in vermini, gli occhi che spaventano. Guarda, Dio buono! Ciò che dovrebbe riconsigliarti ti accieca. Che più ti aspetti da uno scheletro? Peggio de’ Mezenzi, condanni te stesso agli abbracciamenti di una carogna: sì, sì, va, stringiti a quell’avanzo di polveri, bacia quel vomito di fetidezze, consolati con quella larva insepolta, restati scandalo de’ regni, ludibrio de’ popoli, demonio d’incontinenza in un concubinato d’inferno. A tale sprofondamento d’infamie spinse la febbre pestilente del senso un Carlo Magno, celebratissimo ne’ fasti vaticani per le vittorie di gran guerriero e per le virtù di gran Cesare, e vi sarebbe annegato se, scoperta la stregheria di un maleficio, non avesse detestata con umiliata contrizione l’enormità de’ suoi cadaverosi amoracci.
2. Henry Rider Haggard (1856-1925), da La donna eterna [“She”, 1887], trad. Wanda Puggioni, “Compagnia del Fantastico” n° 9, Gruppo Newton, Roma 1994, pp. 54-55.
Poi, cedendo ad un improvviso bisogno, mi raccontò come un tempo, quando era giovane, quasi un ragazzo, la mia stanza attuale servisse da tomba ad una donna giovane e bella, miracolosamente conservata grazie ad un sapiente processo in uso fra gli antichi. Il suo aspetto era dolce e calmo come di chi dorme tranquillamente, e lui amava recarsi a contemplarla in segreto, perduto in vaghe fantasticherie, finché giunse a concepire una strana passione per quell’essere morto da secoli, ma che ancora pareva sorridergli dal suo letto di marmo, come se il soffio della vita palpitasse sotto la pelle rimasta morbida e liscia. E, mentre sedeva per ore ed ore accanto a lei e le baciava la fronte gelata, apprendeva nelle lunghe meditazioni e nel quotidiano contatto con la morte, la vera saggezza.
Senonché, un giorno, sua madre, accortasi del cambiamento avvenuto in lui, lo seguì e, credendolo stregato, presa insieme da collera e da spavento, avvicinò la lampada ai capelli dell’estinta, il cui corpo bruciò come cera, come avviene di tutti quelli conservati nello stesso modo.
–Ecco, figliuolo, il fumo lassù… visibile ancora dopo tanti anni – aggiunse, accennandomi una macchia scura sulla volta. — Lei bruciò, ma io riuscii a conservare uno dei suoi piedi, strappandolo con un colpo dall’osso intaccato dalla fiamma, e lo deposi qui, avvolto in un lino. Ignoro se vi sia ancora, perché da quel giorno non ho più rimesso piede in questo luogo.
Così dicendo, si chinò sotto il banco di pietra che mi serviva da letto e ne trasse un oggetto informe, il quale, liberato dal denso strato di polvere e dai brandelli di tela che ancora lo coprivano, si rivelò al mio sguardo attonito come un piedino femminile dal contorno squisito. Era quasi bianco, e la carne appariva tuttavia morbida e fresca come doveva essere al momento della morte: un vero trionfo dell’arte dell’imbalsamazione. Mentre fissavo lo sguardo su quel freddo avanzo di un lontano passato, i più strani pensieri mi si affollavano in mente, ed avrei voluto penetrare il mistero di quella vita, sollevare un lembo del velo che ricopre l’impenetrabile…
Avvolsi con reverenza la strana reliquia nella vecchia stoffa che l’aveva protetta per tanti anni e la racchiusi nella mia valigia (…).
Su segnalazione di alcor, che mi ha detto dell’articolo di sfogo di Saviano su La Repubblica, sono andato a leggermi quest’articolo del Messaggero, e questo del Corriere, di due giorni fa. Si dà il caso che il capo della squadra mobile di Napoli, Vittorio Pisani, abbia detto che secondo i dati in suo possesso a Saviano non doveva essere data nessuna scorta. Di più: era stato sempre lui, 3 anni fa, a valutare il caso, per quanto gli competeva dato che poi è prevalso il parere di altri, e anche in quella circostanza aveva detto che non era il caso di dare la scorta a Saviano.
Il 13 ottobre 2006 Saviano ha comunque avuto la scorta. Il 15 ottobre persino Umberto Eco lo avrebbe messo sullo stesso piano di Falcone e Borsellino.
Il 28 maggio 2008 la Repubblica annunciava che Saviano, sempre sotto scorta, stava cercando casa, a Napoli, e che faticava a trovarla. Qui ho cominciato a capirci poco; perché Saviano era sempre sotto scorta. Ma le minacce, che nessuno ha mai riportato testualmente, sono partite da boss malavitosi, di nome Schiavone, Jovine, Zagaria, camorristi attivi nelle zone di Casal del Principe, di Secondigliano, di Scampia; le quali si trovano in provincia di Napoli. Se Saviano è minacciato a Napoli, tanto che deve vivere sotto scorta anche quando non si trova a Napoli, per quale motivo cerca casa a Napoli?
Passa ancòra un anno, e Saviano ha ancòra la scorta: secondo chi gliel’assegnò è ancòra in pericolo. In compenso si sa che vive a Napoli – dunque casa, alla fine, l’ha trovata. Ma quello che non capisco è come mai si trovi ancòra lì, e come mai non ne sia stato in qualche modo dissuaso, dal momento che è vero che in epoca di globalizzazione, come ha detto Eco, l’assassino potrebbe venire da qualunque parte, ma a Napoli sicuramente il pericolo è maggiore.
In compenso, salta fuori questo signore, che è il giovanissimo capo della mobile di Napoli, di cui si precisa però che è persona estremamente capace e di molto merito, la quale ribadisce che a rigori la scorta a Saviano non ci spettasse, in specie se si considera che c’è gente che s’è ritrovata contro dimostratamente la camorra e che la scorta non l’ha, e la meriterebbe, e magari ci rimane secca, pure, perché non è protetta.
Oggi come oggi io credo, sinceramente, che Saviano potrebbe correre pericoli: se non li ha mai corsi nel passato, da quando è sotto scorta, quantomeno, potrebbe cadere vittima del primo esaltato che passa: la camorra è informe e lasca, qualunque ragazzino deficiente potrebbe ritenersi titolato a farlo, e mettere in atto la fatwa di cui s’è tanto parlato. Oppure potrebbe anche essere che la camorra non ci tenga ad avere Saviano sulla coscienza, con la sua sovraesposizione (quella di Saviano) torcergli anche un capello sarebbe controproducente, come si fa a sapere?
Comunque è sempre meglio, piuttosto che l’ammazzino, tenerlo sotto scorta, ormai, e anche dire che il ragazzo è come Falcone, Borsellino e Siani e quant’altri. In fondo non ci sono solo le scorte negate ad altri minacciati dalla camorra, ci sono anche l’onestuomo e la brava donna a cui Brunetta e la Santanché stanno impedendo di proteggersi a dovere, per esempio: Saviano, dico sul serio, non ha proprio nessuna colpa. Non ce l’ha perché non è stato libero, sin dal primo momento, di decidere di niente della sua vita. L’unica cosa che ho pensato tre anni fa, e ricomincio a pensarla proprio adesso, è che sia rimasto vittima di un’operazione di marketing particolarmente violenta e invasiva, di cui ha pagato a carissimo prezzo tutte le conseguenze. Il padrone della sua casa editrice si chiama Berlusconi, e un po’ lo ricorda, Saviano, quando esprime amarezza in questi termini:
Dopo le dichiarazioni del capo della mobile di Napoli che gettano discredito sul loro sacrificio, che mettono in dubbio le indagini della Dda di Napoli e dei Carabinieri, la sensazione che nella lotta ai clan si sia prodotta una frattura è forte.
Non credo sia salutare spaccare in due o in più parti un fronte che dovrebbe mostrarsi, e soprattutto sentirsi, coeso. Società civile, forze dell’ordine, magistratura. Ognuno con i suoi ruoli e compiti. Ma uniti. Purtroppo riscontro che non è così.
Ma qualcuno mi dice che ci fa, a Napoli?
SVDOKV. Mentre tento forzare i miei neuroni, Santi lorenzi ormai cotti alla griglia, Oh la stizza mariuola che mi piglia, Oh che di spettri amplissime legioni: M’ingombrano le circonvoluzioni, Labirinto di cerebral poltiglia, E ogni spettro sembianze dieci piglia, E i minuti concessi mi fa eoni. Mi dico con ragione che di certo Se l’intelletto sano è imperturbato, Quale il genio provò mai disconcerto? Colpa ne ha il mondo, porco, empio, & dannato, Le cui piaghe entro me riaprirsi avverto Quando ho il pensiero in alcunché occupato.
The tippy-tappy machine.
In Fulginton Street, in the corridor. The Barbon Man, appuyed on the surface of a horizontal armadium, containing dirty plaids, property of the Common of Turin, is reading some free newspapers, from time to time attempting to resolve the sudoku puzzle.
A Cat, coming in from the little window, plops down on the free newspapers, and searches to bite Barbon Man’s pen.
The Depressing Man, an old tippy-tappy machine in his hands, approaches shily smiling.
THE DEPRESSING MAN. How d’ye do?
THE BARBON MAN lifting his eyes to heaven, but unpercepted. How d’ye do, dear. Are you feeling a little bit better, this evening?
THE DEPRESSING MAN loosing immediatly his shy smile. So I wouldn’t say.
THE BARBON MAN, with an effort to smile. Come on, my friend, what are you carrying on?
THE DEPRESSING MAN rebegins to smile, but very palely. Look, do you know what is for?
THE BARBON MAN, illuminating. Oh, yes. Of course! I know tippy-tappy machines a lot of well. Where did you find it?
THE DEPRESSING MAN. At Palace Gate. I always go to that cimicious market in order to rasp on all the old mess they, very reasonably, throw away. I found a caffeteer, too, but one of the vendors popped on it, in order to let me not rasp it on, & carry it with me. What a s.o.b., isn’t it?
THE BARBON MAN, seeing the Depressing Man is on the brow of weeping, hastily says: Oh, yes, what a great bastard. Does it works? Hey, Cat!
The Cat stops biting the Barbon Man’s pen, & looks toward him.
Did you see this? A tippy-tappy machine!
The Cat runs toward the tippy-tappy machine, casting himself in it, entirely.
The Barbon Man & the Depressing Man laugh together.
THE BARBON MAN. Tee-hee, I was guessing he would adore it!
THE DEPRESSING MAN. Tee-hee, listen what a casin he makes herein!
THE BARBON MAN. Tee-hee.
THE DEPRESSING MAN. Tee-hee.
The Cat exit from the tippy-tappy machine, with a magnificent panache on his head, & the mantle tweely adorned with flowers & red peppers. He makes some day-filay, fishing for compliments.
THE BARBON MAN. Yes, of course, you are beautiful.
THE DEPRESSING MAN. Very elegant indeed.
The Cat exit from the little window. Few seconds after horrid meeowing is heard.
THE BARBON MAN, rassuratingly. Some admirer. So, put your tippy-tappy machine here on.
The Depressing Man puts the tippy-tappy machine on the surface indicated.
THE DEPRESSING MAN. I’m undecided. What could we do?
THE BARBON MAN. With risk to sound banal, this evening I hadn’t any coffee, yet.
THE DEPRESSING MAN. How I told you, that broken-in-ass vendor popped on the…
THE BARBON MAN, shaking his head. Okay, but we don’t need it at all. Don’t worry.
He pulls a button on the tippy-tappy machine. Coffee begins to mount with the recognizable & well-known gurgling sound. Grateful odour swift ascends. The Barbon Man & the Depressing Man attends the coffee is completely mounted lustly annusating the ambient air.
THE BARBON MAN. What a marvel.
THE DEPRESSING MAN. I didn’t know it was able to do such things!
THE BARBON MAN. Such things? It does make coffee, it’s only that.
THE DEPRESSING MAN. Perhaps we need two cups?
THE BARBON MAN. Never mind, the cups are incorporated.
THE DEPRESSING MAN, as remembering, slapping his front. Oh, it has to be bitter, let me take some sugar…
THE BARBON MAN. Not even in dream! Please, dear, be calm, relax, give peace to your soul, don’t excite, set your mind at rest; & – please – don’t begin to pester me so, cullion-destroying as usual. The tippy-tappy machine is commanded to put abundant sugar in every cup of coffee it makes. The tippy-tappy machine does know, the tippy-tappy machine does make. Let it work.
Two cups of coffee come forth. The Barbon Man and the Depressing Man take a cup per head & start drinking. They ptoo off the coffee.
THE BARBON MAN. I like coffee with tons of sugar in, stupid machine! This is defectuous. It was expectable from a dirty catorch rasped on from the mess & the filth at Palace Gate!
THE DEPRESSING MAN. Bitter as hell! This I expected from using the machine for a performance it’s not called to give! I wonder if it’s working again! Coffee-powder is exitial for the engranagges, it would cast itself in every hole, inibiting…
The Barbon Man grasp him for the neck.
THE BARBON MAN. It’s not my fault, okay? Say: It’s not your fault.
THE DEPRESSING MAN, gasping. … It’s… not my… fault…
THE BARBON MAN, letting him go. Okay, so I’m sure of your bonafide. But I think the tippy-tappy machine is irrimediably broken.
THE DEPRESSING MAN. Why?
THE BARBON MAN. Because one of its easier functions is properly making coffee.
THE DEPRESSING MAN. Yes, but coffee is not good. Perhaps there’s a waste. But I think he can do some beautiful music.
The Barbon Man makes a face like this.
THE BARBON MAN. Music? Do you call music the sound of a tippy-tappy machine? I don’t like the music of the tippy-tappy machines. It is twee.
THE DEPRESSING MAN with weep in his voice, stubbornly shaking the head. It’s not twee! It’s sweet; that’different.
He pulls a button on the tippy-tappy machine, that begins to give forth the typical twee sounds of the tippy-tappy machines.
THE DEPRESSING MAN, taking the tippy-tappy machine with two hands, as to embrace it, whispering. Don’t you hear how beautiful? I was used to listen at the tippy-tappy machine, at home, each day, for the greatest part of the day. My granny made some light coffee, with a machine appositly constructed, and brought it on a vassor with a little slice of pizza with artichokes, the little birds were singing in their cages, the sun was often shining, the wind was softly spiring, the wild waves were always saying something… How I complain my little home. It was in the bidonville of Il Cairo, do you know? Little obnoxius children were every moment in chase of some little pet, cat, or dog, & were used to kill them with stones, clubs, or half-spingards. When the butin was of at least of five or six dogs or little black people, we were used to come in the little square, & have a wonderful barbecue.
The Barbon Man looks at him with disgust, seeing he’s starting to weep.
They had some cocaine in change, & my sweet granny was used to offer tea & haschisch to all. At evening, often, we were used to run to the hanging of some homosexual. Granny was usually profiting to beg for us between the populace distracted by the beautiful, beautiful show, from time to time stealing clocks & purses. Ah, my sweet, sweet granny. Every morning at five she was awaken, & runned forth to steal some bread for our humble desk.
The Depressing Man weeps now openly.
& all my life had this precious companion, the tippy-tappy machine, with its irresistible, sentimental music. Do you hear? … Ti-ri-ri… Oh, I wasn’t used to request something too much hard from it. Granny was expected to wash our dirty linen, and the sun to dry it. But for the days of rain, when we called our neighbour Giovanna, that was paid with a certain number of blisters of propoli-paste for badbreath, for puffing on it. The tippy tappy machine was scanding every moment of my jolly day. At evening
The Depressing Man weeps now desperatly
I was used to go to the Great Ringlike Link, where finally I was allowed to re-embrace all my friends… At any moment, with my faithful tippy-tappy machine under my arm… Granny was expecting me till the morning… Oh granny, granny, where are you now?
The Depressing Man takes his head in his hands, sobbing loosingly.
The Barbon Man, a little bit uncertain on his legs, goes toward the loo.
La lessi ora. Mi dispiace molto aver detto che avrei risposto a tutte le provocazioni, ma sapendo che non andrà avanti in eterno lo faccio lo stesso.
Abbandonato ad interim l’usato Modo a dirimer simili questioni, Non ti dirò Mi stai ben sui coglioni, Né a fare in culo ti vorrò mandato; Non ti dirò Imbecille a tua sorella, Tusinustrùnz, ricchione, & capecazzo; T’eviterò stavolta ogni strapazzo, E ogni etichetta troppo men che bella. Mi sono imposto, qualche giorno fa, Di dar risposta a tutto quanto detto; Se la parola mia mi lega stretto, Non ha veneri a me la libertà. Se da quanto m’imposi già non esco, Se la parola mia, suppongo, vale Per quello ch’è, per quanto faccia male, Come faccio a receder su Moresco? E perché dovrei farlo? Perché un pirla Che conosco, & in parte, & malamente, Su un blog, la mia parola dispiacente Trova, e m’esorta sùbito a smentirla? Di fronte al non intender mio che nesso Ci fosse tra il tuo te e quel di Moresco, Ciò che successe, ben lo sai, di fresco, Che assai non so di te dett’hai tu stesso; Ciò quanto alla scrittura. Se ora a me Vieni, a farmi tornare sui miei passi, Devo creder che tu ben valutassi Quel che pens’io; e più che io con te. Ma quel che ignori, o credi poter carne Di porco farne in questo modo, è il fatto Che io sono un lettore non distratto, E di me ancòra, oh se dovrei parlarne! Ma fare capolino qui, e pretendere Di ritrovare tutto a tua misura, Questo è osceno, e ancor più se non s’ha cura Di riflettere, e un poco meglio intendere. Quasi che il detto mio sonasse vano Quando non echeggiasse quanto detto Da te; ma sappi, il giorno maledetto Che sia così, oh, non sai quant’è lontano! Non parj marmi o porfidi solenni Servono a quanto dico, che alla mente Porto inciso del tutto stabilmente, Vero che non intaccano i decennj. Mentre colui che, tanto leggermente, Si consente venirmi ad esortare A smentire non solo: a cancellare Quanto gli spiacque, ben altronde sente: Ha il cervello a ciabatta, il quale schiere Di spettri hanno in balia, troppe idee segue, Vuole e disvuole, e a diseguali stregue Tiene le sue medesime chimere. Che legge transitiva m’imporrebbe Di fare quanto a te non è di peso, Dato che quanto dico io ben soppeso? Perché darmi a ingojar questo giulebbe? Ciucciatelo un po’ tu. E qualunque sia Altro tuo parto, se altro non produce Quella che troppo ambigua ne traluce Tua carmenta, e in pensiero e in poesia. E ribadisco che di là da stima Generica per vasto impegno infuso, Dell’idea resto che Moresco è fuso — Ma in paragone tuo sempre una cima. (Si sappia che soltanto a suo pericolo Chiunque qui verrebbe a impor censura: Che gli ho lanciata già tale jattura Che gli cadranno l’un, l’altro testicolo).È vero, l’anonimo sollevava anche questa terza questione, dicendo che la copula non può andare in sinalefe con la vocale successiva; ciò che contraddice innanzitutto all’uso (quando diciamo “è andato”, “è amato”, “è armato”, “è amaro” leghiamo tranquillamente in sinalefe il verbo o la copula colla vocale seguente), e poi a quello che testimoniano i classici.
La ricerca che Palasciano si prospettava gravosa in realtà è semplicissima: basterebbe recuperare il testo online della Comedia, e con la funzione di ricerca scovare le ricorrenze di “è”, e vedere quanti casi di sinalefe si producono. Ma anche non ricorrendo alla rete, la ricerca non può essere gravosa: come dice Dossena, per altri versi quanto si vuole non condivisibile, anche una lettura della Comedia alla ricerca di subsecività e palloccole di minorissimo conto è pur sempre una lettura della Comedia, e in quanto tale non è mai uno spreco.
Occorre fare una precisazione; l’anonimo ha parlato di copula, vale a dire del verbo essere quando lega, congiunge (d’indi: copula, appunto) il soggetto con l’attributo. Sembra inferire, l’anonimo, che diverse leggi fonetiche regolino il comportamento di “è” (e questa, infatti, la forma del verbo) secondo che sia copula o, poniamo, ausiliario: e che il caso, poniamo, di “è affettato” e il caso di “è andato”, dove due paroline servono a formare un verbo solo, si comportino in diversi modi rispetto alla possibilità di “è” di essere letti in sinalefe o in dialefe. Bisogna dire che, in materia di versificazione, e la cosa nei primi casi mi stupiva ancóra, circolano in rete molti presunti specialisti che, o per cogliere il destro per rompere i coglioni, o per fare mero sfoggio di stenta & agra terminologia grammaticale anche quando non è proprio il caso, dànno prova d’inverosimile sollecitudine nel correggere errori che non ci sono, o di tassare quel che men d’altro è errato, o non è errato affatto.
Le leggi fonetiche valgono in tutti i casi, a prescindere dalle qualità grammaticali del tale o talaltro sintagma. La dialefe e la sinalefe sono rese possibili da precisi comportamenti dei suoni della lingua, non dalla funzione grammaticale delle singole parole. Allo stesso modo, diede molta occasione di riso un notorio imbecille che sostenne la doppia grafia “fregnacce” e “fregnaccie (sic!)”, sostenendo che le prime sono un tipico piatto abruzzese, e le seconde le più note palloccole, balle, o quisquilie, o cianciafruscoli: qualunque sia l’accezione, o addirittura il significato nel caso di omofoni/omografi, la retta grafia rimane una e una sola.
L’unica disciplina – ma avrebbe sbagliato, & abbiamo accennato il perché – a cui l’anonimo si sarebbe potuto appellare è proprio quella della fonetica, e in particolare alla distinzione – anch’essa appresa normalmente alle scuole medie, se non ricordo male – tra incontri vocali che costituiscono dittongo e incontri vocali che non costituiscono dittongo. Restringendoci all’esempio incriminato, vediamo infatti che l’incontro tra la e e la a di, rispettivamente, “è” & “affettato” non costituisce dittongo; teoricamente, dunque, la sinalefe non dovrebbe operare. Ma si dà il caso che altra e, bene spesso, la verità della scienza, ed altro è l’uso: e nell’uso noi non diciamo, ascoltiamoci!, “è haffettato”, “è handato”, non più di quanto diciamo “è hidiota” (e+i costituisce dittongo, infatti), “è himpedito”, & via di questo passo. Nella poesia, la cui orchestrazione fonetica è ovviamente semplificata e dunque un po’ diversamente regolamentata rispetto al parlato – dove sono presenti anche appoggiature, innalzamenti e abbassamenti di tono, e insomma tutta una serie di frastagliature di cui il verso, che monotono sempre si ripresentifica sostanzialmente uguale, con poche, e le solamente veicolabili per iscritto, varianti, non può comprendere – non si può tuttavia inferire un sistema di comportamenti troppo remoto dal parlato: appunto, non è un’altra verità rispetto a quella del parlato, ma è la stessa, solamente semplificata e ridotta a quello che per iscritto del parlato può essere riprodotto. Dall’aderenza a certe e non prescindibili qualità del parlato dipende la pronunciabilità della poesia.
S’incontrano, nei classici e fuor dai classici, e sempre s’incontreranno, soluzioni dubbie, tali da costringerci a riletture correttive del verso pur mo letto, che ci sarà parso d’ordine sparso nella disposizione degli accenti, o ipermetrico, o ipo-tale. Con Dante la cosa si presenterà più spesso che in altri casi, dal momento che questo capital poema finalizzato a removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis era proprio destinato ad essere testo di studio, e quasi testo sacro, e ad essere ripetuto a voce con finalità mnemoniche, ed è ritmato (come l’autor dell’Omeros, Walcott, ha rilevato a ridosso del Nobel, tra gli altri) sul parlato; benché sia lingua aspra difficile sintetica al massimo grado, veramente profetale per la condensazione e i misteri – il velame, i versi strani – di cui ama avvolgersi. Un fatto su cui non s’insiste a sufficienza, scorrendo nojatamente sopra il povero Dante alla scola, è che il suo concetto di verso è ancóra aurorale, frutto com’è di quella che McLuhan chiama la “civiltà dell’orecchio”, e non quella “dell’occhio”, come sarà per il Petrarca, il cui verso è leggibile sempre senza inciampi, come tale è stato concetto dall’autore, e, in quanto tale, com’era fatale e giusto, fa da paradigma a tutta la versificazione seguente.
In Dante – noto da ultimo – la sinalefe non è un fenomeno notevole quanto la dialefe, che ricalca il suo fiorentino medievale, lento, scandito, spianato, scolpito, poco incline al canto legato; ma soprattutto ricchissimo di movenze e soluzioni metriche che solo in minima parte la posterità avrebbe mutuato da lui. Tuttavia ci sono parecchî casi di sinalefe, e molte soluzioni che forse l’anonimo troverà sorprendenti. L’unica condizione a cui questa piccolissima indagine non potrà soddisfare è il restringimento dell’analisi ai casi di “è” copula, perché, per le ragioni summentovate, la distinzione non ha nessunissimo significato accettabile.
Mi sono dunque limitato a segnalare, dell’intero poema, tutti i casi in cui la III ps. del vb. essere, copula o no, era seguìta da dialefe o sinalefe.
Dev’essere considerato che, nel caso della sinalefe, a seguire possono esservi:
Preposizioni (‘n, soprattutto)
Articoli determinatìvi e indeterminatìvi
Verbi (nei verbi composti, naturalmente)
Attributi: nel qual caso si parla, come detto, di copule.
Nel caso invece delle dialefi, il loro numero è inflazionato di tutti quei casi in cui il verbo non poteva andare in sinalefe in alcun caso, dal momento che si trovava davanti a non vera e propria vocale, ma, sostanzialmente, a consonante (tali sono considerate le semivocaliche o semiconsonantiche w e j nel computo delle sillabe). Questa è l’unica cosa che mi sono permesso di segnalare a proposito delle dialefe, fenomeno che imprescindibilmente ci costringe ad escludere dal novero i casi come “è uopo” &c.
Resta da decidere se Dante, in questa fattispecie, come per tanti altri aspetti, faccia autorità. Mi sembra francamente impossibile, dal momento che tende a legare o spezzare a seconda che gli torni comodo, anche musicalmente. Per quanto riguarda altri aspetti è un po’ difficile prendere di peso la sua autorità, che era paradigma assoluto nel suo tempo, e farla valere qual è per la nostra versificazione: non sarebbe accettabile, sia per la notevole, ispirata libertà di cui Dante si serve, sia per le qualità della lingua del suo tempo – basti dire che nel suo verso Beatrice non ha quasi mai più di tre sillabe, mentre il nesso -ojo (in frantojo, dimenticatojo, e qualunque altro derivato di -orium lat.) era considerato, e tale sarebbe stato considerato fino al XV secolo, sillaba unica (trittongo). Ma è comunque interessante rilevare come Dante, effettivamente, leghi in sinalefe “è” sia vb. sia copula, optando disinvoltamente, e con discreto equilibrio tra le due soluzioni per quanto riguarda il numero di attestazioni nell’intera Comedia, ora per l’una ora per l’altra soluzione.
Da ultimo chiedo scusa per le dimenticanze, che saranno sicuramente molte & di momento, ma lo scrivente allega a giustificazione la condizione sua particolare, contingente e necessaria, pregando lo si voglia compatire, perché attempato, & febbricitante.
“è” in dialefe | “è” in sinalefe |
If I 7: Tant’è amara che poco è più morte | If IV 90: Ovidio è il terzo, e l’ultimo Lucano |
If II 62: Nella diserta piaggia è impedito | If IX 28: Quell’è ‘l più basso loco e ‘l più oscuro (la caduta della i dell’art. det. è rilevata dall’apostrofo) |
If II 81: * Più non t’è uopo aprirmi il tuo talento (o anche: Più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento); la u di uopo o uo’ è comunque semivocalica, e vocale solo all’occhio. | If IX 47: Quella che piange dal destro è Aletto |
If VII 84: Che è occulto come in erba l’angue | If X 85: Ond’io a lui: – Lo strazio e ‘l grande scempio (v. If IX 28; &c.) |
If X 60: Mio figlio ov’è? perché non è ei teco? | If X 119: Qua dentro è ‘l secondo Federico |
If XII 110: È Azzolino, e quell’altro ch’è biondo | If XI 23: Ingiuria è ‘l fine, ed ogni fin cotale |
If XII 111: È Opizzo da Esti, il qual per vero | If XI 64: Onde nel cerchio minore, ov’è ‘l punto |
If XV 68: Gent’è avara, invidiosa e superba | If XII 27: Mentre ch’è in furia, è buon che tu ti cale |
If XVIII 86: * Quelli è Iasòn, che per cuore e per senno; anche questo lo riporto per completezza, anche se la I di Iasòn (vide If II 81) non è vocale se non per l’occhio. | If XII 71: È il gran Chiron, il qual nudrì Achille |
If XXIII 99: E che pena è in voi che sì sfavilla? | If XII 107: Quivi è Alessandro, e Dionisio fero |
If XXIV 123: Poco tempo è, in questa gola fera (ma “è” regge un’altra frase) | If XVIII 1: Luogo è in inferno detto Malebolge |
If XXV 18: Venir chiamando: – Ov’è, ov’è l’acerbo? | If XVIII 132: E or s’accoscia, e ora è in piedi stante |
If XXVII 37: Romagna tua non è, e non fu mai | If XIX 79: Ma più è ‘l tempo già che i piè mi cossi |
If XXXIV 34: S’el fu sì bello com’elli è or brutto | If XXI 111: Presso è un altro scoglio che via face |
Pg I 47: O è mutato in ciel novo consiglio | If XXVI 48: Ciascun si fascia di quel ch’elli è inceso |
Pg II 111: Venendo qui, è affannata tanto! | If XXVI 52: Chi è in quel foco che vien sì diviso |
Pg IV 135: L’altra che val, che ‘n ciel non è udita? | If XXVIII 141: Dal suo principio ch’è in questo troncone |
Pg VI 111: E vedrai Santafior, com’è oscura! | If XXX 98: L’altr’è il falso Sinon greco da Troia |
Pg VI 118: E se licito m’è, o sommo Giove | If XXXI 80: Che così è a lui ciascun linguaggio |
Pg VII 41: Licito m’è andar suso ed intorno | If XXXII 7: Che non è impresa da pigliare a gabbo |
Pg VIII 20: Che il velo è ora ben tanto sottile | If XXXIV 113: Ch’è opposito a quel che la gran secca |
Pg XIII 145: – Oh questa è a udir sì cosa nova – | If XXXIV 120: Fitto è ancora sì come prim’era |
Pg XVI 144: – L’angelo è ivi – prima ch’io li paia | Pg III 50: La più rotta ruina è una scala |
Pg XVIII 48: Pur a Beatrice, ch’è opra di fede | Pg VI 33: O non m’è ‘l detto tuo ben manifesto? |
Pg XXII 154: Quanto per l’Evangelio v’è aperto | Pg XI 81: Ch’alluminar chiamata è in Parisi? |
Pg XXVI 19: Né solo a me la tua risposta è uopo (di nuovo per l’occhio) | Pg XI 99: Non è il mondan romore altro ch’un fiato |
Pg XXVII 81: Poggiato s’è e lor poggiato serve | Pg XIV 88: Questi è Rinier; questi è ‘l pregio e l’onore |
Pg XXXI 24: Di là dal qual non è a che s’aspiri | Pg XIV 122: È il nome tuo, da che più non s’aspetta |
Pg XXXIII 54: Del viver ch’è un correre alla morte. | Pg XVII 45: Maggior assai che quel ch’è in nostro uso |
Pg XXXIII 57: Ch’è or due volte dirubata quivi | Pg XVIII 26: Quel piegare è amor, quell’è natura |
Pg XXXIII 81: Segnato è or da voi lo mio cervello | Pg XVIII 64: Quest’è il principio là onde si piglia |
Pd I 18: M’è uopo intrar nell’aringo rimaso (per l’occhio) | Pg XVIII 72: Di ritenerlo è in voi la podestate |
Pd IV 135: D’un’altra verità che m’è oscura | Pg XXIII 5: Vienne oramai, ché ‘l tempo che n’è imposto |
Pd V 52: L’altra, che per materia t’è aperta | Pg XXIII 91: Tanto è a Dio più cara e più diletta |
Pd VII 56: Ma perché Dio volesse m’è occulto | Pg XXV 54: Che questa è in via, e quella è già a riva |
Pd VII 60: Nella fiamma d’amor non è adulto | Pg XXX 45: Quando ha paura o quando elli è afflitto |
Pd VIII 114: Che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi (per l’occhio) | Pd II 147: Essa è il formal principio che produce |
Pd X 97: Questi, che m’è a destra più vicino | Pd IV 68: Nelli occhi de’ mortali, è argomento |
Pd XI 27: E qui è uopo che ben si distingua (all’occhio) | Pd VII 108: Dalla bontà del core ond’ell’è uscita |
Pd XIV 15: Etternalmente sì com’ell’è ora | Pd IX 112: Tu vuo’ saper chi è in questa lumera |
Pd XIV 89: Ch’è una in tutti a Dio feci olocausto | Pd X 134: È ‘l lume d’uno spirto che ‘n pensieri |
Pd XVI 35: Al parto in che mia madre, ch’è or santa | Pd XVIII 64: E qual è ‘l trasmutare in picciol varco |
Pd XVI 49: Ma la cittadinanza, ch’è or mista | Pd XXIV 73: Che l’esser loro v’è in sola credenza |
Pd XX 42: Per lo remunerar ch’è altrettanto | Pd XXIV 145: Quest’è ‘l principio, quest’è la favilla |
Pd XXII 66: È ogne parte là dove sempr’era | Pd XXV 65: Pronto e libente in quel ch’elli è esperto |
Pd XXII 67: Perché non è in loco, e non s’impola | Pd XXX 30: Non m’è ‘l seguire al mio cantar preciso |
Pd XXIV 41: Non t’è occulto, perché ‘l viso hai quivi | Pd XXX 129 Quanto è ‘l convento delle bianche stole! |
Pd XXIV 53: Fede che è? – Ond’io levai la fronte | Pd XXXII 111: Tutta è in lui; e sì volem che sia |
Pd XXV 46: Di quel ch’ell’è, e come se ne ‘nfiora | Pd XXXII 122: È ‘l padre per lo cui ardito gusto |
Pd XXV 60: Quanto questa virtù t’è in piacere | Pd XXXIII 90: Che ciò ch’i’ dico è un semplice lume |
Pd XXV 67: – Spene – diss’io – è uno attender certo | Pd XXXIII 133: Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige |
Pd XXIX 27: A l’esser tutto non è intervallo | |
Pd XXIX 66: Secondo che l’affetto l’è aperto | |
Pd XXXIII 102: È impossibil che mai si consenta |
Eppure questa mia fregola censitoria non mi lascia, non mi lascia. Mentre uscivo dalla Civica per recarmi al terminus del 72, nell’ultimo tratto di via Barbaroux ho visto che qualche anima buona ha pensato bene di lasciare, nei pressi della spazzatura ma, con delicatezza financo eccessiva, a discreta distanza dalla stessa, due graziosi sacchetti di carta, con sopravi il logo “Exki”, quello di un posto molto fiko di via Pietro Micca.
I quali due sacchetti contenevano n° 20 panini, confezionati e da consumarsi in questa giornata del 7 d’ottobre 2009, eliminati perché invenduti, ma bonissimi ancòra, salvo errore. Sceverati i panini non suitable, ho rinvenuto panini del tipo “Vanessa” (esemplari 5, di cui tre mangiati sul 72) e del tipo “Chopin” (1 solo, purtroppo); & erano buoni, & saporiti.
A chi fosse, almeno in potenza, interessato a qualche prezioso abbinamento, dirò che il Vanessa è di pane integrale, bruno, con il sesamo, ingravidato (ingravidata? trattandosi di femmina) con zucchine grigliate, grana in scaglie, pomodori secchi & rucola (riporto esattamente la dicitura degl’ingredienti, solo diffalcando qualche barbarismo). Lo Chopin è invece una focaccetta con crema di carciofi, pomodoro fresco, & valeriana.
(Se si cerca su gùgol, tra gli esercizj commerciali, “teresa” + “torino”, il primo sito che esce, peraltro, è exki.it. Come tout se tient, veramente!).
Non occorre essere ermetici per essere incomunicabili. Questa è l’unica sostanziale novità della mia scrittura, che dunque non ha nulla di particolarmente nuovo, se non l’intento che retrostà – e che non si vede.
E, sì, forse ho ecceduto nella critica a Moresco – gli scrittori sono molto suscettibili, al punto che suscepiscono anche quando non sono chiamati direttamente in causa. Il recensore rompicoglioni tende ad essere rompicoglioni un po’ con tutti; e io non faccio, come recensore, quando mi ricordo di léggere qualcosa e di scriverci sù qualche riga, nessuna eccezione.
Giustamente Palasciano – che sta diventando, stando al trend di questi ultimi giorni, la mia Carmenta – mi ha fatto presente, dalla parte di là, dopo la mia notazione che Moresco non gli si addice affatto, come scrittore, che non lo conosco abbastanza – Palasciano, non Moresco – come scrittore per poter dire una cosa del genere. A parte il fatto che mi ha fatto tornare in mente il suo Prove per un romanzo storico, uno spillatino con l’Ipersonetto, una cosa postzanzottiana, e un volumetto, dalla copertina verde, di poesie, su cui avevo cominciato a scrivere una lunga cosa, che poi è abortita a causa del penultimo guasto del computer, la sua notazione mi ha colpito proprio per la sua esattezza.
Non solo non conosco quasi niente di Palasciano, ma anche l’ultimo di Moresco me lo sono risparmiato (parte perché la prima versione mi era già nota, e non m’interessa), e chissà quanti altri autori e autrici mi sfuggono, e mi sfuggiranno; e di nessuno me ne potrà importare di meno. In questi giorni, nello specifico, sincopizzo al massimo grado, a rischio di farmi eremita, nella lettura dei contemporanei, in ogni caso, limitandomi a passare lo sguardo sulle serendipità e sui donatìvi, che non ignoro più per amore della scoperta casuale e simpatia nei confronti dei donatori che per autentico interesse. Chi si dedica a letture e scritture, normalmente, considera sempre aperto il proprio cammino di lettore, di scrittore – sono rari quelli che si dànno scadenze, e normalmente sono vecchj, e desiderosi di finire.
Io mi ritrovo esattamente nella stessa situazione: vecchio, cioè, e desideroso di finire. Non m’interessa, in alcun modo, allargare la visuale oltre i confini, più o meno angusti, più o meno ampj, di quello che per me è lo scibile, o lo scito, e nemmeno il tormento e l’eccitazione della perfettibilità, o la crudeltà dell’enigma che non vuol lasciarsi sciogliere, mi tengono letterariamente vivo. Dal punto di vista lettorio-scrittorio sono come in terapia intensiva: metafora che regge fino a un certo punto, perché quel sinistro reparto normalmente serve a tenere in vita chi rischia di morire da un momento all’altro; io, invece, rischio di rimanere sempre in vita, letterariamente; rischio di avere sempre la tentazione di tornare a cercare un volume, o aspettarlo magari anni, rischio di rigirarmi in mente un emistichio o un verso cercando senza fretta l’occasione da infilarvelo; rischio di rimpiangere, al punto di averne voglia, di non avere scritto di tutto, e di più, il romanzo in più volumi, la sagra scenica, il grande canzoniere, la storia dell’asola dalla protostoria al tramonto dei calzoni. Si tratta, per me, di spremere fuori quanta più vita è possibile, facendo in modo che non me ne rimanga più, nemmeno un pochetto.
E’ chiaro che voglia restringermi a quelle cose che ritengo più d’altre importanti, e che tenda ad escluderne altre, anche se per altri versi, pur che mi raggiungano, fisicamente, mi capitino materialmente tra mano, non escluda di fatto nulla. Ma i rapporti di rete sono resi falsi dalla distanza, dalla tirannia del mezzo, dall’omologazione dello stile, dalla noja che si finisce col provare, necessariamente, girando sempre per soliti blog, senza peraltro trovare alternative valide – o non poterlo più fare; mi manca totalmente quella vecchia disponibilità a conoscere, che mi spingeva a léggere *tutto* quello che un blogger aveva scritto, da capo a fondo.
Ovviamente la mia stanchezza non è ‘di rete’: riguarda tutta la scrittura, a cui guardo, attualmente, come a quella cosa che mi ha impedito di vivere, quando per me vivere era già difficile. E’ stato il peso che mi ha schiantato la noce del collo, così la vedo: come la goccia che ha fatto traboccare il vaso, lo spuntone che ha fatto saltare l’ultimo puntello.
Essendo questo lo spirito, è del tutto normale che io sia insofferente nei confronti delle scritture false e pretenziose, delle scimmie travestite da scrittori, e in genere di tutti quelli che ritengono che la scrittura sia una cosa importante, nobilitante, in grado di mettere un gradino al disopra degli altri Leggendo contemporanei, ormai, scopro solo magagne, e, per giunta, magagne molto simili alle mie; con l’aggravante che non c’è nemmeno quella consapevolezza – sono presuntuoso? -, o almeno quell’insofferenza, che mi accompagna e che mi avvelena l’esistenza – posto di esistenza si possa parlare.
Il fatto che io provi disgusto, ovviamente, non implica affatto che io debba manifestarlo ad ogni piè sospinto; su questo sono d’accordo. Quanto al fatto che possa o non possa permettermelo, mi spiace, ma nonostante gli sforzi, a tratti persino intensi, di normalizzare il mio caso, me ne infischio: non sono integrato né integrabile, e questo non perché mi credo superiore a tutti, ma per il semplice fatto che sono troppo esaurito perché possa fregarmene niente di stare in mezzo a voi. Condizione imprescindibile, per altri versi, dal momento che è compresa nel mezzo di cui mi sto servendo, che ho scelto per nessun motivo in particolare e che ri-scelgo, adesso, per concludere la mia vicenda scrittoria. Con l’unico rimpianto di non averla potuta, saputa rendere indispensabile, e di averne scoperto troppo per tempo la totale, assoluta, inutilità.
A domani.
Non so com’è, ma la discussione avutasi per via di Palasciano sull’endecasillabo mi ha indispettito – probabilmente com’è giocoforza che faccia l’essermi avventurato su un sentiero, che è difficile lasciare proprio adesso, disseminato purtroppo di stronzi molli.
Nel frattempo, finalmente, proprio stamani, ho ripreso il cavo.
La vita, nel frattempo, è andata avanti: qui Francesco Marotta ha messo dieci miei vecchj sòni a disposizione del pubblico leggente. Me ne sono accorto solo adesso!
Da Palasciano s’è scatenata una polemicuzza su un componimento d’occasione dell’owner; un anonimo ha sostenuto (si veda qui quale e chente sia il componimento, e che cosa si dice nel commenti): a) che la sinalefe che farebbe quattro sillabe delle teoriche cinque di “è affettata” è illecita, anzi “orrenda”, al che non saprei che rispondere, se non che, nel parlato, mi sembra che la copula finisca sempre, naturalmente, in sinalefe con quanto segue, e che non ci ho mai trovato nulla di particolarmente ripugnante; b) che, e questa è la cosa che mi è parsa più strana, gli endecasillabi con accento forte in iii posizione contraddicono alla metrica classica.
A parte il fatto che per “metrica classica” io ho presente quella greca e quella latina, e la definizione mi stride, trovo in genere queste discussioni di una penosità terrificante. Ma la pulce nell’orecchio l’anonimo me l’ha messa, nel senso che mi sono effettivamente chiesto non se – giacché so già, grazie al piffero, grazie a qualche vecchio manualetto, che l’endecasillabo con acc. in iii posizione non solo è dabile, ma ben attestato, e praticamente inevitabile (e poi, perché dovrebbe essere evitato lo sanno solo l’anonimo e l’imperscrutabile ente superiore che l’ispira) – bensì quante volte l’abbia usato Dante in un canto della Comedia.
Intendiamoci bene: Dante non è, quanto a musicalità del verso, tutt’oro macinato e perle strutte. Poteva ben darsi che i suoi endecasillabi con accento in iii posizione risultassero come sempre icasticissimi & gagliardissimi, ma magari un filo troppo gotici per il molle gusto corrente. Nulla di tutto questo; tra gli endecasillabi con acc. in iii ce ne sono alcuni dei più musicali, evocatìvi e anche memorandi tra i versi del canto I (mi baso sulla cura del Sapegno, Ricciardi, Napoli):
1. I, 5: esta selva selvaggia e aspra e forte
2. I,15: che m’avea di paura il cor compunto
3. I,20: che nel lago del cor m’era durata
4. I,25: così l’animo mio, ch’ancor fuggiva [con cesura] *
5. I,33: che di pel maculato era coverta
6. I,41: sì ch’a bene sperar m’era cagione
7. I,44: ma non sì che paura non mi desse *
8. I,54: ch’io perdei la speranza de l’altezza
9. I,58: tal mi fece la bestia sanza pace
10. I,59: che, venendomi incontro, a poco a poco
11. I,63: che per lungo silenzio parea fioco
12. I,64: Quando vidi costui nel gran diserto
13. I,65: – Miserere di me – gridai a lui *
14. I,69: mantovani per patria ambedui
15. I,78: ch’è principio e cagion di tutta gioia?
16. I,79: – Oh, se’ tu quel Virgilio e quella fonte *
17. I,82: O delli altri poeti onore e lume
18. I,84: che m’ha fatto cercar lo tuo volume
19. I,86: tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
20. I,114: e trarrotti di qui per luogo etterno
21. I,129: oh felice colui cu’ivi elegge!
22. I,134: sì ch’io veggia la porta di san Pietro
23. I,135: e color cui tu fai cotanto mesti
Sono 23 versi (magari ne ho dimenticato qualcuno; uno eccedeva, e l’ho tolto) in cui l’acc. cade sulla iii; il canto in totale ne ha 136. Gli accenti forti dipenderanno anche da ragioni espressive: in “che m’avea di paura il cor compunto” non è il caso di segnarlo sulla iii “che m’avèa…”); ma in “esta sèlva selvaggia e aspra e forte”, dato il bisticcio, non è inopportuno. In “che per lùngo silenzio parea fioco”, può sottolineare l’agg.; ancòra più plausibile “tu sei sòlo colui da cui io tolsi” (‘tu sei quel solo, quell’unico da cui, &c.’); “o felìce colui cui ivi elegge!”, &c. Ma, anche attenendomi ai soli 4 vv. in cui l’acc. forte in iii non ha alternative, mi sembra chiaro che non è affatto una rarità; e men che meno che possa ritenersi scorretto, o che laceri l’orecchio.
After this.
The Barbon Man and the Toxic Man meet in Streetlet Street.
The Toxic Man has a bottle of beer posed near and an unlighted cigarette cast between two fingers of his right hand. He indeed does see the Barbon Man and smiles to him.
THE TOXIC MAN. I guess you came to ask me about the five euros I’m indebted with with you, no?
THE BARBON MAN. No, of course not. I came because I feel very near to you, especially this evening.
THE TOXIC MAN seems upset. Why?
THE BARBON MAN. Because I’m sad.
THE TOXIC MAN. Have you money?
THE BARBON MAN. Never more. How do you think I should have money?
THE TOXIC MAN. I did’nt understand you question.
THE BARBON MAN. Nor I. Can I sit by you on this beautiful pankeen?
THE TOXIC MAN. Of course you can; and you may, too.
The Barbon Man sits by the Toxic Man on the beautiful pankeen (the best one of the passeggiate).
THE TOXIC MAN continues to say: You know, it’s so touching to come back to my pankeen, every evening, and find your humid, silly pair of eyes fixing me such sentimentally. I think you are a holy hand for my heart, and I would love hearing you saying me: I love you. Please, take a cigarette.
THE BARBON MAN. No, thanks so much. It’s so wasted on me. I always carry with me my own packet of tobacco.
The Barbon Man shows the packet of his own tobacco.
THE TOXIC MAN. This probably is an offense. Probably I’m compelled to introduce my knife to your bowels. And I hate your tobacco, it stinks.
THE BARBON MAN. Would you roll up one or two cigarettes with my tobacco? You’re welcome.
THE TOXIC MAN. Thank you very much indeed, I’ll roll up three or five cigarettes, because of this night, that’s very long to pass.
The Barbon Man gives the purse to the Toxic Man, and this last begins to roll up some cigarettes with the stinking tobacco.
THE TOXIC MAN not looking at the other, and seguitating to roll up his stinking cigarettes. Please kiss me. Make a tentative, at least.
THE BARBON MAN up on his feet, improvisely. No, don’t I want.
THE TOXIC MAN. I feel relaxing to stay by you, sitting on these pankeen. When you stay up on your feet I think I could kill you.
He trays his own dangerous knife from his pocket, he opens it and he shows it to the Barbon Man.
THE TOXIC MAN insists: Say me I love you.
THE BARBON MAN. If not?
THE TOXIC MAN. Have a little boccade of beer.
The Barbon Man afferrates the bottle of beer, and he drinks two or three boccades.
THE TOXIC MAN, attempting to stop him. You are a real fucking sticky hopeless Barbon! Don’t drink it all, you bastard!
THE BARBON MAN stops to drink for a second, just to say. Love you so much, my friend,
and reprends to drink.
THE TOXIC MAN. Give me a kiss.
The Barbon Man makes the gesture to kiss most passionately the Toxic Man. The Toxic Man trays the dangerous knife from his pocket, affers the head of the Barbon Man, stringes his neck with the fore-arm and appropinquates the point of the dangerous knife to the Barbon’s Man nose, that squirrels, non-obstant suffocating.
THE TOXIC MAN. How dare you, inverted scoundrel? What do you want from me? Do you want your skeefous five euros, isn’t it?
THE BARBON MAN, arriving to sporge a hand, half-squirreling, half-suffocating, half-begging. Yes, please.
At this moment a not so young subproletarian couple runs in, quarreling about who knows what; she’s fat, with sconvoulted hair, and roteates a little purse, attempting to give it fortly on her boyfriend’s head. Her boyfriend carries a chair, with a cat on it, and searches to make the cat attack the woman screaming, and contemporanely to give the chair on her head, with particular hate. The two yell some not easily comprensible sentences (“… M’hai inculato la dose, cornuto!!… ” “… Te ne approfitti perché sono moribondo, puttana!!”) and vanish quite rapidly in lontanance. Vanishing, the chair scrickiolates; the cat meeowes.
The Toxic Man and the Barbon Man have rested to see what was coming up. The Toxic Man ceased to strangolate the Barbon Man.
THE BARBON MAN, with weep in his voice. I don’t believe in love.
THE TOXIC MAN, stending himself on the pankeen. I feel so tired. Say me goodnight.
THE BARBON MAN. Goodnight, my friend.
THE TOXIC MAN, traying two or three packets of stinking tobacco from his pocket. Please, have one.
THE BARBON MAN, taking. Oh, thank you so much. But… er…
THE TOXIC MAN. Yes?
THE BARBON MAN. I lack of carteens.
THE TOXIC MAN. Papers, isn’t it?
THE BARBON MAN. Exactly.
THE TOXIC MAN allongating him two boxes of carteens. Have them.
THE BARBON MAN. Here, tomorrow evening.
THE TOXIC MAN. See you, my friend.
The Barbon Man allontanates. The Toxic Man falls asleep in a crash.
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