Archivio | settembre, 2009

356. Porca paletta.

30 Set

Non che dia la testa al muro, intendiamoci: non me ne frega niente, ma sta di fatto che tutti quei miei foglietti, piccoli e pasticciati, finché rimangono così mi dànno noja. La cosa più importante, per me, era farli, ma mi scoccia lo stesso, perché il fatto di poter mettere tutto qua sopra, nel tempo, è diventata una specie di garanzia – tralasciando le cose più importanti & redditizie che dovrei intanto fare con la macchinetta.

Comunque sia, alla peggio mi sarei sentito dire da alcor che inciampa, o da qualche sconosciuto che tutto quello che scrivo, comprese queste cosucce, sono messe lì nel tentativo occulto di convincerlo di qualcosa.

Riprenderò appena sarò in grado di ricollegarmi alla corrente. Tante cose, tutte insieme, unitamente a tutto quello che m’è successo in precedenza – e non sono stati tutti incidenti, e anche questo ha la sua marcia importanza – m’indurrebbero a dirmi, novo Giobbe: Tutte a me, diocane. E invece mi rendo conto che sarebbe inutile, io non quievi, non dissimulavi, e nessun diocane mi ascolta, o sta lì a farsi dare la responsabilità per la mia dabbenaggine. Con tutti i problemi che dànno gli AspireOne, sono riuscito ad averne uno che non càpita praticamente mai – la rottura dell’accumulatore.

Avrei probabilmente fatto meglio a scrivere qualcosa di pianta, o a copiare, per quanto potevo, il già fatto; ma, come captain Gale tra i bloggeurs più disertati della rete, non potevo correre il rischio (che non c’era: ma sarebbe stato un tentativo, ovviamente, di evitarlo; e sarebbe stata hybris, allora sì apriti cielo) di perdere anche questa ennesima riprova.

Come state?

Io mi sono accorto, jeri, di star mangiando poco. Di tanto in tanto mi succede, ho dei cali energetici paurosi. Quello di jeri è stato il peggiore, sbandavo e sudavo freddo (siete almeno un po’ impietositi?). Mentre aspettavo di far orario per andare a mendicare un frusto di pane alla porta di qualche chiesa intestata a san Ciula, o san Porco, mi sono distratto scrivendo quanto segue sul diario (un moleskine nero, assolutamente incongruente con la mia condizione, ma conto molto sul fatto che qui non si vede, ammenoché non ci metta una foto):

Mercoledì, 29 settembre 2009. […] 17.30, […]. Mi sono fatto un giro, sono andato all’IG. Ho controrisposto a quel Galbiati che sostiene le posizioni di quello Halper, peraltro m’è venuta una fame tremenda, devo precipitarmi da soeur Tirolèse, ma comincio a correre solo tra un’oretta, o un attimo di meno. Un buco allo stomaco indicibile, oggi mi sono entusiasmato

[sic!!]

e questo mi brucia energie e cervello. Probabilmente non posso dfare di più, non lo so, che mangiare più abbondantemente, ma come faccio? Quello mi dànno. E’ una situazione drammatica, dovrei garantirmi almeno un euro di pane al giorno, come riempitivo. Se chiudo gli occhj vedo tavole imbandite, scorgo bu-fè, spio carrelli  sovraccarichi di leccòrnie e bendiddii: mi si parano incontro leccarde di gnocchi alla romana, vassoj mi verdure ripiene, e scutelle di pasteasciutte coi broccoli, le amandole, & l’aglietto, che tanto mi piacciono: mi attraggono lo sguardo famelico pani bianchi dalle morbide interiora e dal cròstolo abbrustiato, che mi convolvono di nebbioline candide quando li sparo, ché ne sussulta via la farina. M’incanto ad ammirare piatti di portata gravati da piramidi di polpette dall’interno di bianche patate; fagiolate intense in sughi bruni, e pomidoro succhiosotti a fette contornati di tropee affettate e riccioli d’aglio striturato, con vezzi verdi di basilico, e zucchine trifolate, che vedo chissà perché affogate nella panna, e ravioli in vapore, e rolate di pastasfoglia, cogli spinacj, & l’uvetta. M’occhieggiano per il dipoi le mezzelune fritte e panciutelle con l’interno di marmellate acidule, e ciambelle marmorizzate in cui il cacao si sente appena; le peschenoci dal profumo penetrante, e le albicocche redolenti e pastose, dall’aroma rotondo dalla nota acutissima. Per ora avanzo la mano su’ risi di chicco grasso e glutinoso, dove ogni grano è isolato dai sughi dall’aroma erboso delle verdure stir-fried, in pezzi piccoli, i peperoni versicolori, il pomodoro a tocchetti, un poco rondelline di sedano, le carote in granelli, e, chissà se ci va, l’aneto a tempestare il tutto con le minuscole dita. Poco, come si vede, di dolci, e niente di formaggio, anche se è solo deficienza dell’immaginazione se non pervengo a figurarmi i castelmagni che si destrutturano in granuli nel miele, i gorgonzoli sfatti, e le paste lattee, piene di sale & di sapori, dei formaggj di monte dalla facies compatta, che ingrigisce appena a mano a mano che ci s’accosta con lo sguardo alla crosta. Mentre, se la moira assiste, dovrò tentare di riempirmi un angolo di stomaco con un frusto di pane gommoso come la pancia della monaca, quella bashtarda, e dentrovi due scagliette di pecorino mezzo saponificato, o la fontina al lattice degli ajuti CE, o qualche po’ di grana dalla pasta fastidiosa, dalla consistenza rimponente, dagli armonici corrosìvi, dagli spessori occlusìvi, dagli effetti lesìvi. E poi, se sarò buono, la frittata di carciofi, specie di sughero abbrugiato sparso & infilzato di filacce dure, sterpaglie ingrate, bagnato nella majonese lardosa, gelatinosa, che sa di muffa; o i peperoni in lacerti puzzolenti di fogna, che intridono e fanno cadere a pezzi imbibiti il pane – tipo “carota” – che tenta vanamente di tenerli insieme, e, proditorio, nasconderli quel tanto che basti alla vista; o le zucchine dall’alito pestilenziale, dalla consistenza di smegma caseificato, con note di ammoniaca e afrori di Po in piena, quando i tronchi e le sterpaglie si bloccano sui rinforzi del ponte Vittorio Emanuele, e rimangono a putrefare al sole malato.

Il mantra ha funzionato: di lì a poco, poi, mi hanno dato due panini con la frittata, ma senza majonese, ed era buona, & saporita; e due panini con le melanzane, buone & fresche; e, da dentro uno scatolo, ho pescato tre pezze di pane con le patate, morbidi, che ho mangiato la sera.

355. Andreoli e il mostro.

28 Set

Bisognerà pure che scriva qualcosa, in attesa del cavo. Solo che non molto d’interessante mi viene da dire – anche se una cosa effettivamente c’è.

Per causa di forza maggiore, sabato pomeriggio sono andato a sentire un uomo che quando lo intravedevo al Costronzo cambiavo canale, Vittorino Andreoli: era alle 15.00, nel cortile di Palazzo Carignano, dove mi trovavo in mezzo a molte carampane (che dovrebbero costituire il 90% della fauna che vive ai margini del sottobosco delle conferenze pubbliche, per quel che ne so). La sua conferenza, in seno a “Torino spiritualità”, era sulla fragilità: bisogna ammetterla e farne un punto di forza; è la base dell’interdipendenza, il bisogno reciproco che dev’essere riconosciuto da ciascuno, &c.

In linea di massima, la questione mi ha lasciato totalmente indifferente (dieci anni fa tutta la letteratura da self-help, di psicodivulgazione e supporto, metteva l’accento sull’indipendenza, ed era diventato tabù dipendere da qualcuno: non dobbiamo rendere conto a nessuno, non abbiamo bisogno di nessuno – non sono mode; sono qualcosa di molto peggio), ma c’è una notazione, o due, che ha fatto sugli adolescenti-mostro, quelli che ammazzano mamma e papà, o incendiano i barboni, che mi è parsa altamente sintomatica di un atteggiamento mentale.

Andreoli ha detto di averci avuto che fare, come psichiatra. E che, mettendosi a parlare con questi presunti mostri, dopo qualche minuto che ci parlava insieme, costoro, immancabilmente, si mettevano a piangere. Dato il fremito che ho sentito scorrere dietro me (ero piuttosto davanti), ho avuto l’impressione che la notazione avesse fatto sensazione, e desse molto sollievo; quasi a dire: ecco, anche loro sono umani.

Come a dire: Hanno trucidato la nonna, ma piangono; dunque sono umani. Mi sembra un ragionamento monco. In questo caso, dev’essere data per valida anche una legge commutativa: piangono, ma hanno trucidato la nonna. E mo?

Di fatto queste conferenze, come anche i libri che naturalmente attraverso le stesse sono promossi, hanno una funzione esclusivamente consolatoria – anche il tema della fragilità, che è quello centrale. La notazione sugli adolescenti mostro serviva ad illustrare il vecchio adagio che la violenza nasce dalla paura, e che la paura ingenera violenza.

Di fatto, sembra che il riconoscimento della fragilità, della paura, come motore dell’atto violento riesca a svuotare, nelle coscienze, anche il potenziale traumatizzante dell’atto, che pure non sembra poter essere mutato: rimane quello che è. L’avvertimento del contrario pacifica con la figura del mostro, umanizzandolo. Ma questo presuppone che ci sia maggiore attenzione all’uomo per come dovrebbe essere, non per quello che fa; e l’adolescente mostro è tratto di fronte ad una serie di figure istituzionali, tra cui quella dello psichiatra di turno, per quello che ha fatto, non per quello che si suppone che sia. Il meccanismo logico mi sembra come invertito rispetto a quello che dovrebbe essere.

Faccio un esempio qualunque: Borghezio, tanto per prenderne uno, fa molte sparate omofobe. Poniamo che un giorno si scopra che è ricchione. Questo sicuramente è sufficiente a sgonfiare la portata delle sue sparate, che rimangono, finché sono un fatto meramente verbale, strettamente dipendenti da quello che è noto della condotta di vita di chi le fa. Se la condotta di vita è in netta contraddizione con le affermazioni, le stesse affermazioni si svuotano di significato, non sono più credute, non servono più a nulla. Ma poniamo il caso che Borghezio si metta ad ammazzare un certo numero di ricchioni. La percezione del suo atto, secondo l’opinione volgare, dipenderebbe dalla sua personale posizione in termini di ricchioneria: finché riconosciuto come amante della vulva sarebbe un mostro (o un eroe, secondo taluni); come ricchione tutto il palco crollerebbe, facendolo apparire solo un poveraccio, un malato, e diminuendo anche la portata tragica del suo insano ripetuto gesto. La quale rimarrebbe al centro della percezione solo all’interno del tribunale che lo processasse, ma moralmente, nella percezione comune, avrebbe già molto meno impatto, tenderebbe a passare un po’ in cavalleria, o addirittura a perdersi.

Basterebbe rendersi conto della disinvoltura e della larghezza con cui questo meccanismo distorto si applica per capire che non è così inaccettabile l’idea che uccidere è, semplicemente, umano;  alla gente, invece, basta sapere che chi ha ucciso è, semplicemente, un uomo.

354. Pausa forzata.

25 Set

Interrompo la copiatura – veramente l’ho già interrotta jeri – perché al momento è un’inutile perdita di tempo, e rimando il tutto a dopo l’arrivo del cavo. Sono a buon punto, per ora & se non perdo il ritmo, mi preoccupa un poco la copiatura, e soprattutto la postatura – wordpress è molto lento a caricare, è il suo unico difetto. Pazienza.

Nel frattempo non ho avuto nemmeno molto modo di leggermi intorno (ho visto solo che alcor è in pausa, anche lei, dopo aver parecchio scritto di Pizzuto e di Mari – articoli e video tutti molto commentati, e in modo interessante, specialmente per me che di due autori del genere, posto sia ancòra in grado di pronunciarmi su alcunché, non saprei mai e poi mai che cosa dire; e, inspiegabilmente, sono anche passato dal blog di tash, per avere la brutta sorpresa di tutti quei pesci morti).

Mi dispiace, particolarmente, quest’incidente: non solo è un momento altamente inopportuno, ma fa anche specie che si sia guastato un pezzo – l’accumulatore – che di solito non ci si aspetta si rompa. Me l’hanno detto anche all’assistenza, non è proprio cosa di tutti i giorni. Peraltro il cavo dell’AspireOne è di tipo particolare, ha un amperaggio di molto inferiore (1,58) a quello di qualsiasi altro, e non è possibile acquistare pur validi tarocchi, perché non esistono: bisogna prendere l’originale, che cost’assai. & anche questa ce l’ho in quel posto.

Ma ce la farò, lo sento.

353. Proverbio XV.

24 Set

CHI SI CREDE ESSER PIV’ SAUIO DE GLI ALTRI, QVELLO E’ PIV’ PAZZO DI TVTTI.
Non so in che cosa fondi quel signore
La convinzione della sua saviezza;
ma alza la gamba come chi spetezza,
Due girandole ha in mano (ma che amore)
    E ha un gusto nel vestire che fa orrore,
Non so su che pianeta lo s’apprezza;
Comunque sia, una bestia da cavezza
Mostra più dignitoso aver tenore.
     Chi ha un chilo o due di pomodori molli
Al posto del cervello, agli sfasciumi
Essere ultimi ignora, estremi crolli.
     PERCHE’ IL SAGGIO DE’ SAGGI ESSER PRESVMI,
IL PIV’ FOLLE SEI TV’, DI TVTTI I FOLLI,
SE NON EMPION TVA MENTE ALTRO, CHE FVMI.

352. Proverbio XIV.

24 Set

CHI PIGLIA L’ANGVILLA PER LA CODA E LA DONNA PER LA PAROLA PVO’ DIR CHE NON TIEN NIENTE.
Per quanto pesi, & la coscienza roda,
Val la pena di dire che si deve
Donna ed anguilla l’afferrar non lieve
Al fatto che ambedue tengon la coda.
    L’anguilla forse, non seguendo moda,
La mostra più sovente; & sotto greve
Guardinfante la donna la non breve
Appendice a occultare par che goda.
     Ma ambedue certi giorni, come invase
Dall’estro, quell’attrezzatura immonda
Mostrano a genti solo a ciò persuase.
     CHI LE SPERANZE SVE FABRICA, & FONDA
DI FEDE FEMINIL SOURA LA BASE,
GETTA I SUOI FONDAMENTI A’ L’AVRA, A’ L’ONDA.

351. Proverbio XIII.

24 Set

CHI RICEUE UN’INGIURIA SCRIVE IN MARMO, E CHI LA’ FA’ IN POLVE.
Tu che offendi, che oltraggj, un altro metro
Spetta a te & a chi offendi; ché quest’uno
Commette, in modo quantomai importuno,
La memoria del danno a un marmo tetro;
    Che non solo ad accogliere un feretro
E’ più adatto, ma pesa, & uno ad uno
Assommandosi, un peso che nessuno
Porta vorrebbe pur portarsi dietro.
     Più saggio, tu prosegui le offensive
Imprese, poiché il vento ne dissolve
Il registro, con quanto vi s’inscrive.
     CHI D’OFFENDER ALTRVI PENSA, E RISOLVE,
DOURA PENSARE, E RIPENSAR, CHE SCRIVE
L’OFFESO IN MARMO, E L’OFFENSORE IN POLUE.

350. Notizia VI.

23 Set

NEW YORK, TRE AFGHANI PRESI. “PREPARAVANO ATTENTATO”.
Stranieri, d’un paese a gran distanza,
Tramavan morti, avendo ormai promesso
Barbare santebarbare all’oppresso
Popolo ignaro, a strage, & a mattanza.
    Il fine, perseguìto con costanza,
Parve d’un decaduto volgo ossesso
Mera macchinazione, quando appresso
Si sa che da anni in VSA essi hanno stanza;
    Che all’ospite a turbare i dì sereni
Ponevan cure massime, & riguardi
A far saltare in aria molti treni;
     Stranieri contro gli VSA armat’i dardi,
Dunque, e terzomondisti d’odio pieni,
O cittadini stufi di ritardi?

349. Proverbio XII.

23 Set

CHI LAUA LA TESTA ALL’ASINO, PERDE IL TEMPO, ET IL SAPONE.
D’acconciatura morbida alla moda
Vorresti tu adornare il capo al ciuccio,
Pensando a quanto poi sarà caruccio,
Passando in via, a ciascuno che lo loda.
    Ma quando il capo ha tutto unto di broda,
L’asino, che non s’ama assettatuccio,
T’ammolla un calcio, e dice, con corruccio:
Stronzo! Piuttosto, acconciami la coda.
    Tu che pensavi vanitosamente
A un asino a tua indole accismato,
Premi il ginocchio leso, e fai, gemente:
    STENTA INERME SE SAI, TRAVAGLIA ARMATO
PER ANIMA UILLANA, & SCONOSCENTE,
CHE’ MERCE’ NON S’OTTIEN DA UN CORE INGRATO.

348. Proverbio XI.

23 Set

CHI HA TEMPO, NON ASPETTI TEMPO.
Se afferrare tu vuoi la donna strana,
Nuda, che il corno divite brandisce,
Che tanto attrae, che tanto incuriosisce,
Capelli al vento, & priva di sottana,
    Bada che non ti sfugga; s’allontana
A gran passi, e chi coglierla fallisce
Di rimpiangerla poi maipiù finisce;
E arriva a darle fin della puttana!
    Ma a nulla serve il gemere tardivo,
E il tacciarla d’infida, e inopportuna,
In base ad un diritto putativo.
    NON PERDER, SAGGIO, OCCASIONE ALCUNA,
CHE’ S’IL TEMPO NON PRENDI, E’ FUGGITIVO;
CALUA, SE NON L’AFFERRI, E’ LA FORTVNA.

347. Proverbio X.

23 Set

CHI E’ IMBARCATO COL DIAVOLO, HA DA PASSARE IN SUA COMPAGNIA.
Non sempre è lieto il tempo scorso in viaggio,
Specialmente s’è viaggio, & non vacanza,
E specialmente s’è lunga distanza
Da percorrersi, e sia un perù il pedaggio.
    Peggio di tutto è se chi dà il passaggio
E’ il diavolo in persona, che ha l’usanza
Di darti sempre con il remo in panza,
Dando della sua fama & prova & saggio.
     In mezzo al mare, il portentoso grido
Del passeggero, che ne ha pena immonda,
Non s’ode mica; ah! che nocchiero infido.
     RARO E’ BEN QVEL NOCCHIER, CHE NON S’AFFONDA,
E APPRODA AL PORTO, O’ SI RICOURA AL LIDO,
SE DE’ UITIJ NEL MAR SI FIDA A’ L’ONDA.

346. Proverbio IX.

23 Set

CHI DORME, NON PIGLIA PESCE.
Grava ipoteca gl’interessi umani
La Fatìca, che tantopiù s’accresce
Quantopiù l’impres’opera non riesce,
E quanto più si fan gli sforzi vani.
    Chi vuol pescare stenda reti, e immani
Tempi aspetti; per lui ben mi rincresce.
Chi invece, come me, non ama il pesce,
Si stenda al rezzo, cogli altri vegani.
     Resti sparato poi cui invece piace
Venando andar di bestie dietro l’orma,
Ch’io in pace lascio, e voglio stare in pace.
      SVOL L’VTILE A’ L’INDVSTRIA ESSER CONFORME.
FERE NON PREDA IL CACCIATOR, CHE GIACE,
RETE NON EMPIE IL PESCATOR, CHE DORME.

345. Proverbio VIII.

23 Set

CHI BEN COMINCIA HA’ LA META’ DELL’OPRA. NE’ SI COMINCIA BEN, SE NON DAL CIELO.
Sono aridi e sassosi i campi tuoi;
L’aratro ha rotto il vomere; hai la rogna;
Hai dieci figlj, & vivi in una fogna;
Han l’afta epizootica quei buoi.
    T’aspetta un gran lavoro, se pur vuoi
Cogliere il frutto che da te si sogna;
Ben cominciare, dunque, ti bisogna,
Con mezzi di fortuna, irti & squarquoi.
    In tanta estremità qual è il più degno
Modo che trovi a uscir dal rovinio?
Quello che uscir da un capo può di legno:
    ECCO PROSTRATO AL CIEL LE PRECI INUIO,
POICHE DA COMINCIAR L’OPRA, E ‘L DISEGNO,
COME LINEA DA PUNTO, HA’ L’HVOM DA DIO.

344. Proverbio VII.

23 Set

CADER NON PVO’, CHI HA LA VIRTV’ PER GVIDA.
Seguire la Virtù è su un mezzo rotto
Asse un incerto andare; né di scampo
Speranza avresti, al vento, al tuono, al lampo,
Se non ci fosse lei: cadresti a un botto.
    Compagna irrinunciabile, a dirotto
Piover dovesse, ed un minato campo
L’asse venisse di centun inciampo,
Se scivoli, la puoi buttar di sotto.
    Tanto, è alata. E negli attimi funesti
Che risultar potrebbero fatali,
Meglio lei che non te – tu m’intendesti.
     NON PAVENTAR DI PRECIPITIJ, O’ MALI,
SE PER TVA SCORTA LA UIRTV’ SCIEGLIESTI,
GIA’ A PRESERUAR LA TVA SALVTE HA’ L’ALI.

343. Proverbio VI.

23 Set

LA BOTTE DA’ DEL VINO, CH’ELL’HA’.
Pestando calze, straccj, catenaccj
Con uve del più infido tipo, e amaro,
S’ottiene un vino, tra lo scuro e il chiaro,
Rifiutato dai più fetenti spaccj.
    Chi di produrlo l’empia impresa abbraccj,
Avverta che da Chieri a Quarto Oggiaro,
Non se ne dà meno pregiato, o caro,
O che gli strappi il serto tra i vinaccj.
    Avverta che annusarlo solo è pena;
E’ pianto il valutarne il solo aspetto;
Morte mescerne. Avverta che avvelena.
    SVOL CONFORME A LA CAVSA ESSER L’EFFETTO;
NE’ D’INFETTO LIQVOR L’VRNA RIPIENA
VALE A SOMINISTRAR BALSAMO ELETTO.

342. Proverbio V.

23 Set

IL SAVIO FA’ DI NECESSITA’ VIRTV’.
L’orca vorace delle brame indenne
Lascia il sapiente, che le brame adegua
Del possibile a lui giusto alla stregua,
E al volo dei Vorrei tronca le penne;
    Decolla gli appetiti, e la bipenne
Cala sui piedi al fasto, a cui dilegua
Tanta parte d’erarj, acché non segua
A voluttà pianto di forze menne.
     Tanto dei suoi voleri egli è signore,
Che, dov’è forza, a tutto soprassiede,
Finché smette il respiro, e quieto muore.
     SAGGIO E’ COLVI, CH’OVE BISOGNO IL CHIEDE
SECONDAR DE LE STELLE IL RIO TENORE,
E LA FATAL NECESSITA’ SI UEDE.

341. Proverbio IV.

23 Set

L’ASINO, BENCHE’ TRISTO SIA, STIMVLATO ALLE VOLTE TIRA QVALCHE CALCIO.
Perverso uso più d’altri tra le genti
La morale misura e definisce
Sul fatto se reagisce o non reagisce
La vittima; se no, vai coi tormenti!
     Bòtte & dolori sono gli strumenti
Con cui l’uomo tiranno annichilisce
La volontà, la dignità ferisce,
Sforma es, rimodella subcoscienti.
     L’asino assai di rado d’ira acceso
Le poche volte che d’aceto prende,
Scalcia, e si fa offensore, ch’era offeso.
     E L’ABIETTO, & LHVMIL CHI UILIPENDE,
GIA’ SUPPOR NON SI DEE D’IRSENE ILLESO,
CH’A’ LE FORMICHE ANCOR L’IRA S’ACCENDE.

340. Capriccio VI.

23 Set

PER BELLISSIMO GIOVANE VESTITO DI CUOJO.
Mandi baleni al tuo passaggio, e ai tuoi
Lucidi movimenti, ai macellaj
Porgon la gola stalle, stie, pollaj,
E muojono d’amore i mattatoj.
    Sotto un’altra epidermide se vuoi
Nasconder quella naturale ch’hai,
E’ perché bene, e troppo bene, sai
Che ci sia sotto i freddi e cupi cuoj.
     Scie d’odore selvaggio lascj a lui
Che ti segue con gli occhj, e devanei
Ispiri grevi, e dai colori buj.
     Quella scia chissà dove seguirei;
Sicuramente fino al punto in cui
Di tre pelli tra noi, due ne farei.

339. Capriccio V.

23 Set

TOSSICO CHE URLA DA SOLO.
Mentre cammini per la strada, foga
Ti prende di gridare ai quattro venti
Non il tuo sì alla vita, o i tuoi tormenti,
Ma quel che dentro a te detta la droga.
    Mi fa rabbia, poiché quella s’arroga
Un’esclusiva che lunghi momenti
Avrei voluto propria ai miei talenti,
Come sul gobbo al giudice la toga.
    Quanto avrei dato, invece d’anni persi,
Per avere una delle tue giornate,
Di fuoco sacro, & impeti perversi!
    Quante libbre di sangue avrei donate
Per dar con pari slancio fuori i versi
All’émpito con cui spari cazzate!

338. Capriccio IV.

23 Set

BUCO.
Benché l’armamentario del poeta
Non lo comprenda, almeno normalmente,
Purtuttavia l’aver sempre presente
Anche questo, lo sai?, non mi si vieta.
    Se al tuo braccio è evidente, e ti decreta
& pubblica per quel che sei, l’ho in mente
Io, invece, e in me serbato è fatalmente
Porta d’estasi, no: pena segreta.
    Come vedi, in un buco volle un dio
Che avessero ricetto il mio / tuo vizio;
Solo hai il buco fatidico in te; il mio
    E’ in te non meno, & ambo è precipizio
L’uno in cui cadi, & l’altro quello in ch’io
Vorrei cadere, tua mercè, orifizio.

337. Capriccio III.

23 Set

LACCIO.
Porto il braccio da un vago crine avvolto,
Tu d’un laccio emostatico: fedele
Mi mostro al segno mio, ma di querele
Riempio il cielo, urla tu di gaudio hai sciolto.
    Tu ridi, io piango; io colpa d’un bel volto,
A causa tu d’un brutto braccio, e anele
Voglie ambo abbiamo: eppure in lamentele
Do solo, mentre ridere t’ascolto.
     Il tuo demone riempie di energie,
Di sprezzo del dolore, & è perfetta
Estasi, a differenza della mia.
     Tanto il trasporto dentro me difetta
Che gemo; tanto può in te bramosia,
Che alle volte ti fai co’ ‘na forchetta.

336. Capriccio II.

23 Set

SIRINGA.
Manda un’eco di morte lo strumento
Che impieghi a dar sollazzi alla tua vita;
Il mio, che una metafora m’invita
A chiamare ugualmente, non dà accento.
    Quello che impieghi fuor di sentimento
Ti manda, & hai la fonte inaridita
D’ogni affetto; di fiato a forza, & dita,
Tento sonare il mio; ma nulla sento.
    Tossico tu ti chiami, e t’avvelena
Certo il sangue sostanza spaventosa,
Che però canta quando ce l’hai in vena.
    La mia mania è una più leggiadra cosa,
Ma al canto non ha più fiato, né lena,
E m’addolora, perlopiù ritrosa.

335. Capriccio I.

23 Set

DI UN CONOSCENTE TOSSICO CHE FRASTORNAVA UN MIO TENTATIVO POETICO.
Mentre tento spillare da Ippocrene
Qualche verso non meno d’altri indegno,
Tu indefesso persegui il tuo disegno,
Facendo la rassegna delle vene.
Parli, cercando quella che conviene,
Non soltanto senz’ombra di ritegno,
Ma annichilendo a chiacchiere in me impegno
Che con silenzio e requie si sostiene.
Sicché di te già ambo la tasca ho piena,
E mentre in non poetica siringa
Versi il veleno, e versi quello in vena,
La vena a me, benché a mio modo io spinga,
Arida d’entusiasmi getta a pena,
Comech’estasi tua la mia respinga.

334. Notizia V.

22 Set

PRESIDIO SLOW FOOD. ARRIVA DAL KENIA LO YOGURT ALLA CENERE.
Lento a farsi, a gustarlo, nel colore
Pare il cibo in tal modo presidiato
Men che visibilmente stagionato
Non potersi mostrare al fruitore.
    Superbi i caglj fino a codest’ore
Fastosirono candidi; abbagliato
Rimase il buongustajo, & senza fiato,
Tanto vergine apparve il suo biancore.
    Ma adesso, sù dall’Africa retrica
Lentamente è introdotto un caglio bigio,
Ch’ha cenericcia tinta, & poco viva.
   Omologo alla vista, ai crismi ligio,
Armonizzando su quei deschi arriva
Dove ciò che men brilla ha più prestigio.

333. Notizia IV.

22 Set

BRITNEY SPEARS: LE SUE CARTE DI CREDITO SEQUESTRATE DAL PAPA’ (ACQUISTAVA CARTA IGIENICA VUITTON DA 1700 EURI).
Posta sotto tutela, ormai vaneggia
Da qualch’anno, e san molti quanto spesso
E’ nave che in balia del folle eccesso
Ora al largo, ora in sirti ahilei veleggia.
    Pure non tanto fuori di puleggia
Sembra costei, almeno non adesso,
Che tanto ha il vil denaro pretermesso
Che l’ha in quel posto donde si scorreggia.
    O forse è la memoria spaventosa
Che la rendita ingente le richiama
D’una carriera che ora par gloriosa;
    O quest’atto sta a modo di proclama
Di lei che, fatta saggia, ora sdegnosa
Vede in genere ormai ricchezza, & fama.

332. Notizia III.

22 Set

STEFANIA FERNANDEZ, MISS UNIVERSO 2009, TORNA A CASA, A CARACAS.
Brillato avendo in faccia al mondo intero,
La più bella del cosmo in patria torna;
Benché sia indifferente ove soggiorna,
Posto che quel suo titolo sia vero.
    Raggio unico così, nel mondo, e altèro,
Dovunque splenda, tutto il mondo aggiorna;
Inveduta bellezza tanto, e adorna,
Ben strano è se ha di dove sia pensiero.
    Ammenoché non abbia, nuovo Sole,
Omologa carriera; e, se s’inciela
Sulla Spagna, e ad Occaso tornar vuole
     Facendo alle sue Americhe ormai vela,
La vedrà, come l’astro a noi far suole,
Di minor raggio, & vecchia, il Venezuela.

331. Notizia II.

22 Set

LA BIRRA IRLANDESE, SCURA PASTOSA AMARA, PIACE DA 250 ANNI (GUINNESS).
Da artiera mano, i cui vecchj segreti
Nessuno ad oggi penetra & impara,
Nacque tale bevanda, oscura, amara,
Che in secoli ha i boccali fatti lieti.
Con genio il più fedele, benché vieti
Saper che cosa sia, ricetta avara,
Oscura & amareggia, amata e cara,
Da tanto i ventri, & scalda, & fa repleti.
Cosa ch’è adatta a tutti, ad ogni tasca,
Oscura, amara, di cui s’ha contezza
Ovunque, e che ciascuno nutra & pasca,
Non fa stupore ammanti segretezza:
Benché sia a tutti oscuro donde nasca,
Sempre ognuno inghiottì molta amarezza.

330. Notizia I.

22 Set

ROMAN ABRAMOVICH AVRA’ UNO SCUDO LASER CONTRO I PAPARAZZI.
Non è abbastanza, pare, il gran barbaglio
Dell’oro accumulato, a inganno & arte,
Per accecar le gazzettiere carte,
E a comprare a ogni bracco un buon guinzaglio.
    In pro all’ingegno l’oculato taglio
All’oro il lampo un po’ smorzando in parte,
Lampi a lampi indiscreti ora comparte,
Dando ombre al loro scrimitoso vaglio.
     Oh dell’oro parastica magia!
Con lampi figlia lampi, e lampi affonda
Con tanto lume in fonda tenebria.
     Par che l’oro così, quand’esso abbonda,
Respinga e attragga l’occhio che lo spia,
&, apparendo più, più si nasconda.

329. Proverbio III.

22 Set

AMOR NON VA SENZA GELOSIA.
Passione apprende di bellezza adorna
Come un incendio, che con mille lingue
Consumi più edificj, e non distingue
Tra stili architettonici; né storna
    Nulla dal divorare, & sempre torna
A rilambire muri, finché, pingue
Bottino fatto, ormai si smorza, estingue
– Così grazie ai pompieri; o a un par di corna.
    Ma come rischia sempre venir fioco,
E’ un fuoco che di freddo sempre freme;
Volendosi realtà, teme esser gioco.
    NON AMA UN COR, SE NE L’AMAR NON TEME,
NULLA UAL SENZA GEL D’AMORE IL FOCO,
CH’AMORE, E GELOSIA NACQUERO INSIEME.

328. Proverbio II.

22 Set

IL BVON AMICO NEL MAL SI CONOSCE.
Finché si passa il tempo in compagnia,
Tra canti e balli, evoè, giri di zozza,
Conversari alla buona, & alla rozza,
Senza che nulla in più implicato sia,
    E gli paghi da bere, in simpatia,
E gli presti la casa, e la carrozza,
E con lui scambj qualche donna sozza,
Sostanze psicoattive, & così via,
   Non sai per nulla quanto puoi contare
Sull’altro in altri casi; a ciò che dico
Presta orecchio, ah! non farti buggerare!
    S’ALTRI E’ RICCO DI FEDE, O PUR MENDICO,
L’OCCORRENZA A TE ‘L DICA, AH SOLO APPARE
FRA’ GL’INCERTI PERIGLJ IL CERTO AMICO.

327. Proverbio I.

22 Set

A CHI TI PUO’ TRARRE CIO’ CHE HAI, DAGLI CIO’, CHE TI CHIEDE.
Se sconosciuto con la spada in mano
T’affronta, oh vecchio debole, & sguarnito,
E minaccioso accenna con il dito
Al sacco d’oro ch’hai sotto il pastrano,
    Tu, nel considerare il disumano
Aspetto del brutale, empio bandito,
Il negargli ciò dond’egli ha appetito,
Di’ un poco a me, non ti parrebbe strano?
    Ché sarebbe in un attimo smentita
Qualunque idea di chiuder l’avventura
Tu con loro, & lui senza, & lì finita.
    CEDI A’ L’ASSALITOR L’ORO, E ASSICURA
PER TUO DANNO MINOR LA PROPRIA VITA,
E ‘L TUO VOLER CO ‘L SUO POTER MISURA.

326. Impresa XLI.

19 Set

ECLISSE SOLARE SPIEGATA DA POMPEO AL SUO ESERCITO. “RES ANIMOS INCOGNITA TVRBAT”.
S’oscura il Sole, e all’ultim’ora il mondo
Crede giunto, atterrendosi, il soldato;
Finché dal gran Pompeo non gli è spiegato
Quale ombra ignota celi l’ombra al fondo.
     E’ allora che, benché completo il tondo
Non si mostri dell’astro ancòra, armato
Nuovamente l’esercito arretrato
Marcia al suo fato, certo sia secondo.
    Roma in armi un arcano impenetrato
Fa scemare di forze, segno espresso
Ch’è l’abito che fonda un grande stato,
    Come ogni cosa; e ogni organismo è oppresso
Da pur fugace evento inaspettato:
Se non lo trova in lui, perde sé stesso.

325. Impresa XL.

19 Set

IL SOLE RISPLENDE PIU’ CHIARO DOPO CHE SI SONO APERTE LE NUBI. “POST NVBILA CLARIOR”.
Desiderato il Sole appare, cinto
Di cirri fino ad ora, & nubi spesse;
Chi l’invocò, che meno risplendesse
Prima d’esser coperto appar convinto.
    Il tenebrore ormai squarciato e vinto,
Felicità finora pretermesse
Si vede aperte in quella, e a lui concesse
In tutto, e il tutto innanzi a lui sospinto.
    Disassueto lo sguardo e il corpo al raggio,
Per lunga oscurità, va per contrasto
Promettente cogliendo un bel messaggio,
    Visto del Sole restaurato il fasto:
Bello è a lui pure il sopportato oltraggio
Che fino il premio a cogliere è rimasto.

324. Impresa XXXIX.

19 Set

SOLE ATTRAVERSO LE NUBI. “NITOR IN ADVERSVM”.
Forza è che il Sole, benché spesso attenti
Coltre di nubi al suo vivo nitore,
Parte scemando al tutto suo candore,
Raggj prolunghi nondimeno ardenti;
    E tra i vapori sozzi contendenti
Al ministerio suo, dispensatore
Sia di luce, di frutti, & di calore
Ai mondi senza lui freddi, & languenti.
     Forza è che l’ombra là dove più brilla
La luce, là più ostenda manti oscuri;
E se al gran fonte luminoso stilla
     Detrae talora d’atramenti impuri,
Non sottrae, con un raggio, una scintilla,
Nulla ai suoi beneficj imperituri.

323. Impresa XXXVIII.

19 Set

SOLE SEMINASCOSTO TRA LE NUBI; ROCCE CHE LE FRECCE NON SCALFISCONO. “IDEM SEMPER VBIQVE”.
Il Sole, che è del vero chiara insegna,
Si cela spesso dietro nubi oscure;
Ma solo in parte, e sulle rocce dure
Della fortezza i raggj suoi disegna.
    L’inimicizia invano i dardi impegna
Contro la roccia, invano le misure
Prende ai suoi lancj; monche spuntature
Restano infine della furia indegna.
    Dove chiaro non è, a chi ben l’addentri,
Questo groppo di frecce, rocce, sole,
Come stia insieme, cosa illustri, o c’entri.
    Ma in fondo è giusto che a chi fare vuole
Che fondo senso in un quadretto rientri,
Di fondo senso manchino parole.

322. Impresa XXXVII.

19 Set

ECLISSI LUNARE. “CENSVRAE PATET”.
Splende la Luna, a rimediar l’ammanco
Del Sole al mondo, e, benché sian minori,
Comparte a queste tenebre splendori,
Mostra nell’ombra nera il volto bianco.
    Se ad intervalli essa ritrae il fianco
Tra le tenebre stesse, e a noi di fuori
Non mostra usato il serto di pallori,
E’ a celare a periodi il volto stanco.
   Ma è quando questa terra s’è intromessa
Tra lei e il Sole che essa mostra, mesta,
La sua luce non propria, ma riflessa;
   Ché se larva non ha di cui si vesta,
Larva a vestir le è in raggio altrui concessa;
E, larvata, sé stessa manifesta.

321. Impresa XXXVI.

19 Set

TORRE CAMPANARIA, & CAMPANA ROTTA. “EX PVLSV NOSCITVR”.
Chiamata a richiamare con profonde
Note i fedeli a messa, e a partir l’ore,
La campana non serve più il pastore,
E, chiamata a chiamare, non risponde.
    Al batacchio oramai più non nasconde,
Suo svegliarino, e suo torturatore,
Come a troppo sollecito premuore
Richiamo volontà, che si confonde.
    Senza più tempo a sviluppare il callo,
Scontato ha insufficiente la sua lega,
Mentre serviva, il fragile metallo.
    D’ora con l’ozio mai più in santa bega,
Per servire inservibile, ecco in fallo
D’ozio chi si spezzò, e più non s’impiega.

320. Impresa XXXV.

19 Set

SOLE SPENTO IN MANO AL FILOSOFO. “LVMINE CARENS”.
Schiodato il Sole dalla propria sfera
Tanto è ridotto di misura (oh arcano)
Che può ad un uomo stare nella mano,
E in vista è, senza raggj, stella nera.
    Dubita il mondo che sia quella vera,
Dato il latore e il suo fosco gabbano;
Eppure è quel del cielo alto sovrano,
Eppure ha luce in sé non meno altèra.
    Poiché nel mondo il Sole ha tanti impaccj
A mostrarsi, ché al Sole ha il mondo invidia,
Non teme di ravvolgersi tra straccj,
    Smarrire il lume, d’apparente accidia
Preferendo risplendere tra i laccj,
Che spegnersi per colpa d’altrui insidia.

319. Impresa XXXIV.

19 Set

IL SOLE ALLO ZENIT NON PROJETTA ALCUN’OMBRA.
La virtù che ti splende dritta in testa
E’ uno zenit che ombra non projetta;
Ombra che ombra sopra te non getta,
E che i passi tuoi segua, ombra molesta.
    Nel meriggio perenne, mai non resta
Di splendere Virtù; la sua saetta
E’ il nadir dell’invidia, che rigetta,
Precipitando in tenebra funesta.
    L’ombra, che adombra altrui, di faccia ai lumi
Che ti dona virtù dall’ombra intatta,
Ti rende pari uno splendore ai numi
    Che a pro di sé l’ombra d’inferno han fatta:
Ché tanta maggior luce su te assumi
Quanto più d’ombra sé l’invidia imbratta.

318. Impresa XXXIII.

19 Set

SOLE AL TRAMONTO, CORONA E SCETTRO SU UNA TOMBA. “FVTVRVM INDICAT”.
E’ il tramonto sereno, e sulla terra
Manda raggj morenti il Sole in pace;
E’ in pace perché muore, e nel fugace
Ultimo istante al mondo non fa guerra.
    Non cinto serto, scettro che non serra
Più alcuno, su un sepolcro è la loquace
Impresa del silenzio in che al re piace
Chiudersi, ora che un sasso lo rinserra.
    Vuole tranquillità; non terra ambìta,
Ma debita; non terra sterminata,
Bastano sette palmi al fin di vita.
    Auspicio d’un’età non perturbata
Quieto tramonta il re; roseocrinita
L’alba annuncia il morir della giornata.

317. Impresa XXXII.

19 Set

SOLE AL TRAMONTO. “SVCCESSORE NOSCAR”.
Guardando al Sole, benché in mare rosso
Si corichi, e ne tragga auspicj gaj,
Certo tu del domani non sarai,
Dirti che tempo ci sarà non posso.
    Così trarre alla tomba con commosso
Ciglio il volgo contempla lui che mai
Fu men che padre a sé, né scorge i guaj
Che sorgon già dal muto & freddo fosso.
    Così in tempi lontani, nel suo affanno,
Apprese che sperare un buon signore
Dopo uno buono è molto spesso inganno;
    E inoltre, ad auspicare eterne l’ore,
Di pena a lui benché, d’aspro tiranno,
Ché sempre a un empio segue uno peggiore.

316. Impresa XXXI.

19 Set

SOLE COPERTO. “SVCCESSORE NOSCAR”.
Dal rispuntar del Sole dietro il velo
Delle nubi si sa serbar splendore:
Quando il Sole del Sole è successore
Nel trono che gl’innalza l’alto cielo.
    Seme in terra non è, né chiuso stelo
Di cui dire si possa con rigore
Che cosa sia; mal si conosce il fiore
Che schiuda solitario dopo il gelo.
    Così il Principe iniquo, che del regno
Fu flagello e non padre, e un nome ha avuto
Di tiranno, crudele, aspro & indegno,
    Si prega che non muoja, ché veduto
S’è sempre, per chissà quale disegno,
Che ad un pravo un peggiore è succeduto.

315. Impresa XXX.

19 Set

SOLE NASCENTE. “OMNIBVS EXORIOR”.
Non solamente i flutti tu ubriachi
Dei mari, che han virtù di rispecchiarti,
Né i fiori illustri, né i frutti dell’arti,
Ma splendi pure per i corpi opachi.
    Prima che sete, splendi a smorti bachi;
Prima che d’oro, ai campi vuoi mostrarti,
E spieghi in tutte le incolori parti
Quei colori di cui nessuno vachi.
    Dei volumi che oppongono ostinati
Parte al tuo volto, illustri compiacente
Solo quella, e al restante lascj ombrati.
    Generoso, l’erario rifulgente
Apri agli astri di luce deprivati,
Largo di te, & te stesso rifrangente.

314. Impresa XXIX.

19 Set

IL SOLE CHE SORGE E LA MONETA NELL’ACQUA SPLENDONO MAGGIORMENTE. “JVSTO MAIORA VIDENTVR”.
Sorge il Sole, e di splendere promette
Più che sapranno, in fatto, i suoi meriggj;
Se l’occhio alla moneta in mano figgi
Meno lampi che immersa in acqua emette.
Tu oratore fecondo, arti civette
Presti al detto: commuovi, ardi, trafiggi,
Saetti, esorti, tassi; & aria friggi,
Col fucato, con tropi, con bellette.
Tu che sfoggj, ai tuoi solimati infesti
Affidi una bellezza amplificata,
Dama meschina nelle gonfie vesti;
Mentre giace negletta e trambasciata
La verità negandosi agli incesti
Con l’immagine propria deformata.

313. Impresa XXVIII.

19 Set

SOLE INDICATO DA UN VECCHIO; & GIOVANE COPPIA. “SOL ANIMI, VIRTVS”.
Finché verdeggia alle corvine tempie
L’età fiorita, e pieno di baldanza
Al meccanismo umano ancòra avanza
Josa di forze, non ancòra scempie,
   Scalda l’anima solo, e solo riempie,
Il capriccioso amore, e con l’amanza
O il drudo dilettarsi in qualche danza,
O in altre attività poco men ch’empie.
    Tutto è perduto, se le sue nequizie
Ha consumato il tempio, e se ne duole
Il capo sparso d’algida canizie.
    Perciò  presso una Coppia, la qual vuole
Programmarsi un periodo di delizie,
Spesso c’è un Vecchio, che fa i corni al sole.

311. Impresa XXVI.

19 Set

IL SOLE ILLUMINA LA TERRA, MENTRE NEL LATO IN OMBRA DI ESSO ESCONO GLI UCCELLI NOTTURNI. “EXCAECAT CANDOR”.
Splende la verità, così corrusca
Che la vista non regge, e si denega;
E a rimirarla diaframmi impiega
Che, filtrando, la mostrino men brusca.
   Così che il vero, chi del vero è in busca,
Sa solo quando il vero un’ampia allega
Parte col vero in dichiarata bega,
Che il vero lume sminuendo offusca.
    La pura verità al vero non serve;
L’uomo alla verità più s’avvicina
Dove il suo raggio molto meno ferve.
    Dopo che cala il corso il Sole, e inclina,
Tra l’ombre sorte è, ormai, dalle Minerve
Che il giorno si ripensa, & si divina.

310. Impresa XXV.

19 Set

SOLE SUL GLOBO TERRESTRE. “RADIIS TAMEN OMNIA LVSTRAT”.
Per quanto grande e maestoso il Sole
Splenda nel cielo, e dei suoi raggj investa
Il mondo, sempre, pure, in parte resta
In ombra – ciò che Notte chiamar suole.
   Dell’Impero più d’altri ampio parole
Vane spesero, e più di tutte questa:
Che ignorava la notte – la funesta
Notte che cerca quel che il dì non vuole.
   Mentre a ogni giorno furono interrotte,
Per secoli, le date ore di luce,
Dalla ribelle & inveduta notte.
   Come per essa il dì, così si scuce
Il tessuto agl’imperi, a intrighi, a lotte,
E tutto a giorno e notte si riduce.

309. Impresa XXIV.

17 Set

SOLE, & MONARCA INTRONIZZATO.
Mostra il Sole di dio l’opera grande
Mentre del cielo solo autocratore
Dei mondi vita, & anima, & motore,
Benigno i raggj suoi dovunque spande.
    In terra le sue veci venerande
Tiene il monarca, od unico signore,
Del mondo erario, imposta & esattore,
Che ha per sé i beni in copia la più grande.
    Della feudale età ecco ben construtto
Contraposito in pratica perfetto:
L’un dà la vita, & l’altro prende, al Tutto;
    Questi ha per sé la causa, e quel l’effetto;
Va all’uno la radice, all’altro il frutto;
L’uno eterno, a sparir l’altro fu astretto.

308. Impresa XXIII.

17 Set

IL SOLE E LA PAROLA DI DIO, RIVOLTA AD UN UOMO CHE HA LA TESTA PIANTATA AL CONTRARIO SULLE SPALLE. “QVID, TVNE VENIRE RECVSAS?”.
Credi che volto con il volto al Sole,
L’uomo, che a noi dà il tergo, guardi dio
Che dice: “Oh Uomo; tu sei parto mio”,
E che quel detto egl’ignorar non vuole.
   Ma volte le santissime parole
Sono ad un che non tende, invece, pio
Occhio al verbo, e non tanto perché rio,
Ma in quanto fatto in modo che non suole.
   Ha il capo inverso, e, per guardare avanti,
Guarda: a lui, se si mostra tanto mulo,
Chi infidi sensi imputerà, & peccanti?
   Anzi: modo – ingegnoso! e non l’adulo –
Ha di schivar di dio i detti seccanti,
E, al tempo stesso, di pararsi il culo.

307. Impresa XXII.

16 Set

https://i0.wp.com/www.fondiantichi.unimo.it/fa/emblem01/saavedra/010.jpg
FALCONE CHE SI LIBERA DAI LACCJ. “FAMA NOCET”.
Finalmente il falcone il duro laccio
Toglie alle granfe, in moto desultorio,
Sé stesso dal servigio venatorio,
La libertà dal suo crudele impaccio.
Rivola, franco dal tiranno braccio,
Racquista della selva il comprensorio,
E le dice, sua tana e romitorio,
La lunga prigionia, e quel cappucciaccio.
Tale ha virtù la lingua dei falconi
Nel raccontare la scampata sorte
Che ne sorge pietà in bronchi e burroni;
Ché se il tiranno lì, per strade torte,
Giungesse, attorcerebbero i fittoni
Le piante, a imprigionarlo, & dargli morte.

306. Impresa XXI.

16 Set

CANI SI CONTENDONO LA MAZZA D’ERCOLE. “SIBIMET INVIDIA VINDEX”.
Negletta ormai, cosa indifesa, ai vani
Sforzi rabbiosi a che vada distrutta,
Mostra la mazza d’Ercole esser tutta
Degna di chi l’usò l’ira dei cani.
Come fu invitto quello, essa agl’insani
Morsi non solo regge, ma si brutta
Del sangue che mordendo spiccia e butta
Chi credendo sbranare cade a brani.
Così l’invidia sempremai si vide,
Sfuriando, cader vittima a una furia
Che ha il dardo volto in sé, e al nemico arride;
Come a lui in mano, pure nell’incuria
Lacera deturpata, offesa uccide,
Giudice & ostia d’invidiosa ingiuria.

305. Impresa XX.

16 Set

https://i0.wp.com/www.fondiantichi.unimo.it/FA/emblem01/saavedra/008.jpg
UNICORNO. “PRAE OCULIS IRA”.
Selvaggio, l’Unicorno ha per natura
Scarsa dimestichezza con gli umani;
Salvo per le fanciulle, alle cui mani
S’affida, partenofila creatura.
E’ così che, sovente, si cattura.
Ma s’è detto com’è che siano urbani
Alle vergini, resta tra i più strani
Misteri questa cosa, ad oggi oscura:
Com’è che una fanciulla ancòra intatta
Abbia di catturarne questa mira.
Ammenoché non sia costei attratta
Da quel per cui dì & notte arde & sospira;
Almeno fino a che sia soddisfatta,
E al vagheggiar succeda affanno, & ira.

304. Impresa XIX.

16 Set

https://i0.wp.com/www.fondiantichi.unimo.it/fa/emblem01/saavedra/007.jpg
CANNOCCHIALE. “AVGET & MINVIT”.
Vedi come l’identico strumento,
Secondo indichi far la mente umana,
Renda nel tempo stesso opera vana
Quel che all’inverso porta a compimento.
Chi lo punta a ingrandire il firmamento
Nel contempo la terra s’allontana;
Ma la stessa ai suoi occhj erge titana
Se inverte il senso; & l’etra scorge a stento.
Nel cannocchiale indubbiamente apprezzo
Come sia in chi l’impiega l’intenzione
Che al mezzo corre, e non in sé nel mezzo;
Intenzione che nutro con ragione,
Purché con mano esperta e senno avvezzo
Conosca d’esso mezzo la funzione.

303. Impresa XVIII.

16 Set

GIGLJ IN CIRCOLO INTORNO AD UN MUCCHIO DI GRANO. “POLITIORIBUS ORNANTUR LITTERAE”.
Di splendori incorona il necessario
La bellezza istruita, e quello adorna;
Separata benché, presso soggiorna;
Gli è vicino, per quanto con divario.
    Come epigrafe dotta su un ossario,
Cela sfaceli, e, se non lo frastorna,
Strappa al tempo, che umilia a vezzi, & scorna,
Dècadi oltre l’estremo anniversario.
   S’è coltivata sola, intirizzita
Gela nel primo verde, e mai non sverna,
Cosa sacra all’oblio, & intisichita;
   Ma se all’indispensabile s’alterna,
Più d’esso ha lunga, & onorata vita;
Ed anzi ad esso dà la vita eterna.

302. Impresa XVII.

16 Set

https://i0.wp.com/www.fondiantichi.unimo.it/fa/emblem01/saavedra/005.jpg
CITTA’ IDEALE DI FORMA PENTAGONALE. “DELEITANDO ENSENA”. (SULLE FATICHE DELL’APPRENDIMENTO).
Le lettere hanno amara la radice
Quanto hanno dolce, vegetando, il frutto;
Molto è di pena all’uomo, ma, tra tutto,
Più lo studio sa renderlo infelice.
Come uno spazio incolto, a cui s’addice
Incomodo e fastidio,  fa al postutto
Lieti, se d’edifizio ben costrutto
L’adorna e illustra mano architettrice.
A lenire la nausea ed i tormenti
Si ponga tutto in opera dei gravi
Tanto al principio, & lunghi apprendimenti;
Prefigurarne i fini, più soavi
Frutti anticipa ai soli attecchimenti,
Di venture città dona le chiavi.

301. Programma.

16 Set

A me il blog m’ha stufato; non da oggi, chiaramente, ma oggi è il giorno giusto per dirlo. Così ho deciso di darmi tempi, in modo da concludere in tempi non lunghi il mio rapporto – sdrucito e discontinuo, ma dalla durata complessiva abbastanza impressionante – con la rete. Dal momento che il blog, finora, doveva servirmi [e non sempre c’è riuscito] per levarmi alcune soddisfazioni di minor conto, tutte relative alla scrittura, del tutto indipendentemente dal fatto che ci fosse qualcuno a léggere, e da chi fosse nello specifico, è del tutto conseguente che non sarei andato avanti per sempre.

Anche perché in sé il blog non è una cosa che mi serva: non è un lavoro, in primis, secundum non sono per nulla propenso a servirmi di questa superficie a scopo rapporti umani.

Il blog in questi giorni dovrebbe essere riflesso, puro e semplice, di un ultimo esperimento; consistente nel dar fondo alle letture, e alle scritture, che ancòra sento di avere in sospeso. Chiaramente non riuscirò a fare tutto, ci mancherebbe; ma mi aspetto di dare (a chi non so, e poi non ha importanza – a nessuno, o a me, che poi è la stessa cosa) uno specimen di quello che sarebbe dovuto essere se la mia fosse stata una vita degna di questo nome, e non il triste obbrobrio che è.

Una vita mancata implica anche una scrittura mancata; questo chi viene a leggermi lo sa già, e non c’è bisogno di nessuna spiegazione. Ma come non ci si può ridurre a mera esistenza vegetativa, senza nessuna attività sentimentale, così non è possibile, per chi ha avuto inclinazione per la scrittura, e ha avuto modo di coltivarla – del tutto privatamente – per lo spazio di tanti anni, eliminarla completamente dai proprj orizzonti da un momento all’altro. Ci vuole uno sforzo mirato.

Mi ero detto, in prima battuta, che mi sarei dato tempo fino alla fine di settembre, ma a parte il fatto che manca anche abbastanza poco, dopo la fine di questo esperimento non è che mi rimarrebbe chissà che da fare: dunque ho optato per la fine di ottobre. Per quanto riguarda questo mese intendo arrivare fino al post n° 1000, tanto per cominciare; sapendo che altrimenti non mi sarebbe possibile, pòsto questi sonetti, che fanno massa e mi richiedono comparativamente poco tempo – questo è il motivo per cui c’è stata questa relativa inflazione di post, nei giorni scorsi. 

Dopodiché, entro la fine di ottobre, volevo concludere tutti i discorsi iniziati, e mantenermi – e questa è la cosa più interessante – disponibile a tutte le scritture che incrocio, soprattutto casualmente, tramite i soliti ritrovamenti; e a quelle che avrei già dovuto conoscere, e a cui non mi sono mai dedicato dal momento che altre cose, esistenzialisticamente,  hanno avuto peso per me, e quelle cose non sono compatibili con la letteratura. Dal momento che è ormai tempo di affrontarle, queste cose, la scelta è praticamente cosa fatta. Tutto qui; & procedo.

300. Impresa XVI.

16 Set

CANNONE REGOLATO CON LA SQUADRA. “NON SOLVM ARMIS”.
Vero è che spesso il frutto della scienza,
In ciò danno agli scopi del comando,
Spesso è la decisione porre in bando,
Sempre è ai pensieri togliere evidenza.
   Vero è  pur che di Marte alla presenza
L’intelletto i suoi dubbj seminando
Spesso alla toga fa inclinare il brando,
Ogni forza tassando di violenza.
   Ma benché sempremai Bellona abborra
L’erudita Minerva, e la disprezzi,
Non è ch’essa ai suoi lumi non ricorra,
   Sofisticando i proprj infausti mezzi;
Né faccia pace, e l’altra ambo soccorra,
Se la guerra la loro pace spezzi.

299. Impresa XV.

16 Set

IL CORALLO NEL MARE. “ROBUR & DECVS”.
La terra rose, e dà coralli il mare,
Cui non riserva morbido terreno,
Però, ma il fondo del suo inquieto seno,
Dirupi in cui mai raggio non traspare.
Tolta alla zolla, alle giornate chiare,
La rosa si scolora, e viene meno;
Spiccato ai rami suoi, il corallo ameno
Serba colore, e non sa putrefare.
Rosseggia sempre uguale, ed ha rocciosa
Tempra, & di fiore forme e tegumenti:
Fragile no, ma bella & vaga cosa,
Nata dal fimo, e in mezzo ai patimenti:
E in lui, se sterco nutrica la rosa,
Fan da rose, fiorendo, gli escrementi.

298. Impresa XIV.

16 Set

TELA BIANCA, & PENNELLI. “AD OMNIA”.
Forse dirai che nulla rappresenta
La tela esposta, e agli occhj tuoi procura
Immagine del nulla la figura
D’un bianco quadro, e nulla a te argomenti.
   Ma pennelli e colori ti presenta,
Pure, e ti dà così chiara misura
Come, mostrando, a te nulla pittura,
Ogni pittura suggerirti tenta.
   Come il bianco è la somma dei colori,
Ogni figura è in quella tela bianca
Che alcuna linea mostra a noi di fuori.
   Più d’un quadro che i nostri sguardi stanca
Più d’altri ricco e divite lavori,
Quadro cui tutto manca, nulla manca.

297. Impresa XIII.

16 Set

ERCOLE STROZZA I SERPENTI NELLA CULLA. “HINC LABOR & VIRTUS”.
Fischiano le anfisbene, fauci aprendo
Contro indifesi e pur mo nati parti;
Prima che nate sian di guerra le arti
Va già la morte i suoi trofei cogliendo.
   La vita andrà difese sue opponendo
Dunque efficaci le armi nel formarti
Quando in scuole di campi ancòra i Marti
Delle armi l’uso non ti vanno aprendo.
   Le sole nude mani ecco che a prezzo
Di vita altrui Ercole impiega, il fine
Arma essendogli prima d’aver mezzo.
   Morte ha in virtù e in opera un confine,
Ché l’opera non resti tronca a mezzo,
Ché non nata virtù non volga al fine.

296. Impresa XII.

12 Set

SOLE CHE SI SPECCHIA NELL’ACQUA. “MONSTRATVR IN VNDIS”.
Il motore grandioso del creato
Chiunque cerchi le sue cause prime
Col suo fulgore, nel negarsi, opprime,
Né in via diretta mai s’è a noi svelato.
Come il Sole; che tuttavia è specchiato
Dal mare, nel cui volto il volto esprime
Incoronato dalle giube opime,
A pro’ dei dotti esatto duplicato.
Ma chi volge all’immagine indiretta
Lo sguardo, incontrerà anche minor raggio,
Ma che non meno gli occhî arde e saetta.
(Dove si vede quanto poco saggio
Fu l’artiere, e l’impresa sia imperfetta,
Che intender fa il contrario del messaggio).

295. Impresa XI.

12 Set

SOLE CON IHS INSCRITTO. “COL SVO LUME SEMEDESMO CELA”.
Irradiando fulgori, agli occhî rende
Chiare le cose il Sole, & manifesta;
Ma quella stessa luce arde funesta
L’occhio che in essa figgersi pretende.
Ma per diaframmi chi mirarlo intende,
Scopre macchie alla sua fulgente vesta,
Menda al suo raggio non pertanto infesta,
E che al barbaglio in alcunché contende.
Qui vedi un Sole che ha tanto più spesse
Note nel volto suo, che a noi rivela
Ogni menda, a formare I – H – S.
Se il Sole al raggio semedesmo cela
Quando gli siano tali macchie immesse
Privo di raggio sé medesmo svela.

294. Impresa X.

12 Set

SOLE & DIO.
 
Entro valli e in città, declivî e piani
Spesso appicca il grand’Astro i suoi comburî,
Poiché non solo langue tra gli Arturi,
Ma latra anche ardentissimo tra i Cani.
 
Più Soli in cielo, oltrech’ad esser vani
A scaldare la terra ai dì più duri,
Sarebbero un’esizie ai morituri
Viventi, piante, bestie, esseri umani.
 
Così più Dèi preposti a noi mortali
Vorrebber dire più scomodi eventi:
Più cristi, più peccati originali,
 
E centinaja di comandamenti;
Più vangeli, e diluvî universali;
Più inferni; & relativi patimenti.

293. Impresa IX.

12 Set

IL GLOBO DEL MONDO NELLA MANO DI DIO. “FATO PRVDENTIA MAIOR”.
Tendi lo sguardo invano nel profondo
Bujo dei dì futuri; ché, per quanto
Vada lontano, non potrà pertanto
Oltrepassare i limiti del mondo.
Chi n’è più grande, e ne sostiene il pondo
Ne vede intero il multiforme manto,
Cause di gaudio, fomiti di pianto,
Fato avverso, impassibile o secondo.
Parte d’un gioco il cui finale è ignoto,
L’uomo delle inconsulte e pena e gioja
Investigar le fonti tenta a vuoto;
Mentre osserva lassù, quel vecchio boja,
Con quella palla in mano, assorto, immoto,
Forse in attesa di crepar di noja.

292. Impresa VIII.

12 Set

SFERE CELESTI CON LO ZODIACO DEI SETTE PIANETI. “DVLCIA CVM AMARIS”.
Sempre da sette sfere i sette astri
Sul mondo di quaggiù piovono influssi;
Lo stesso astro indigenza all’uno, e lussi
Concede all’altro, lì agî, e lì disastri;
Abbassa così scettri, alza vincastri,
E beni e mali di quaggiù inescussi
Ma si mostrano a me: da ciò dedussi
Inestricati i mali e i beni a incastri.
Astri in ciò solo equi, e solo certi:
Che in essi mai maggiore avrà abbondanza
Di bene o male, d’ubertà o sconcerti;
Sono armoniche sfere, alla cui danza
Sempre uguali risonano i concerti,
Sempre varia hanno in sé la dissonanza.

291. Impresa VII.

12 Set

I PUNTI E LA LINEA. “SIC EX INSTANTIBVS, AETERNITAS”.
Vedi qui due figure compartite,
Una ch’è una, e l’altra che è ben molte,
Simili l’una all’altra, e, insieme accolte,
Ognuna a modo suo, ambo infinite.
Ma una l’una appare; indefinite
Parti di nulla, giustapposte e sciolte,
Formano l’altra – eppure in filze folte
Formano un uno, benché disunite.
L’eternità è siffatta: interminato
Che tomba non avrà, cui mancò culla
Tempo da infinità d’istanti dato;
Tutto, d’età non vecchia e non fanciulla,
Se è in sé (concetto no) considerato;
Se nelle parti sue, del tutto un nulla.

290. Impresa VI.

12 Set

DUE SFERE IN CONTATTO PER UN PUNTO. “AMICITIA ABSQVE VIRTVTE”.
Per quanto presso stiano, due sfere
Mai tanto più contatto avran raggiunto
Che passi quello d’uno, & d’un sol punto,
Cogl’infiniti che si sanno avere.
Rotolandole, non si può ottenere
Mai al contatto che alcunché sia aggiunto;
Son del pari fondate, giustappunto,
S’un punto le amicizie non sincere.
Pare una, ed è nessuna comunione
D’ente che com’è detto non s’incocca,
Senza spessore, e ad una dimensione.
Senza Virtù, Amicizia è sol di bocca:
Che sarà, se dipende da tazione,
E intangibile è l’ente, qui, che tocca?

289. Impresa V.

12 Set

CUBO. “SAPIENTIS ANIMVS”.
L’animo del sapiente è assimilato
A questo cubo, che, com’è evidente,
Mano non ha su beni protendente,
Capo non ha dal vano fuorviato;
Dente non ha contr’altri avvelenato,
Occhio non ha sui mali altrui inspiciente,
Petto non ha gradasso, epa gaudente,
Gambe che a liti abbiano mai portato;
Temperato, sennato, compassato,
Dei cinque sensi alla gran guerra vedi
Com’egli forte opponga cinque e un lato;
Membra non mostra; eppure (a me lo credi),
Comunque vòlto sia, mosso o posato,
Mai non vacilla, e resta sempre in piedi.

288. Impresa IV.

12 Set

Pictura of Bèze, Théodore de: Icones (1580):  Stare cubum in tereti cernis quicu

CERCHIO CON CUBO INSCRITTO.
L’immagine del cerchio che fuggita
Eterna rappresenta, e inscritto il cubo
È un istruttivo enigma, e se lo glubo
L’immagine mi dà di questa vita.
Se il cerchio è il mondo, è carcere, e scalfita
Mai l’hanno o lima, o piè di porco, o tubo;
L’immagine di me all’inscritto rubo,
Che ne parte soltanto in dipartita.
Lubrico è il cerchio, e il cubo in lui compreso
Mostra che il mondo sfugge a chi sta in esso,
E chi afferrarlo vuole, è lui ch’è preso;
Sfugge rinchiuso in sé, né ha mai concesso
Vie di fuga a chi in lui pur molto ha atteso,
Né ha fatto intravedere, o ha mai concesso.

287. Impresa III.

12 Set

CERCHIO CON PUNTO INSCRITTO E RIPARTIZIONE IN QUATTRO SPICCHJ.
Cercavi il punto, ed eccoti raggiunto
Lo scopo primo: in cui traccia sicura
Trovi, epperò esteriore alla figura,
Punto vero, e del cerchio nessun punto.
Punto che non mancava, eccoti aggiunto
Il punto necessario; ov’è, esso dura,
E non sfugge, e fornisce la misura
Di quello che non è, lì stando, appunto.
Aggiuntosi, sformò la più perfetta
Forma ch’è data, e fu lì crocifisso,
Poich’al reo sempre giusta pena spetta;
Ed esso in quattro parti quella ha scisso
Unica forma, avendo per vendetta
Disunire l’unito a sé prefisso.

286. Impresa II.

12 Set

Pictura of Bèze, Théodore de: Icones (1580):  Principium in tereti quaeris quicu

CERCHIO.
Cerchi nel cerchio il primo punto, e in vizî
Di curve tutt’i punti suoi t’avvolgono;
Cerchi il punto in cui i giri suoi si sciolgono,
Ma, ovunque sia, riscivoli agl’inizî.
Tutt’i punti d’appoggio in precipizî
Curvilinei ricadono, e rivolgono,
E la vista via via da sé distolgono
Tutti i punti, all’idea veri cilizî:
Punti che, se torturano, non pungono,
Ma fitti uno per un si giustappongono,
Cui punti vieppiù piccoli s’aggiungono.
Di tanti nulla che si sovrappongono
Stupisce noi il veder com’essi giungono
Tutto il cerchio a formare, che compongono.

285. Impresa I.

12 Set

https://i0.wp.com/ridingwestward.com/english/images_sessions/confusio.gif

CHAOS. “SINE IVSTITIA, CONFVSIO”.
Cerchi il cielo, e ritrovi, invece, terra;
Cerchi il mare, e ritrovi, invece, il sole;
Cerchi luce, e apparirti essa non vuole,
Ché la tenebra fonda in sé la serra.
Ogni ente il suo contrario bacia, afferra;
Ogni parvenza, ogni sostanza o mole
Rivelarsi per sé pura non suole,
Mista con ciò che più le muove guerra.
Il cosmo in caos ignaro di divario
Tra opposti attende alla separazione
Del dissidio il momento necessario;
Pure, nel seno della confusione,
Sopra, sotto, atro, chiaro, pio e nefario
Nascono da contatto, e da attrizione.

284. Commenti.

9 Set

Eccomi qui, in ritardo come al solito.

Come avevo annunciato, intendevo riprendere daccapo tutta la questione di jeri, che è andata a finire come sa chi è venuto a léggere su Nazione Indiana il post che Domenico Pinto mi aveva chiesto di ripubblicare dopo che l’avevo messo qui sul blog. Dopo lo scivolone iniziale di Dario Borso, che è veramente tutt’altro discorso, è comparsa una tal GiorgiaSanto, non so se questo nick equivalga al suo nome, la quale, rimanendo tutto il giorno attaccata alla rete, non ha fatto altro che defecare, ostinatamente, presuntuosamente, astiosamente, una serie di affermazioni negative a proposito del sottoscritto; ed è stata coadiuvata, un pajo di volte, da una (ancòra più livida) flaviadebono, che ha aggiunto accuse le più assurde; finché, dopo una risposta dall’administrator stesso definita ‘aspra’, la mia, le due avrebbero ribaltato addosso al sottoscritto e a NI contumelie parecchio sordide, motivo per cui è stata loro chiusa la porta in faccia. Lo stile della GiorgiaSanto, dell’altra non parliamone, non fa nemmeno lontanamente sospettare che possa essere ‘del ramo’. Ha parlato, in termini del tutto astratti di pubblicazione, essere nel gioco, mettersi in discussione e non so che cos’altro, ma al fondo è evidente che non è nulla di nulla – potrebbe essere, oh tempora, tutt’al più una professoressa delle medie, date le citazioni leggiucchiate all’ultimo dall’Ape latina e certi pietosi riferimenti danteschi – alcor, poveretta, che l’ignara mentecatta ignora chi sia, e quanto e che cosa abbia, lei sì, pubblicato, s’è sentita dire “tu segui il duca tuo”, laddove il duca sarei io, oltreché della ’scherana’. Ne sono spiacente per alcor, meritevole di altro trattamento.

Un trattamento pessimo meriterebbe invece questa Santo, va da sé. Ma andiamo con ordine.

Dario Borso, col quale mi sbrigo sùbito, non essendo della partita delle Santo e delle Diobono, è stato il primo a commentare, sotto il nome “Dario Boffo”, dicendo una cosa in sé lecita, ma almeno a me non molto chiara:

“Se si parla, e talora càpita, di scrittura, l’interlocutore mi dice con qualche ambage, ma non tante da offuscare la sostanza del discorso, che comunque scrivo di merda” – ecco, se il talora è ora, sottoscrivo.

Lecitissimo dire che scrivo di merda, ci mancherebbe, anzi: me lo sono detto praticamente da solo va da sé che la cosa non mi preoccupa minimamente. Quello che non capisco è come mai proprio questa frase sia più di merda delle altre – mi ha spiegato poi, Dario Borso, che era solo questa frase in particolare a non convincerlo, diciamo – insomma, a parergli una merda. Io non so in che cosa tutte le altre (frasi, del testo) sarebbero migliori. E’ la parola ‘ambage’ che crea difficoltà?

Ma con Dario Borso la cosa è praticamente finita qui.

Alle 10.42 è apparsa per la prima volta questa GiorgiaSanto, che nessuno ha mai sentito nominare, su NazioneIndiana, la quale dimostra di aver letto alcune cose dal mio blog:

Mi ricordo della recensione a Giuditta Russo. Ramanzini c’era andato piuttosto pesante (o leggero, a seconda delle opinioni personali). La cosa che un po’ mi infastidisce è la sua tendenza a tirare palate di m…a su vari autori (ad esempio Moresco) senza aver dato prova di qualcosa. Insomma qualche pezzetto su un blog non dimostra proprio un tubo delle eventuali capacità di Ramanzini. I critici sanguinari (sono zanzare diceva qualcuno) e duri possono andare bene, a me divertono, ma dovrebbero avere l’accortezza di aver dato prova di quanto siano capaci LORO, altrimenti sembrano quei bambini arrabbiati con il mondo perchè si sentono esclusi. Non è una cosa personale contro Ramanzini, provo in generale un fastidio verso questo genere di critici “vergini”. Forse sarò andata OT ma il resto dello scritto non mi ha suscitato particolare interesse -en passant, Rarmanzini ha scritto di meglio e meglio, almeno sul blog-

Tutto questo, in apparenza, è perfettamente innocente: l’idea che la SantoGiorgia si è fatta di me certamente non è positiva (ma a me non me frega niente), e quello che sostiene in materia di quello che, però molto stupidamente, chiama ‘critici vergini’ poteva anche starci – ma NON su un blog collettivo, dove la gran parte delle persone di cui si mettono in pubblico cose non ha quasi mai o mai pubblicato su carta un bel niente! Mi stupisco, anzi, che la Santo non sia stata messa al corrente del posto in cui si trovava. Che le chiedesse: Che ci fai, qui, se: 1. quello che ha scritto Ramanzini non t’interessa; 2. se i critici vergini, come goffamente li definisci tu, non ti piacciono? A parte quel mettere le cose in termini di “fastidio” personale, naturalmente: un commento non è un brano autobiografico, si suppone dovrebbe aggiungere qualcosa alla discussione – l’autobiografismo, poi, sarebbe da evitare a maggior ragione inquantoché io non conosco questa GiorgiaSanto, e nemmeno sua madre e sua sorella; inquantoché il suo autobiografismo, se proprio non poteva farne a meno, non si accompagna ad uno stile proprio indimenticabile (su NI si cercherebbe di scrivere, si suppone); inquantoché, insomma & in definitiva, a noi dei fastidj della SantoGiorgia non ce ne potrebbe fottere di meno. Quanto al merito di quello che d’imperdonabile avrebbe fatto Ramanzini c’è quella che lei definisce una ‘critica’ a Moresco, che poi non è una critica, ma una semplice scheda di lettura, anzi di non-lettura, dal momento che il libro, come peraltro ho detto, non mi sono sentito proprio di terminarlo. Mio diritto non terminarlo; mio diritto dirlo, nei termini che ritengo opportuni. Non mi risulta che l’autrice dei Canti del caos sia poi la SantoGiorgia; avrei capìto che se fossi stato un critico, innanzitutto, e anche un bel po’ autorevole, di fronte ad una lettura del genere Moresco si sarebbe un bel po’ incazzato. Ma Moresco non ha mai letto Ramanzini, Ramanzini non ha mai finito di léggere Moresco, e soprattutto quella di Ramanzini non è una critica. E’ il post su un blog. A proposito di verginità, sarebbe anzi molto carino che la GiorgiaSanto, magari con la Diobonino, se n’andasse a farsi, di tanto in tanto, un giro in rete; per blog, magari; a vedere quante migliaja, e decine di migliaja di persone, senza pubblicazioni alle spalle, senza carriere sfolgoranti in corso, magari senza nemmeno la laurea o un miserando diploma, tutti i giorni ribaltano in rete megatoni di pareri su questo o quel film, e su questo o quel libro, e su questa o quella mostra. Se il problema di GiorgiaSanto è quello di non aver capìto che la rete è libera, e che la libertà consiste nell’esprimersi come si ritiene giusto & opportuno, il problema è solo suo. Quello che proprio non si può accettare è l’equazione implicita nelle parole: “La cosa che un po’ mi infastidisce è la sua tendenza a tirare palate di m…a su vari autori (ad esempio Moresco) senza aver dato prova di qualcosa”. Parole sibilline, che più avanti la GiorgiaSanto spiegherà meglio: aver pubblicato, dice che intendeva, essersi messo in gioco. Ma quello che non va non è nemmeno che la SantoGiorgia mi voglia pubblicato a tutti i costi, quanto proprio che ritenga che io me ne sia stato nascosto all’ombra, fino a questo momento, a tirare pomodori marcj addosso al povero Moresco, esposto sul suo piedestallo, a chiedersi donde venisse quella roba rossa. GiorgiaSanto è su questa cosa in particolare che ha inciampato; e inciampando sulla soglia, ha fatto a rotoloni tutto il corridojo. Bello è che non se n’è accorta.

Quanto alla notazione che “I critici sanguinari (sono zanzare diceva qualcuno) e duri possono andare bene, a me divertono, ma dovrebbero avere l’accortezza di aver dato prova di quanto siano capaci LORO, altrimenti sembrano quei bambini arrabbiati con il mondo perchè si sentono esclusi”. Di grazia, in che cosa dovrebbero dar prova di sé i critici sanguinarj, se non nelle critiche che fanno – essendo la critica il loro mestiere? Ed esclusi da che, di grazia? Dalla creazione della schifezza che hanno stroncato? Dai proventi, che il più delle volte sono una cosa miseranda, quando pure ci sono? Dalla fama, che comunque non hanno cercato, sennò avrebbero fatto gli artisti, e non i critici – magari diventando, poi, più famosi di moltissimi artisti. Stando ai tuoi standard patologici, perché questo emerge da quello che scrivi, tanto per fare due esempj, né Pauline Kael né Marcel Reich-Ranicki sarebbero dovuti esistere. Mi chiedo perché mai, dal momento che a milioni di persone, per il tempo di due o tre generazioni, qualcosa devono avere pur significato. Il critico ha il suo talento – il suo, un talento di tipo tutt’affatto particolare. La critica è necessaria all’opera letteraria: la critica scritta e quella, non scritta, che ciascun lettore esercita mentre legge. La letteratura non è la catena di montaggio. Il critico non è A che dice a B: Hai saldato male quei pezzi, e dev’essere messo alla prova, e poi non riesce a dimostrare di essere più bravo lui a saldare, e quindi tutti lo aspettano in spogliatojo con la pistola ad aria compressa – io critico non sono, e ho l’accortezza di dirlo, anzi: di ripeterlo; ma lo dico, anzi: lo ripeto, proprio perché so che cos’è un critico; GiorgiaSanto no. GiorgiaSanto non è del ‘gioco’, GiorgiaSanto non sa un cazzo. GiorgiaSanto accusa me di prendere altri a colpi di cretino e di non aver mai dimostrato di non essere imbecille; beh, sta facendo dell’autobiografia. Nil sub sole novum.

La cosa veramente imbecille ed offensiva è il postulare in partenza che Ramanzini avrebbe dovuto dimostrare qualcosa prima di “gettare palate di merda” addosso agli altri. La mia opinione su Moresco, che non è né ‘dura’ né ‘molle’, né ‘aspra’ né ‘dolce’, ma è soltanto la mia opinione, espressa con sincerità e senza, assolutamente, quegli insulti gratuiti che soli avrebbero giustificato, da parte tua, il ricorso all’immagine delle palate di merda – ma (a proposito) come ti permetti, oh cretina? – è un’opinione, e in quanto tale può essere espressa, e deve essere lasciata esprimere. Qualunque obiezione fatta all’espressione di un parere, in questi termini, dal “non dovrebbe perché non ne ha i numeri” all’oscuramento senza preavviso, ha un solo nome – si chiama fascismo. Altrimenti mi chiedo a chi sarebbe mai venuto in mente di venire ad obiettare circa la liceità dell’espressione di un parere. Arriva, ’sto catorcio di donna (se donna si può chiamare), e dopo mesi dice: Ah, t’ho colto sul fatto: tu hai parlato male di Moresco, ergo adesso parlo male di te. Mesi fa, se fosse una donna decente, e non una topa di fogna, avrebbe dovuto dar di piglio, e controbattere a quello che avevo detto; dire: non hai dimostrato questo, non hai visto giusto quello. Oppure: è una critica che non condivido, corriva, superficiale, presuntuosa. Ma che si venga a mettere in discussione la possibilità stessa di esprimersi liberamente in un luogo libero, questo vuol dire essere peggio di quello che esce dal culo di Alfano.

Il critico è il critico; lo scrittore è lo scrittore; il lettore è il lettore – GiorgiaSanto è un’idiota, ma questo è inutile dirlo.

Che la deficiente GiorgiaSanto sia competente come le unghie dei miei alluci è abbondantemente dimostrato dal brevissimo scambio, una vera tragedia in due battute, tra alcor e lei:

alcor: Critico “vergine”?

GiorgiaSanto:  Devo farti un disegnino?

No! Devi andare a morire ammazzata!! O anche alcor, adesso, è di quelli che dovrebbero dimostrarti qualcosa? Che ne sai chi è alcor, tu? Tu, che vai in giro a fare le pulci al curriculum degli altri per blog e fora, che cosa sai di quello che alcor ha fatto o non ha fatto? Dato che vuoi dimostrazioni e che devi essere coerente con quello che ti sembra moralmente giusto, tanto per esemplificare, che cos’hai fatto TU, per esempio?

Ma alcor ha spirito, e non è il caso che mi arrabbj per conto suo. Infatti ha risposto:

alcor:  Sarebbe gradito, sì, tanto per capire.

GiorgiaSanto: Va bene, in mancanza della lavagna o del foglio di carta vedrò di fare un disegnino a parole: Un critico che non ha pubblicato (ovvero che non è sceso nell’arena con tutti i rischi e i premi possibili) è un critico vergine, secondo me, uno che perde più tempo a tagliuzzare le cose altrui piuttosto che decidersi a fare qualcosa di compiuto e ad impegnarsi a farlo pubblicare. Provo fastidio per qualsiasi forma di giudice esterno al gioco e, secondo me, il blog non corrisponde ad una pubblicazione -tanto più che è sempre uno scrivere a frammenti-. Criticare i lavori altrui (ottimi o pessimi che siano) senza avere mai fornito qualcosa di fatto e finito (e pubblicato, insisto) è cosa che trovo fastidiosa.

Ma sentila! “E’ cosa che trovo fastidiosa”. Di nuovo con i tuoi fastidj, le tue paturnie, il tuo flusso ciclico perenne! Povera cara: ha il morbino. Mavaffanculo, va.

Tanta delicatezza contrasta nella maniera più stravagante con l’ingenuità dell’assunto: Ramanzini non ha pubblicato; e io provo fastidio. E andartene a grattarti la rogna da un’altra parte no? Non so come altrimenti dirlo; dato che già l’ho detto passo a fare le pulci a quello che in altri casi si chiamerebbe stile, e nel tuo è italiacano: “ovvero che non è sceso nell’arena con tutti i rischi e i premi possibili”: si può sapere dove hai maturato questo stile da sassate, a parte i convegni di Forza Italia? In che latrina? “Provo fastidio per qualsiasi forma di giudice esterno al gioco e, secondo me, il blog non corrisponde ad una pubblicazione -tanto più che è sempre uno scrivere a frammenti”. Ma qui a frammenti ci sono solo i nidi di mosche che hai al posto del cervello. Il blog non equivale a vera pubblicazione, e questo è un dato; è uno scrivere a frammenti, e questo è vero; intanto, però, ti sono girate le ovaje, hai provato fastidio, e la rabbia te la sei tenuta dentro per qualche mesetto, per poi venire su Nazione Indiana a schizzare bile a destra e a manca, o sbaglio? Con tutti i blog che ci sono, dove magari sono dieci anni che si dice corna di Moresco, è il mio che t’è rimasto impresso – non il saggio di 250 pagine di Pinco Pinchetta sugli elementi procedurali e le ancillari nell’Avventuroso Ciciliano. Sono questi “frammenti” che ti sono rimasti nel cranio per mesi. Potrebbe non essere tutta colpa mia, ci hai pensato?

Ma qui la Giuditta Russo è voluta intervenire in mia difesa:

Giuditta Russo: Salve a tutti. L’argomento non è la scrittura, tantomeno l’opinione più che legittima che David Ramanzini espresse ai tempi sulla qualità del mio libro. L’argomento è la differenza tra sfiducia e diffidenza. Sono certa di non dover prendere le difese di David Ramanzini, perchè sa farlo benissimo da solo, ma sarei grata a tutti se si potesse evitare di strumentalizzare i toni che talvolta David Ramanzini utilizza (che possono piacere o meno) e porre uno sguardo più attento a ciò che scrive al di là di come lo scrive.

E qui ovviamente non sono affatto d’accordo. I toni sono perfettamente adeguati, mi pare, a quello che scrivo. Non so come si potrebbe andare di là dai toni senza andare di là dal testo, e farsene un’idea per forza di cose sbagliata.

Saltiamo qualche passaggio, che non serve adesso, e passiamo direttamente alla risposta di GiorgiaSanto alla Russo. Nella quale scopriamo finalmente che non solo la GiorgiaSanto ha un’idea molto approssimativa di che cosa sia un critico e che cosa debba essere la rete, ma è anche una bugiarda:

GiorgiaSanto: Il mio commento, OT come ho scritto io stessa, non era sulla opinione di Ramanzini riguardo al tuo libro,

e questo, come sappiamo bene, è falsissimo, perché la prima questione che GS ha affrontato è stata proprio quella delle mie letture negative di Moresco e della Russo.

nè sulla scrittura (ho solo annotato che, rispetto ad altri suoi post, questo non era scritto molto bene),

come, prego? Ho capìto bene? Hai solo annotato che questo post non era scritto molto bene?

ma sulla questione di certa critica. Se devo stare in tema dirò allora che provo in generale Sfiducia e Diffidenza per un critico che sfascia (o esalta) senza avere dato prove concrete ed estese.

Se si tratta di un critico, naturalmente, ti do ragione. Se si tratta di un lettore, come fa a provare un gusto personale, interessante, semmai, solo organicamente a quella che può essere la sua estetica, se scrive, o la sua etica?

Riguardo a quello che uno scrive e come lo scrive non credo siano due parti indipendenti, almeno per me come uno scrive vale tanto (a volte di più) di quello che uno scrive.

Vogliamo considerare, seriamente, la prosa di questa cultrice dello stile? Riguardo a quello che uno scrive e come lo scrive è agrammaticale: si dirà, semmai, “riguardo quello che uno scrive e a come scrive”, che pure non è bello, infatti la frase dovrebbe essere girata diversamente. Che brutto quel “due parti indipendenti”: due parti di che, per favore? E quella comparazione, su che regole ostrogote sarebbe fondata? “come uno scrive vale tanto di quello che uno scrive”? Tu hai diffidato più delle scuole elementari che dei cattivi critici, credi a me. Molto meglio i cattivi critici, se sanno tenere la penna in mano, piuttosto che la tua brutta ignoranza.

Dopo che ho fatto notare a GS che non sono un critico e che continuavo a ritenere poco coerente che si permettesse di fare le pulci a me pur non avendo dato quei riscontri testuali che tanto le sono cari, mi sono permesso anche di dubitare, sempre supponendo che GS avesse intenzione di essere coerente con quello che dice (ma abbiamo anche visto che spesso se lo dimentica), che fosse, lei, in grado di fare di meglio rispetto a quello che ha prodotto in questi pochi commenti, indegnamente scritti, su NI. Quello che mi ha risposto è stato:

GiorgiaSanto: […] leggi quello che vuoi leggere tu nei commenti altrui (non ho mai scritto che potevo fare qualcosa di meglio) tanto per fare polemica, trucco che usi spesso.

Procedere in questo modo è disonesto, perché, di nuovo, non ci sono prove di quello che dice – e dato che quello che dice dovrà pur dipendere da qualcosa che ho scritto, non capisco la difficoltà a produrre i luoghi esatti del testo. A parte  questo, è verissimo che no ha mai detto di essere in grado di fare di meglio; ma, se crede alle sue stesse parole, è tenuta a fare di meglio. Nel qual caso, dato che tutto è opinabile, dati i presupposti io potrei anche no riconoscerglielo, &c. &c., ad nauseam.

Ancòra un salto. Avrei dovuto pubblicare, per permettermi di criticare – ma la critica è inerente alla lettura; che cos’avrei dovuto fare, pubblicare un libro prima ancòra di aprire il primo libro della mia vita? – , ma pubblicare cosa?

GiorgiaSanto: Per pubblicazione non intendevo certo un testo di critica, per carità,

come mai non intendeva “certo”? e perché “per carità”? Non si capisce se non sia mai stata sfiorata dall’idea che io non avessi capìto esattamente per che cosa avrei dovuto far gemere i torchj, o se ritiene un’opera di critica troppo al disopra delle mie possibilità, o se non regge l’idea di un’opera di critica  o che altro.

intendo qualcosa, romanzo, racconto, quello che vuoi. Tu poi divertiti pure a rigirare le parole e a travisare quanto ti pare (sul fatto che scrivo da cani non me ne puo’ fregare di meno, tanto più che mi aspettavo questo banale attacco).

Ma che è, il supermercato? Romanzo, racconto, critica, quello che voglio? Quello che voglio io? A parte il fatto che non concepisco molto un autore che ne critica altri – per questo autori e critici sono due cose diverse, è inconcepibile un romanziere che fa critica: sanno anche i sassi che si distruggerebbe.

Quanto al presunto attacco, sarebbe pure stato banale quando ne avessi fatto una questione di stile. Io ne  ho fatto una questione di grammatica, e di sintassi. L’”attacco” , così, diventa già molto meno banale.

Ma la chicca, quella vera, è questa stranissima, sibillinissima frase:

non hai messo solo testi di critica ai lavori altrui, altrimenti già da un pezzo non seguirei questo e il tuo blog.

Ciò che vuol dire: non hai fatto solo critica (o quello che intende costei per critica), ma anche altre cose, che sono il motivo per cui sono venuta sul tuo blog e su Nazione Indiana. Biondillo, Pinto, Forlani, andatevi a nascondere. Lei è venuta solo per me. Per me; capite?

Seguono perle sparse:

GiorgiaSanto: A Giuditta: Per criticare lo si deve avere fatto, dando dimostrazione di avere piena conoscenza (teorica e pratica) della cosa, altrimenti sono parole al vento.

Ma questo è totalmente falso. Ho già detto che tutti “fanno critica”, e mentre leggono, e mentre esperiscono. E la dimostrazione che questo possa farsi, e sia in effetti fatto, anche senz’alcun metodo né rigore, sta proprio nelle parole fin qui spese da GiorgiaSanto. O almeno spero che con quella “piena conoscenza (teorica e pratica) della cosa” intendesse in genere un atteggiamento, un approccio rigoroso, discreto, consapevole. Ma non posso evitare di notare che il suo modo di esprimersi è improprio e detestabile, e nuovamente pseudoaccademico (vedi quell’ingenua e stupida distinzione tra ‘teoria’ e ‘pratica’, ‘parte istituzionale’ e ‘parte monografica’ – ma l’Italia è un paese in cui molta gente comincia a léggere libri solo dopo aver preso una laurea inutile, e non ha in genere esperienza della scrittura prima dei trent’anni. GiorgiaSanto è espressione a suo modo perfetta di questa tendenza, che di per sé è assolutamente stravagante ed è solo uno degli aspetti della nostra inciviltà). Inoltre non riesco a capire che cosa non vada nelle ‘parole al vento’. Sono una realtà anche quelle, mi sembra, e ognuno si sceglie le parole che vuole. Altri affidano le proprie parole al vento, altri alla legge di gravità. Personalmente, sto coi primi.

GiorgiaSanto: Io non possa fare nulla di meglio? (A proposito delle critiche basate su pochissimi dati). Puo’ essere. Ho l’impressione che sia un mantra che devi ripeterti spesso per convincerti.

Nemmeno per sogno: ne sono già convinto e straconvinto. Sembrava piuttosto che fosse GiorgiaSanto ad avere difficoltà a cacciarselo in testa. Per questo mi sono permesso d’insistere. E insisto di nuovo: se per criticare si deve quantomeno dimostrare la fondatezza delle proprie affermazioni, se non avere pubblicato, e questa è la convinzione di GiorgiaSanto, perché GiorgiaSanto non applica lei per prima quello che vorrebbe altri applicassero? Io ancóra non ho trovato, nelle sue affermazioni, nulla di particolarmente centrato sul testo postato.

GiorgiaSanto: “Trovo sciocco, il tuo commento, GiorgiaSanto, tanto sciocco da indurmi a ritenere, a differenza di quello che pensi di me, che tu non possa fare affatto di meglio.” la frase contiene sì la tua affermazione riguardo al mio “non poter fare di meglio”, ma anche l’idea che, secondo te, io penso di poter fare di meglio, cosa che non ho detto. Vedi come prendi solo i pezzi che ti fanno comodo.

E qui ci rifacciamo. A me non importa affatto che non abbia dichiarato di essere in grado di compiere analisi puntuali; m’interessa che sia la prima a dare dimostrazione di esserne in grado, nel momento in cui stabilisce che così si deve fare.

GiorgiaSanto: A Giuditta Infatti non ho sentito alcun giudizio in quello che mi hai scritto, giusto una divergenza di opinioni. Riguardo alla questione che si “critica” ogni cosa ogni giorno, concordo, ma sono appunto critiche che finiscono per non essere altro che parole al vento, secondo me. Personalmente lascio la questione perchè ho portato già abbastanza fuori tema.

Dunque quello che GiorgiaSanto ha detto finora sono solo ed esclusivamente parole al vento? E questo che cosa dovrebbe dimostrare, se non che si sente – evidentemente – al disopra delle regole cui lei stessa vorrebbe che gli altri si adeguassero? Adeguarsi per prima a queste regole converrebbe innanzitutto a lei, infatti: sennò l’unica conclusione che si può trarre dalle sue parole è che si tratti – è lei stessa che lo dice – di parole al vento, cioè dette alla stracazzo, cose senz’alcuna importanza. Io credo, a prescindere da quello che lei ritiene dovrebbe essere, che sia veramente così: anche se non esiste parola detta al vento da cui non possa trarsi qualche insegnamento utile: dipende da chi la raccoglie e la sa léggere. Aggiungo un’altra cosa: GiorgiaSanto ha messo in dubbio la mia preparazione (?) di critico (?), sottintendendo che non avrei le capacità né teoriche né pratiche per fare una critica come si deve. Parallelamente, però, sottintende di non essere capace di scrivere cose più intelligenti di quelle che ha finora scritto quassù. Corre l’obbligo di far notare che questo sottintende, a sua volta, che ella non possiede quella teora e quella pratica a cui fumosamente fa riferimento; ora mi chiedo: nel caso in cui X, non dico Ramanzini, desse prova di possedere, qualunque cosa esse siano, questa teoria e questa pratica, siamo sicuri che, non possedendole, GiorgiaSanto sarebbe in grado di rendersene conto? La domanda è retorica, e la risposta è negativa; ovviamente.

Fa notare, molto giustamente, la Castaldi:

natàlia castaldi: Mah! tutto questo discorso sulla legittimazione nell’esprimere un parere critico mi pare assai infantile. qualunque lettore esprime un parere critico, magari non scritto, ma lo esprime nel momento stesso in cui legge un testo e lo consiglia o lo ripone nello scaffale dei *soldi mal spesi* […].

Che è esattamente quello che ho sostenuto a mia volta, più sopra. GiorgiaSanto, a sua volta, pur non avendo il discernimento necessario ad accorgersene, ha dato a sua volta prova, senza dimostrare che il sottoscritto abbia mai fatto altrettanto, giudizî corrivi. E lo ha pure ammesso; ma, appunto, non capisce ella stessa quello che pensa e quello che scrive, dunque, molto semplicemente, non se n’è resa conto. Ha però lasciato intendere, e questo non può essere negato perché è nei fatti, che non si sente affatto in obbligo di dar prova di rigore nelle sue analisi: lei, lo ha ribadito, non ha mai sostenuto di poter far meglio di quello che fa. Io, invece, sarei tenuto a dar prova di cose che ella stessa manco sa che cosa siano. Ecco perché mi dilungo tanto nell’esporre il mio punto di vista sulle affermazioni fatte: perché non è la prima volta che m’imbatto in queste surciliose affermazioni, in cui si stabilisce che il mio livello culturale, o qualunque cosa attenga al mio strumentario tecnico-analitico, dunque tutto quello che rimane sostanzialmente esterno alla mia scrittura e a quello che vorrei comunicare – che stavolta non è arrivato, a causa di questa stolta polemica, a nessuno – è insufficiente – rispetto a che cosa, rispetto a chi, secondo quali standard, ai fini di quale complessa operazione mi rimane sostanzialmente ignoto. Periodicamente si alza una voce, che rimane perlopiù, fortunatamente, abbastanza isolata, che torna sul fatto: io sarei un prepotente, che si esprime con secchezza su gente che si è duramente sudata la sua posizione, e che senza averne i numeri vorrebbe infangare il nome di tizio e di cajo. Non sarebbe la prima volta che un figuro del genere si esprime in questo modo, in rete e fuori; ma sarei disposto a riconoscere che ci sono ragioni per esprimere questa valutazione se solo queste voci non venissero fuori, sempre, dalle stesse parti; rifacendosi a pregresse conoscenze, sottintendendo frequentazioni sempre dello stesso tipo, perpetuando – fino a quando non lo so (ma per me non è un problema, affatto) – gli stessi vecchî pregiudizj; ed esprimendo sempre un identico grado (abissale) d’ignoranza, e anche di violenza – di tanto in tanto, insieme con queste voci, riaffiora quest’ombra, risibile più che spaventevole, della dinamica padrone / schiavo – ‘Io posso dire di te quello che voglio / tu puoi dire di X solo cose dimostrate, ponderate, di scientificità indiscutibile, dopo aver studiato il tutto a memoria in ginocchio sui ceci, o quantomeno appeso per i piedi a testa in giù’. Dato che non c’è nessun motivo per cui debba farlo, io continuerò a destinare le mie analisi puntuali & approfondite ai classici e alle opere che ritengo valgano la pena. E le GiorgeSanto se ne possono andare tranquillamente a fare in culo.

Ma non è finita. Se GiorgiaSanto pareva solo pregiudizievole, ottusa, ignorante, petulante e scema, c’era già in arrivo qualcosa di peggio – o che minacciava di fare di peggio:

flaviadelbono: Ma non vi rendete conto che vi conoscete solo tra voi, vi criticate, accreditate e screditate solo tra voi, vi azzuffate solo tra voi, vi elogiate e insultate solo tra voi, ve le cantate, ve le suonate, vi applaudite e vi fischiate da soli e nessuno, dico NESSUNO al di fuori di quel cerchio alla testa che siete sa chi siete?

Chiedo scusa e mi dispiaccio per il cerchio alla testa (infatti avrei sperato più che altro in un cancro all’ipofisi: prima di morire, almeno, diventi più bella), ma appunto perché ci conosciamo tra noi, ce la soniamo, ce la cantiamo & ce la donzelliamo, tu, per dirla chiara, chi sei? Ti conosce qualcuno? C’è un motivo per cui dovremmo tenere conto delle tue strida, specialmente considerando il fatto che ci piace tanto rimanercene sulle nostre? (Che cosa vuol dire: “vi (…) accreditate (…) solo tra voi”?). Ma il meglio di sé, questa povera imbecille, l’avrebbe dato più oltre; e rimando al suo secondo, e fortunatamente ultimo, intervento per tentare di fare il punto anche con lei.

GiorgiaSanto: A quanto pare nessuno è degno di darti un giudizio (soprattutto se non è positivo, ma arrivi a schifare perfino quelli positivi), mentre tu sei degno di dare tutti i giudizi negativi del mondo

No, per nulla. Ma anche se fosse mi chiedo anzi che cosa te ne importi di quello che di negativo o di positivo possa dire io a proposito di altri, o che cosa io stesso pensi dei miei giudizî, dal momento che hai già stabilito che sono un incompetente e che dico parole gettate al vento. O supponi che le mie parole contino qualcosa, nel qual caso ha senso che tu le contesti, oppure stabilisci, come hai fatto, che non contano nulla; nel qual caso trovo veramente insulso insistere. O per te è tanto importante cambiare la mia opinione su quello che io stesso scrivo, o su quello che scrivono altri?

e magari ritieni che nel tuo discorso la pars destruens sia una pars construens o che almeno ci sia una pars construens.

Puro delirio: come fa una pars destruens ad essere una pars construens? Qui o la pietosa smania della GiorgiaSanto di far pompa di quel po’ di latino l’ha portata ad esprimere in modo bislacco e assurdo un concetto che doveva essere altrimenti espresso, o il concetto era talmente assente che ha pensato bene di nasconderlo sotto un luogo comune da prima liceo. (Anche Nietzsche era tutto pars destruens: qualcuno lo considera un coglione, per questo?).

Tutti gli autori non sanno scrivere, tutti quelli che ti dicono qualcosa sono dei mentecatti, tu ti sei già posto tutte le domande dell’universo.

Lascio perdere le prime due affermazioni perché fanno pena, e solo pena. Quanto alla terza, è già più interessante. In effetti arrivi a riconoscere, pur senza averne una coscienza piena, che mi sono posto diverse domande, e mi sono dato diverse risposte. Ma questo è del tutto normale per una persona che ha trascorso in solitudine quasi assoluta la gran parte della vita, e ha dovuto fare i conti con l’assenza di qualunque supporto o appoggio, materiale o psicologico, e non solo in questi ultimi anni. Effettivamente non è merito mio, è una scontata conseguenza delle mie condizioni esistenziali. Va da sé che chi è perfettamente integrato in qualche contesto non ha nessuna necessità di analizzare così a fondo quello in cui deve credere, e probabilmente, almeno in linea di massima, sarà meno buon loico. GiorgiaSanto è pessima loica, per esempio, probabilmente è una dipendente statale, o una negoziante – o, ciò che forse è peggio, potrebbe essere benissimo. Ma la sua notazione circa il porsi tutte le domande dell’universo, non è commovente, nel suo rilevare, in maniera così ingenua e sciocchina, che semplicemente si è accorta di non riuscire a destabilizzarmi? Né io ho raccolto la sfida, anche perché non sono cose per me, non m’interessano. Se analizzo quello con cui GiorgiaSanto ha mandato in vacca la discussione che doveva esserci – bastavano due, tre, cinque commenti centrati, non cento di puttanate, illazioni e insulti – è perché è mio dovere capire. Io faccio analisi sempre molto approfondite – questo mi rallenta come lettore e mi leva, ormai, piacere ed abbandono, dunque non è sempre un bene. Ma quando produco una paginetta da blog ho sempre, in mano, pagine su pagine di appunti, note, citazioni. Non vale la pena di fare post-monstre su un blog, al più caricherei un file.

Quando fai il finto modesto (infilando qualche frase del tipo “he comunque scrivo di merda”) raggiungi il massimo. A quanto pare solo Anfiosso puo’ criticare Anfiosso, gli altri si beccano uno dei tuoi mantra.

GiorgiaSanto: Poi ogni tanto spunta la scherana che molla un mezzo insulto o una mezza allusione pensando di fare la parte del genio di turno (vero Alcor?)

Perché GiorgiaSanto dà della scherana ad alcor? E come mai le attribuisce insulti, dal momento che è civilissima? Ecco, alcor è una che non è un Ramanzini qualunque: alcor ha pubblicato, molto. Come mai GiorgiaSanto non la rispetta? Perché la insulta – lei sì – dandole della scherana e attribuendole una maldicenza che non si è mai permessa? – Non che le mancherebbero i motivi, o che abbia alcunché da temere dall’ira di una GiorgiaSanto. Ma queste villanie non saranno dovute al fatto che la stessa Giorgia, temendo il franco vaffanculo che mai le avrei negato qualora si fosse spinta un po’ più in là, ha preferito ripiegare su alcor, approfittando della sua compostezza? E, se non si è peritata dal fare questo, non significa, forse, che non gliene importa un bel niente, né delle competenze né dei libri stampati, dal momento che il rispetto a me negato – e da me NON richiesto, lungi da me – è stato negato nondimeno anche ad alcor?

Alla civile risposta della quale la GiorgiaSanto non ha trovato di meglio che rispondere con un’altra insolenza, veicolata da un’altra pietosa citazioncina da avviamento industriale:

alcor: @ GiorgiaSanto il mezzo insulto o la mezza allusione, e per di più geniale, sarebbe che ti ho definito una donna d’ordine? take it easy […].

GiorgiaSanto: Alcor alludevo all’insieme dei tuoi interventi, non solo a quelli rivolti a me, non credo di essere il centro dell’universo a differenza del Duca tuo. Buon inseguimento.

Verrebbe da chiedere: L’insieme degl’interventi fatti sotto questo post o quelli fatti in generale, da quando bazzica NI? In realtà non c’è risposta: GiorgiaSanto ha aggressivamente fatto riferimento ad alcor, e poi ha negato di averlo fatto nei termini in cui l’ha fatto. La risposta è anche stavolta logicamente carente: come dire che ammettere di aver avuto da ridire in particolare sulle risposte che alcor ha dato a lei implicherebbe automaticamente di considerarsi al centro dell’universo. I movimenti, viscidi e vigliacchi, della GiorgiaSanto sono interessanti da seguire: rispondendo a me, getta fango in direzione di alcor; quando questa gliene chiede conto, nega di averlo fatto, e intanto schizza mota nella mia direzione. È un agire da malintenzionati. Il suo scopo è stato solamente quello di esprimere un’antipatia epidermica, del tutto ingiustificata, nei confronti di chi scrive meglio di lei. Il suo atteggiamento è lo stesso di quelli che un tempo facevano telefonate anonime, prendendo di mira un vicino di casa in apparenza più felice.

Alcor: I miei interventi qui faranno in tutto 10 righe. E visto che il tuo nick non l’ho mai visto prima devo supporre che tu mi legga in silenzio da lungo tempo. Ti pare che valga la pena? Soprattutto se provi tutta questa ostilità? Salta i miei commenti. Il salto del commento è uno sport praticato e anche consigliabile:-)

GiorgiaSanto: Va bene, facciamo così, tanto per rendere reciproco l’esercizio fisico, io salto i tuoi commenti e tu salti i miei (l’esercizio parte da ora). :-) PS: Non provo alcuna ostilità.

Infatti, non si può parlare nemmeno di ostilità, perché GiorgiaSanto non può permettersi sentimenti così forti, né in positivo né in negativo. Potesse, esploderebbe di odio e di amore, il problema è che è un meschino contenitore per meschinissimi sentimenti. Scommetto che non serba rancore – in realtà non ha la fibra per poterselo consentire. L’unico suo punto di forza è ammollare qualche menna dichiarazione di fastidio, insofferenza, insoddisfazione, e vedere l’effetto che fa, sicura che nessuno le farà le pulci perché, e questo lo sa, è troppo poca cosa, e troppo sfigata, per poter essere presa di mira: nessuno usa un cannone per ammazzare una zanzara. La stessa zanzara che, come diceva ‘qualcuno’ e lei si è compiaciuta di ricordare, un critico ‘sanguinario’ e ‘livoroso’ ricorderebbe. In realtà lei ci sperava: per avere il poco coraggio di venirsene fuori con le sue rivelazioni dell’ultim’ora doveva necessariamente servirsi di una rappresentazione distorta, nanizzata, ridotta di una realtà ingrata e soverchiante. Anch’io, come critico ‘sanguinario’, potevo in fondo essere visto come una macchietta (uno ‘divertente’), come una non inoffensiva ma schiacciabilissima zanzara. Peccato che zanzare qui non ce ne siano: siamo tutti uomini e donne, purtroppo e per fortuna, e tutte le opinioni, tutti i giudizî, tutti i racconti, tutti i versi, tutti i ricordi, tutto quanto sia comunicato merita di essere raccolto, merita di essere vagliato con attenzione. Non ci dev’essere nulla, ripeto, al disotto dell’attenzione di chicchessia. Di tutto non ci si può occupare, ma sicuramente è possibile farlo con le affermazioni che ci riguardano direttamente; è il minimo, mi sembra. Il metro, con buona pace di tutte le GiorgieSanto del mondo, è uno, per tutti.

Segue un lungo intervento – rispetto agli altri – in cui la GiorgiaSanto ribadisce, del tutto inutilmente, punto per punto, tutto quello che già è stato detto, e si aggiunge, credo in malafede, altra confusione:

GiorgiaSanto: “Posso capire, questo sì, di aver scritto cose che non tutti si aspettavano di léggere. Posso capirlo, ma non posso dispiacermene.” Riguardo alle tue opinioni sulla Russo e su Moresco?

Con questo GiorgiaSanto dimostra di essere cattiva lettrice: infatti non potevo riferirmi a quello. La stessa GS ha fatto presente che ci sono cose mie ‘fatte meglio’, ed è arrivata persino a dire che viene a leggermi sia sul blog mio personale che su NI per via di altre cose, che evidentemente le pajono più meritevoli. In questo caso mi riferivo, ovviamente, al pezzo postato, del quale la GS non ha saputo dire assolutamente nulla, se non che le pareva male scritto – approfittando per dire che mi ero permesso di stroncare la Russo e il Moresco, mentre – altre interpretazioni non dànno senso – di fatto non potevo permettermelo, dato quello che avevo scritto in quest’occasione. Mi sono limitato a dire che quello che avevo scritto in quest’occasione era ed è esattamente quello che penso, esposto con la massima chiarezza a me possibile, e che non lo ritenevo né ritengo ‘inferiore’ ad altre cose; sempre tenendo conto del fatto che non è sempre domenica, che esiste anche il lato B e che non tutte le ciambelle escono col buco. Sfido chiunque a léggere altrimenti le parole di GS, la sicurezza della cui sanità mentale dipende, a questo punto, solo da quest’interpretazione; non potendo essere, qualunque altra, altro che puro delirio. Io, in realtà, ho dato letture severe, o ‘livorose’, per servirmi dei suoi scorretti termini, anche di altri autori, oltre a Moresco e alla Russo; ma dato che la Russo è nominata nel testo, posso supporre che Moresco le prema, come autore, più di altri per motivi assolutamente suoi; e che abbia ricordato la stroncatura fatta alla Russo perché, stupidamente, ritiene contraddizione da parte mia corrispondere amabilmente con un’autrice già stroncata in altra occasione. Non ho la sfera magica, e sono ben lontano, sotto sotto, dal condividere l’opinione distorta che la GS nutre in merito: se la conosco è perché è errore di molti ritenere che lo scritto e la persona siano la stessa cosa. Già nel pezzo ho preso posizione in merito; solo che GS si rifiuta di capirlo, crede che continui a pensarla come lei, e che sia caduto in una palese incoerenza. Beh, si sbaglia. E la sua contrarietà, e il suo andare sùbito OT, è il risultato della sorda avversione che prova di fronte ad un pensiero più complesso del suo (io sono quello che si è già dato tutte le risposte – ha fatto tutto lei! -, si ricordi).

Devo dirti che, per parte mia, è proprio l’opposto, tu scrivi come mi aspetto, come scrivi sempre, vai all’attacco, ribalti le parole degli altri e le giri come ti pare e piace.

No, le interpreto (e non ho ‘ribaltato’ proprio nulla). Quanto a quell’osceno “scrivi come mi aspetto”, sorvolo, perché è l’unica cosa su cui mi sono pronunciato specificatamente al momento: è la spia di un pregiudizio; resa oscena proprio dalla sprovveduta, nauseante ingenuità con cui è spiattellata, senza nessun pudore. Non vado all’attacco dello ‘scrivi come una merda’; vado all’attacco del ‘ti ho colto, mascherina!’, dell’atteggiamento imbecille del lurker che rimane nell’ombra a raccogliere le bucce degli altri, riservandosi di balzar fuori alla prima occasione a svergognare il pirla che pensava di farla franca. Io non sono un mistificatore, e GiorgiaSanto è quello che si definisce classicamente una povera sfigata. Chi scrive o si dichiara in altro modo in pubblico, è vero, talora non ha fatto i conti né con il proprio pensiero né con il contesto davanti a cui si propone. Ma non è il mio caso: io le mie domande – è vero – me le sono poste, e mi sono anche dato qualche risposta. Sono consapevole di che cosa voglia dire scrivere in pubblico – per questo pubblico – e se è vero che mi esprimo apoditticamente, questo vale solo per quello di cui sono certo, mentre mi esprimo in forma dubitativa su quello di cui non sono sicuro. È tanto difficile da accettare? GiorgiaSanto non aveva, alla fin dei conti, nessun asso nella manica. Semplicemente non aveva capìto niente.

La medesima cosa per come reagisci a chi ti dice qualcosa, salti alla gola, ti metti subito a dire “scrivi da cani”, parli di atteggiamento disgustoso, mancanza di intelligenza, insomma vai subito sul personale, ad un appunto in merito a quello che hai scritto rispondi mischiando risposte appropriate con insulti alla persona e alle sue capacità.

Questo è totalmente falso: semmai è GS che ha aggredito me, sorvolando sul pezzo, dicendo solo che era scritto male, e passando al personale. Mi limito al primo intervento, che è quello che fa testo in questo senso; non è personale, forse, dire: “La cosa che un po’ mi infastidisce è la sua tendenza a tirare palate di m…a su vari autori (ad esempio Moresco) senza aver dato prova di qualcosa. […] I critici sanguinari […] dovrebbero avere l’accortezza di aver dato prova di quanto siano capaci LORO, altrimenti sembrano quei bambini arrabbiati con il mondo perchè si sentono esclusi”? Ed è patetica la precisazione immediatamente seguente: “Non è una cosa personale contro Ramanzini”, perché contano non le dichiarazioni, ma i fatti. Bisogna saper distinguere personale da non personale, quantomeno. GS non è in grado di farlo. Sorvolo sul fatto che salto alla gola, che è una metafora e come tale può essere tranquillamente buttata nel cesso; ma ribadisco con forza che GS scrive veramente da cani, altra metafora, ma utile a rappresentare la realtà. GS non scrive grammaticalmente, e già s’è visto; che cos’avrei dovuto dire, che scrive da gatti? L’atteggiamento, poi, È disgustoso, perché è censorio. GS non è entrata nello specifico di nulla per quanto riguarda il mio post – segno che non l’ha capìto – e ha sparato due fesserie circa regole in cui credono solo lei e la sua degna camerata diobonino. Ha tentato di tacitarmi non prendendosela con quello che scrivo, ma col fatto che scrivo, con un tentativo di svergognamento, che è poi una forma di ricatto, e io dovrei riconoscerle anche nobiltà di comportamento, copia di argomentazioni, onestà, pudore, ritegno? Ribadisco: GiorgiaSanto è genuinamente disgustosa, lei proprio, e non solo quello che scrive; ripeto: il suo modo di procedere è ripugnante; torno a dire: fa schifo proprio, il suo modo di pensare e come lo esprime. Ciò detto, spero che sia del tutto chiaro quanto ribrezzo provi nei confronti suoi e di chiunque, incapace di opporre argomenti a chi nemmeno lo ha interpellato, e consapevole di non averceli, cerca vigliaccamente di fare lo sgambetto. Io insulterei la persona e le sue capacità? L’ho detto che questo subconscio a cielo aperto, come diceva il compianto Tasca, fa solo dell’autobiografia: “La cosa che un po’ mi infastidisce è la sua tendenza a tirare palate di m…a su vari autori (ad esempio Moresco) senza aver dato prova di qualcosa. Insomma qualche pezzetto su un blog non dimostra proprio un tubo delle eventuali capacità di Ramanzini”. Et de hoc – I hope – satis.

E non me ne frega nulla di chi mi dice “devi imparare a capire come scrive, devi superare certi aspetti del suo modo di rispondere”, resta di base che le tue risposte (l’ultima no) tendono per i miei gusti a puntare sull’insulto totalmente gratuito, sì, gratuito, la cosa che rinfacci a volte agli altri, a me ad esempio. A quelli che dicono così io rispondo che vi sbagliate, accettare certe cose significa lasciarsi dire tutto e il contrario di tutto.

Se io dicessi tutto e il contrario di tutto, e altri si bevessero quello che dico, sarebbe sicuramente così – cioè sarebbe vero che accettano di sentirsi dire tutto e il contrario di tutto. Ma io non dico tutto e il contrario di tutto, e Giuditta Russo non ha affatto esortato a sorvolare sulle contraddizioni. Ha detto di tralasciare – e io non sono affatto d’accordo, e l’ho già detto – i termini, i toni brutali in cui certe cose sono dette, per andare ‘al fondo’. Ripeto: è un invito alla lettura che trovo del tutto discutibile, ma è altra cosa rispetto a quello che GS dice qui. Di fatto c’è un cortocircuito, tutto dovuto alla GiorgiaSanto: la quale, guidata a rompere la minchia su NI solamente dal proprio personalissimo ‘fastidio’, non sa bene se prendersela con i miei toni o con quelle che ritiene essere le mie contraddizioni; prima tra tutte il fatto di corrispondere con Giuditta Russo dopo che ho stroncato il suo libro. Implicita, nella sua controreplica, l’accusa di passività alla Russo. Ramanzini, pare dirle, ti bistratta e ti maltratta, e tu, cretina, ti fai fare in questo modo? Faccio memoria – sicuramente GS si sarà documentata, a suo tempo, e avrà preso copiosi appunti – che io non sono andato in cerca della Russo, ma il contrario; che solo dato il suo atteggiamento conciliante e gentile, avendo pensato al nuovo thread dei dialoghi, o interviste, le ho proposto un’intervista, o quello che sarà, a proposito della sua vicenda umana, oltre il libro, che di quella vicenda parla, e che rimane un libro brutto – pazienza, la Russo, che ha molte competenze e non pochi meriti, stava movendo allora solo i primi passi nel fatato mondo della scrittura, ed era ancóra ben di qua dalla letteratura, dato quello che è il suo libro. A quelli che mi venivano a léggere ho detto quello che pensavo, come ho fatto per qualunque altro libro da me valutato, e cioè che la vicenda umana della Russo, che al momento era sotto i riflettori ed era proposta come una specie di curiosità, era una vicenda di mancanza, di fallimento, di deprivazione; e che lo stesso stile del libro non rifletteva nessuna presa di coscienza particolare da parte della Russo, ma anzi sembrava più adatto a qualche divetta della televisione o del cinema, o a qualunque personaggio di successo decida di raccontare la sua storia – mentre qui il successo non c’entrava, c’entrava qualcosa di piuttosto squallido e vagamente tragico, questo sì. Sono tutte cose che chiaramente ribadisco, e con la massima tranquillità; e che aveva senso, per me, dire nella fattispecie perché pensavo, parallelamente, a quello che a me era stato proposto di scrivere, e al tipo di aspettative che avevo notato nelle persone con cui ne avevo parlato; qualcuno aveva pensato ad un’avventura, altri a qualcosa di romantico, estremo e spregiudicato – addirittura diamante è riuscito a léggere in quest’ultima cosa l’Io sono un uomo malato, io sono un uomo malvagio dostoevskiano. La mia è una storia di fallimento, a livelli assoluti – per la Russo le cose sono diverse, non meglio non peggio ma diverse; ed ecco che mi trovo a ripetere le esatte parole che avevo detto allora! Ero stato esplicito ed ero stato chiaro; e la Russo ha, in effetti, capìto che cosa dicevo, e che lo dicevo a ragion veduta. Tutto qui: ridurre il tutto a una “stroncatura” è in sé inaccettabile, non è questo il punto.

E comunque dài retta a me: non devi superare proprio un bel nulla. Quando ti dico affanculo, qualunque cosa ti dica la Giuditta, tu vacci e basta

Rileggi quello che ho scritto e vedrai 1) Io mi sono permessa di dire che il tuo modo di criticare (nel senso etimologico, non nel senso dispregiativo) il lavoro altrui è pieno di livore e pesante,

Come fa a non essere in senso dispregiativo, dato che è “pieno di livore e pesante”? (C’era bisogno di altre dimostrazioni della confusione mentale della GiorgiaSanto, peraltro?).

riguardo alla pubblicazione non intendo, come sembri avere capito tu e altri, una consacrazione, il libro dell’anno, l’attestato di “uomo del millennio”, intendo che è facile smontare gli altri quando non ci si mette mai in gioco sul serio con un libro pubblicato.

Ma questo è falso. A parte il fatto che la gran parte della gente considera la pubblicazione esattamente come fa GS, e cioè come una garanzia di qualità, mentre emunctae naris la verità è ben altra – ed è il motivo per cui alcor, del cui punto di vista professionale ci si deve fidare obbligatoriamente, dice che la pubblicazione “non basta”; e poi, se è solo per ‘mettersi in gioco’, è la pubblicazione su web che espone maggiormente. Un libro, un bollettino, uno deve andarseli a procurare in libreria, o in biblioteca, e far pervenire la propria eventuale opinione all’autore è macchinoso; la pubblicazione su web permette al primo cretino che passa – com’è appunto il caso, perfettamente dimostrativo, della GS – di sparare sentenze del tutto disorganiche, insistendo pure, senza muoversi nemmeno da casa. L’autore webbico è il meno garantito dalle aggressioni delle GiorgeSanto.

Non ti piace (vi piace) come idea? E cosa vuoi che me ne importi? Resta la mia idea 2) Mi sono permessa di notare che il testo non era scritto molto bene, tu dici che fila e scorre, io dico che sembra una scrittura affetta da singhiozzi e rigurgiti, vedi un po’ tu. Sono libera di dire che non mi piace o mi si deve saltare alla gola ogni due secondi?

Affiora qui piuttosto evidente l’isterismo della GS. Non è affatto illecito dire che il testo è scritto male, ma non è scritto né meglio né peggio di altre cose mie: l’ho riletto e non mi pare più intralciato di altre cose che ho postato. Che altro dovrei fare? Inoltre, nonostante la GS se la tiri da grande stilista – e non se lo può permettere, perché, come già detto, scrive di cesso – non è stato certo il mio stile ad essere messo sotto processo, ma la liceità del mio presunto far ‘critica’. Quanto alla definizione dello stile del pezzo, potrebbe essere riferito a qualunque cosa io abbia mai scritto, in chiave negativa; dunque la GS avrebbe dovuto, molto semplicemente, evitare di leggermi. O ammettere sinceramente che quello che scrivo in genere non le piace – invece di sostenere che in genere le piace, ma che ho scritto anche cose meno buone; di fatto, il riferimento, piuttosto fantomatico, a cose mie che varrebbero di più serve solo a giustificare la presenza dei suoi commenti sotto il mio post. Perché sa che in realtà sono ingiustificati, che la mia scrittura non le piace, non le è comprensibile e non le interessa, e che è intervenuta solo ora perché è rimasta contrariata dal fatto che la Giuditta è nominata da me con simpatia dopo che l’ho “stroncata” in altra occasione. In realtà è venuta solo per dire che ‘non è giusto’ che io scriva, che non mi attengo alle regole feudal-mafiose che suppone dovrebbero reggere la repubblica delle lettere. La mia scrittura outsider le sfugge; non sa un cazzo di scrittura e all’interno del ‘gioco’, come lo chiama, non conta verosimilmente niente, ma il suo esprit de géometrie ne è stato turbato, il suo squallido autoritarismo ne è stato scosso. È arrivata persino a pensare che io le stia sfuggendo, o che stia sfuggendo alla legge, all’ordine costituito, alle responsabilità, alle leggi in cui illusamente crede; e non capisce, o non vuol capire, che scrivo perché ci sono obbligato, e della repubblica letteraria non faccio parte perché non ci sono mai entrato, e non ci sono mai entrato perché non esiste.

3) E chi mai ti ha chiesto perchè la intervisti?

Ce n’era bisogno? C’era bisogno che mi chiedesse, la GS, perché ci vado d’accordo, o perché mi scrivo con lei? Era necessario avere da lei, come da chiunque sragioni come lei, l’ammissione – che niente le avrebbe comunque strappato, vigliacca com’è – che l’unica cosa che le dà fastidio è che non capisce rapporti umani un po’ più complessi di quello che riesce ad entrare nel suo limitato cervellino – senza contraddizione o ambivalenze, semmai, che, quelle, piacciono eccome alle servette di quello stampo.

4) C’era già tutto nei primi commenti, quei commenti che hai rigirato come ti pareva.

Nei primi commenti s’è visto che cosa c’era: personalismi, accuse fumose e idiozia allo stato puro.

5) Non dico nulla del testo della Russo…. allora non hai ancora capito, io non me la prendo con il tuo “parere” sulla Russo, è tuo, punto, dico solo che da parte tuo vedo più la tendenza a smontare l’altrui che a fornire qualcosa di fatto e finito.

E non è la stessa cosa? (A parte il fatto che anche se fosse? Quaulcuno ti ha mai promesso qualcos’altro?).

6) Su alcor non dico nulla perchè ci siamo ripromesse di ignorarci vicendevolmente e a questo punto forse è meglio che faccia lo stesso con te, almeno per la parte che mi compete.

“per la parte che mi compete” non dà senso. Altrimenti per che parte, chiedo scusa?

Ma qui la nojosa e stolida GS ha lasciato il campo ad un’altra voce; quella di flaviadabbene, che è un’autentica belva; il suo primo intervento, inviperitissimo, è già un capolavoro di astio e insofferenza; ma godiamo di questo suo secondo intervento, che è una stria di mestruo e di veleno:

Flaviadelbono: Già, che ti importa, intanto sei ininterrottamente intento a definirti agli occhi del primo che passa e che con due parole buttate lì sembra capace di farti veramente imbestialire, oh sì, sembri davvero tanto, tanto arrabbiato, che paura!

Questo testo da messaggeria per cuori solitarj, o da cesso di stazione ferroviaria, vi sembra cosa da lasciar correre, vero? Eppure lasciar correre è sempre un errore, quando si tratta di comunicazione. Molti messaggj sono veicoli di pensieri e ideologie che il mittente stesso, talora, nemmeno immagina: e le idées reçues non sono mai da trascurare, perché sono le più condivise, e non solo le più incontrollate. Se l’espressione, di becero furore, è ributtante, il concetto che nasconde è ancóra peggio. Chiaramente il testo è entassé, scritto alla cacchio, e interamente cortocircuitato. Bisogna aver la pazienza di estrarre, dalla melma, il solido dei singoli concetti, come stronzi fossili che, ripuliti, dànno conto piuttosto esatto dell’êra geologica a cui sono rimasti fermi molti (dico molti) dei nostri simili.

“Già, che ti importa” è reazione, normalmente, ad un atteggiamento di strafottente indifferenza; mentre la diobono, per quanto riguarda il resto del messaggio, altro non fa poi che ribadire quanto io sia influenzabile dal giudizio altrui. Ho già detto del dovere che bisogna farsi di una lettura attenta e puntuale di quante più cose scritte, da qualunque parte vengano e qualunque sia la loro qualità, si riescano ad affrontare. È in fondo normale che, nella sua esasperazione, la diobono abbia giocato la carta disperata della mia presunta passività di fronte all’espressione altrui. È un atteggiamento, il suo, e non solo il suo, del tutto malsano, perché inferisce la possibilità impossibile di un vuoto pneumatico, una specie di eroico nulla, nel quale l’espressione letteraria ad alto livello dovrebbe aver luogo, mentre chiunque non abbia il cranio ridotto a quella specie di bidone dell’immondizia che la diobono si ritrova, sa alla perfezione che una condizione del genere non è solo di per sé impensabile, ma nemmeno auspicabile. Altrimenti non darebbe senso l’urticante insofferenza che la minchiona riserva al mio presunto raccogliere tutte le provocazioni. Va da sé che le è almeno evidente che non è affatto, il mio, un raccogliere provocazioni, altrimenti non sarebbe così imbufalita. Ne consegue che l’imbufalimento è solo il suo; anche se lo attribuisce a me, un escamotage a cui – bisogna riconoscerlo – non aveva molte alternative, per quanto abbia ribadito più e più volte che da parte mia non c’era irritazione, ma volontà di ribadire fortemente certi fatti, specialmente circa le approssimazioni dell’altra sorda interlocutrice. Ora qualcuno mi dica, dopo aver detto e ripetuto che è mio dovere raccogliere tutto quanto è scritto ed entra nel mio raggio d’azione, almeno limitatamente a quello su cui posso mettere le mani, che effetto può fare questo invelenito, rancoroso riferimento al mio raccogliere tutte le provocazioni? Ho detto che tutto mi deve interessare, non che mi bevo tutto come oro colato. Ho riservato ai commenti della GiorgiaSanto tutta l’attenzione, e ne ho estratto insegnamenti; questo non vuole affatto dire che io debba alla GiorgiaSanto, che è solo un po’ meno spregevole della diobonino, alcunché: lei, come la sua camerata, non è in grado di insegnarmi proprio una sega quadra. Mi sono spiegato, perché è mio dovere chiarire, ma non vuol dire affatto che io abbia scritto ad uso della GiorgiaSanto o di qualche altra demente di passaggio; anzi, è vero il contrario, e solo il contrario. Il chiarimento è utile solo a me e a chi è in grado di capirmi. Non che siamo, essenzialisticamente, meglio della GiorgiaSanto (lo stesso non riesco a dire della flaviasticazzi, perdonate, ma ho anch’io i miei limiti), vuol dire che ho dedicato a questo tipo di cosa una parte del mio tempo più consistente di quella che la GS, e quelle come lei, o all’incirca, hanno ritenuto di dedicarle del proprio. Non è un titolo di merito: è solamente la ragione per cui, nel caso in cui sia letto da chi certe domande non se le è poste e a certe risposte non è arrivato, molto probabilmente il messaggio non sarà chiaro, risulterà incomprensibile. Se poi la persona che non è all’altezza di giudicare vorrà giudicare ugualmente, spinta da antipatia, livore, paura dell’ignoto, senso d’inferiorità, invidia – tutto può darsi a questo mondo – chiaramente avrà la risposta che si merita. Ma la risposta non è mai un vaffanculo, sic simpliciterque; al vaffanculo sento il bisogno di associare anche qualche riflessione, che è utile – certo! – a definirmi; con ciò confermandomi nelle mie convinzioni, laddove siano giuste, o consentendo ad altri di fare altrettanto con le proprie, ma anche consentendomi di metterle in discussione, quando siano fondate su presupposti ingannevoli, e di disfarmene, anche, perché no? Ma questa è la scrittura. Tutto passa attraverso il sé, inevitabilmente. La letteratura ha esattamente questa funzione, che è anche autodefinitoria, per quanto riguarda lo scrittore, o scrivente, o colui che scrive. Mi sembra inutile offendersene, mi pare, anche perché non credo esistano, se non in casi-limite di scritture che nessuno frequenta – e io stesso ne frequento alcune –, altre vere e proprie forme di scrittura.

Toccante, e lo dico senz’alcun sarcasmo, è poi l’odio di sé che traspare dalle parole della poveretta – si sono molto offese, mi hanno riferito, per il mio ‘poverette’: “sei ininterrottamente intento a definirti agli occhi del primo che passa e che con due parole buttate lì sembra capace di farti veramente imbestialire”. Il punto a cui si arriva, qui, è il fatto che non sono all’altezza dell’idea di scrittore che si è fatta – per fortuna, aggiungo; ma va da sé –, ma è ancóra più interessante come crede di poterci arrivare. Come fa a sostenere la mia indegnità? Con la pochezza della sua persona, e con la nullità di quello che ha da dire. Non ha altro mezzo, per dire che sono uno stronzo, se non facendosi passare come una stronza ancóra peggio. Nella sua furia incancrenita, deplorevolmente le sfugge che, mettendo così le cose (e ha ragione a farlo, in sé, perché è la verità: è proprio una povera stronza, e dice veramente due cacate in croce – proprio di quelle che, ahi!, “non meritano risposta”, ed è una cosa che a caldo mi sono lasciato sfuggir detta persino io; ma sono contrito, & crescerò), si mette in una posizione che automaticamente le toglie qualunque credibilità. È un atteggiamento che rivela un’indole indiscutibilmente perversa; la diobonino è certamente una di quelle donne cattive che tutti i giorni ci si strusciano addosso negli autobus e vagheggiano di dannarci l’anima, lasciandoci vuoti come baccelli sul ciglio di qualche fossato. Vorrebbe sfidarci, e se non riesce a farci uscire dai gangheri tenta di provocare la nostra furia per riflesso condizionato, dicendo “ah che paura”. Beh, non ha funzionato. E mo?

Il fine di tutto questo, però, come per la GiorgiaSanto, è tacitarmi. Chiudermi la bocca, spezzarmi i ditini con cui digito. Nemmeno questo è riuscito. E mo?

se credessi davvero in ciò che scrivi ti limiteresti a scriverlo e a darlo in pasto agli altri, invece passi un mucchio di tempo a tentare di convincere.

La frase si chiude con una menzogna palese, della quale non si può dire nient’altro se non che è una menzogna. È più interessante, perché è ideologica, la prima parte: si inferisce uno scrittore che, credendo in quello che scrive, lo dà “in pasto” – vedi l’immagine oscena della quale si serve, la piccola scrofetta – ad un pubblico famelico. Beh, si dà il caso che nel mio caso sia perfettamente indifferente che io creda o non creda nella mia scrittura; credo, sì, nella scrittura in genere, ma non credo nella scrittura di nessuno. E mo? E non esiste un pubblico famelico di scrittura, né della mia né di quella di altri, dunque non c’è proprio motivo di parlare di pasti, siano pranzi o cene. E mo? Della menzogna, quella caccola verdastra, filante, ancóra calda, appiccicata in fondo, si deve rilevare, semmai, solo il suo sconcio ribadire una scrittura fondata sul trogloditico rapporto padrone/schiavo, al quale questa menade crede perfettamente organica la mia scrittura. Se dedico qualche tempo alle questioni di poetica – non tralasciando il fatto che è questo il genere di pezzi per cui Domenico Pinto ha manifestato predilezione, ed è una cosa che può rendere perplesso anche me; ma non è questa l’altezza a cui affrontare l’argomento, sarebbe sordido confondere la mia perplessità con il prodotto delle ghiandole velenifere di quest’anfesibena in calore – ciò, nella distorta mente di questa piccola disadattata, è tentativo “di convincere”. Io chiaramente di lei me ne fotto, e me ne fotto anche di essere letto o no – è proprio quello che riassumevo con la parola ‘sfiducia’ – ma la piccola bestia velenosa non accetta l’apparente contraddizione, dev’essere necessariamente un’incoerenza da parte mia – non accetta, in realtà, di essere esclusa dal gioco. Non può concepire che il fetore delle sue loffe assassine non possa raggiungermi. La sua mente si rifiuta di accogliere un’idea semplice come la totale inanità della sua opinione, della mia imperturbabilità di fronte alle sue esternazioni di cavernicola deforme e distruttiva. Questo suo non è nemmeno scrivere: sono convulsioni.

Tutto questo tuo saltellare da un punto all’altro del web ingaggiando risse con tutti quelli che ti capitano a tiro, tutto questo urlare cazzo in maiuscolo credendo di impressionare qualcuno, tutto ciò che scrivi, sonetti, recensioni, critiche, invettive, anatemi, dileggiamenti, vaneggiamenti, tutto ha un unico scopo: indurre altri, un altro qualunque, a guardare nella tua direzione.

Siamo passati ad un’altra tattica, che è poi la stessa impiegata dalle numerose cittadine nigeriane, rumene ed albanesi, con quelle parrucche torreggianti e le pellicce sdrucite, in c.so Massimo, per chi ha nozione sia pur minima della Torino by night: avete presente quando una di quelle signorine ti fissa in muso, con gli occhî a palla, con un’intensità prossima a quella occorrente a farti uscire telepaticamente il piloro dalle narici? Ecco, dopo aver battuto un po’ di grancassa, la diobonino sta tentando di ipnotizzarmi. I suoi occhî sono fissi. Io frequento cinque blog in croce, e anche su NI vengo poco? Nossignori: … Tu – saltelli – da un punto – all’altro – del – web… Saranno cinque o sei anni che non ingaggio risse se non sul mio blog, grazie a qualche operatore offeso che invece di dirmi le cose papalmente s’improvvisa critico letterario e me le manda a dire? Neanche per sogno, d’ora in poi penserai solo quello che ti dirò io: … Tu – ingaggj – risse – con tutti quelli – che – ti càpitano – a – tiro… Ammollo, scrivendo, le stesse parole sconce che dico anche quando chiedo di passarmi il sale, quando pure mi siedo a desco? Ma nemmeno per sogno! Guarda il pendolino: … Tu – dici – cazzo – perché – vuoi – farmi – paura… Dico, chiaramente, che scrivo per un patto parzialmente tradito con un’indole mai diventata vera vocazione, con una vocazione mai diventata vero mestiere, e non tanto perché abbia da dire qualcosa a qualcuno? … Tu – scrivi – esclusivamente – per me – solo per me – ripeti, orsù: solo per me [e io: Orsù… solo per me…] – solo per me – ripetilo – o ti faccio – una macumba – che ti si seccano – i cojoni – solo per mesolo per me – cinquanta l’amore …

E se non funzionasse?

Scrivi rumore. Dovresti consigliare a te stesso modestia, discernimento, discrezione e un po’ di silenzio, ma è fin troppo prevedibile, già già, prevedibile, come tratteresti l’incauto consigliere.

Cioè? Manderei a fare in culo me stesso?

(Da notare che di ogni scrittore ti venga citato affermi di aver letto non più di tre pagine che, ovviamente, ti hanno dissuaso dal continuare: trucchetto ingenuo per non ritrovarti a parlare di scrittori di cui ignori l’esistenza.)

Dire che non ho letto un autore è un trucchetto per non dire che non ho letto un autore? E – chiedo scusa – se veramente non avessi mai letto un libro che uno? Se finora avessi solamente dato giudizj di quinta mano, o del tutto improvvisati? Ripeto la domanda fatta a proposito della GiorgiaSanto: in definitiva, quand’anche fosse? Che cosa vi aspettavate? E con che diritto ve l’aspettavate? Chi v’ha mai promesso niente? Chi vi conosce? Chi siete, voi? Chi mai vi s’è filate?

Flannery O’ Connor è un autore?

Peccato, in fondo, che si sia ritirata così presto. Era interessante (a parte l’alito tremendo).

Purtroppo è tornata quella bolsa ciscranna della GiorgiaSanto, che ha fatto una specie di resumè-ninnananna di tutto il nulla prodotto prima, con un effetto in dissolvenza, sul finale, come una delle teste impagliate del vecchio Ruysch:

GiorgiaSanto: A Giuditta Russo Io stessa avevo riconosciuto di essere OT. Riguardo al testo mi sono già espressa un paio di volte, in merito al come e non al cosa (per il cosa ho già detto che non l’ho trovato di mio interesse).

Zzzzzzzzzzzzzzzzzz….

Non è stata una lettura affetta da pregiudizio, ma se si vuole pensare (con un pregiudizio) che ne fosse affetta non ci posso fare nulla.

Lettura affetta da pregiudizio? Ma possibile che ci sia sempre qualcosa di affetto, in quello che scrive ‘st’imbranata? Avrà mica addosso qualcosa di contagioso? (meningite, magari?). Non si possono avere pregiudizj, oh scema, nei confronti di chi non si è mai inteso né conosciuto. Se c’è qualcuno che può avere pregiudizj, qui, quella sei tu. È chiaro, no?

Mi premeva solo di sottolineare, a seguito di certi toni non certo molto gentili e moderati (per quanto ignorati dal moderatore oculus dei), il modus operandi dell’autore, modus operandi evidente per chi legge la fitta serie di botta e risposta. In merito al fatto che non “avrei colto” le profondità abissali del pensiero contenuto in questo brano non ho nulla da dire, ognuno coglie quello che vuole cogliere o crede di voler cogliere, oppure vede nuovo e profondo o antico e profondo, o non profondo, non mi pare ci sia l’unità di misura delle profondità testuali, dipende fino a quanto ci si è spinti, per alcuni certi abissi sono pozzanghere e viceversa, dunque, personalmente, ci andrei piano con i “non hai colto”.

Io infatti non ho detto che non hai colto. Ho detto che non hai capìto un cazzo, che è diverso.

E queste ultime tue parole lo rendono ancóra più chiaro – ma non era affatto necessario. Nuovo e profondo, antico e profondo, non profondo, abissi e pozzanghere: ma che cazzo dici?

Ho già commentato quanto mi andava di commentare, commentate voi il testo ora (non posso dire che l’abbiate fatto molto neppure voi). Best regards.

GiorgiaSanto, di tutto cuore: ma va a quel paese. Tu, e tutti quelli di cui sei la fotocopia. E tutti quelli che non ve lo dicono, of course. Possa ‘sta patafiacca dare a questo fine un contributo determinante.

Ho concluso.

283. Comunicazione di servizio.

7 Set

Ringrazio Domenico Pinto per il link che ha messo, con l’indicazione relativa, in fondo alla cascata dei commenti sotto l’ultimo post gentilmente ospitato su Nazione Indiana. Nella giornata di domani intendo, qui, dato che oggi non c’è stata propriamente una risposta puntuale e sufficientemente approfondita agli interventi contestatorj, passare in rassegna quanto è stato detto, dato che fare questo è mio dovere di lettore, ed è mio dovere di scrivente; e inoltre perché è utile a mettere in chiaro una serie di altre cose – a scanso di futuri equivoci, volendo, ma anche e soprattutto perché la chiarezza è, appunto, un obbligo.

Sono divertito, da una parte, dallo spettacolo miserando che specialmente due individue hanno ritenuto dover dare di sé, ma sono anche sinceramente dispiaciuto per la confusione che ne è venuta fuori, che non contribuisce a mantenere alto il livello di Nazione Indiana.

Domani non ho nessuna intenzione di intavolare altre discussioni: a parte il fatto che è scontato che altre polemiche con stronze di passaggio sarebbero stroncate sul nascere (ho una blacklist che trabocca),  credo comunque  non ci sia pericolo, dal momento che, tolto il palcoscenico di NI, nessuna di queste esibizioniste, o semplici lamer, avrebbero mai nessun interesse a prodursi in una situazione di nicchia quale è e vuole continuare ad essere questa. Ma sicuramente mi prenderò la briga di passare in esame tutto quello che è stato detto, dato che nulla dev’essere al disotto della mia attenzione, in modo che sia più evidente come mi pongo nei confronti di chi vuol leggermi.

Il fatto che, a parte alcor, Dario Borso, Giuditta Russo e diamante, la stanza sia diventata terra di nessuno, spadroneggiata da gente di merda, che non ha peraltro detto una virgola in proposito di quello che era stato scritto, deve dar da pensare; è un tema che m’interessa, ovviamente, e che voglio approfondire. Se non altro per ribadire che la cosa più importante rimane quello che nel post avevo scritto in merito all’ideale destinatario di quello che scrivo.

Colgo l’occasione per rendere edotto chi non lo avesse capìto che non è mia intenzione riaprire dialoghi con persone con le quali ho chiuso, né di riesumare dall’antispam chi ci è finito anni fa.

282. Sfiducia.

5 Set

Prima o dopo, checché ne dica il volgo, terrò fede a tutti i numerosi obblighi che mi sono dato, primo tra tutti l’intervistone a Giuditta Russo; purtroppo il progetto è rimasto finora allo stadio di progetto proprio perché le Confessioni di un avvocato senza laurea sono ormai irreperibili in tutte le librerie che conosco, e non è stato facile trovare chi mi spedisse il libro – questo avviene quando si procede con una scarpa e una ciabatta, come si conviene a uno straccione: le cose o non si trovano o non ce le si può permettere, sic simpliciterque. Sfumata, evidentemente, la possibilità di farmi arrivare il libro da una parte, mi arriverà ora dall’altra, vale a dire dalla stessa Giuditta Russo, che ha avuto la finezza di spedirmelo, proprio col fine di esso intervistone.

Nel frattempo, via mail, il dialogo, o dialogone, è già in qualche maniera cominciato, in modo informale e privato – e destinato a rimanere tale: privato ed informale, appunto. In esso dialogone io e GR abbiamo parlato del più e del meno, del per e del diviso; se vi accenno anche pubblicamente non è per mandare in vacca ogni doverosa riservatezza, ma perché è stato sollevato, più da me, mi sembra, che da lei, un punto che non riguarda solo quello che io effettivamente penso, e che lei pensa sia poco o credibile o fondato, ma anche il mio rapporto e con la scrittura e con altre persone tramite essa. Tranquilli: non intendo assolutamente adesso mettermi ad interrogarmi sul motivo per cui scrivo, rivolto a quale tipo d’interlocutore, e perché – sono tutte cose, queste, che mi sono perfettamente note, e che i miei 5 lettori abituali immaginano già per loro conto, sennò non tornerebbero. Lo vedo dal mio stesso caso: ci sono cinque o sei blog che ho letto per intero, e che conosco, e di cui seguo gli sviluppi quotidianamente; io immagino di sapere esattamente per quale motivo alcor o il marinajo o lo sgargabonzi o azu scrìvano, dal momento che io stesso trovo tanto fruttuoso leggerli; e suppongo che per quelli che càpitano qui spesso sia la stessa cosa. Ce ne saranno poi altri, magari, che vengono qui tutti i giorni perché da una vita si arrovellano su dove io intenda andare a parare, e ancóra non lo capiscono: ma quelli fanno categoria a sé, e non sono riguardati da questo discorso.

La questione, appunto, è un’altra. E quando, da rebstein, una persona che conosco anche de visu, anzi soprattutto in via diretta e non telematica, ha lasciato scritto (affermazione per me interessante proprio perché perplettente) di dispiacersi di non leggermi più di frequente, allora ho cominciato a chiedermi se anche con le persone che mi leggono ritenendo sia tutto già capìto non ci sia qualche sostanziale incomprensione.

L’affermazione mia alla quale Giuditta Russo fatìca a credere è una mia – banale, come saprebbe chiunque sia in una situazione simile alla mia – frasuccia, lasciata cadere pressoché incidentalmente, sulla mia sostanziale sfiducia nei confronti della gente. È vero, io della gente non mi fido. Ma più nel senso che non mi affido che nel senso che diffido. Non vivo nel sospetto delle persone che mi circondano, la stragrande maggioranza delle quali ignora alla perfezione che cosa io scriva, che scriva, e perché, né se ne interesseranno mai. Convivo in maniera perlopiù pacifica, salvo occasionali esplosioni d’ira omicida, che non fanno testo, con le persone che conosco, e con le quali mi ritrovo a stare gomito a gomito. Non litigo spesso e non cerco di avere più informazioni, sulle persone, di quelle che le persone stesse ritengono di dovermi dare. Prendo, ovviamente, tutto con beneficio d’inventario, senza dubitare di nulla e senza giurare su nulla, tra il credo quia intelligam e il chissenefrega – in effetti molta dell’informazione che mi raggiunge, essendo mero aubiografismo, è sovrabbondante rispetto alla mia necessità di sapere, che è un impulso, in me, scarsissimamente vitale, specialmente quando si tratta di cazzi altrui. A meno di non trovarmi di fronte a cose eclatanti, va da sé, ciò che in ogni caso rileva della qualità malata del mio gusto, come quella di tanti altri.

Ciò detto, fa notare Giuditta Russo non inutilmente, se non ti fidi di nessuno, al punto di – come tu stesso dici (io riassumo, mica ha detto veramente così) – non trovarti mai nelle condizioni di dover verificare l’affidabilità di chicchessia, come mai tieni un blog? Perché comunichi? Come mai t’interessi di persone?

La domanda è tutt’altro che banale, chiaramente, anche se la risposta ce l’ho già, anzi ne ho una serie nutrita: 1. è pressoché impossibile compiere un atto che non abbia ricadute sul contesto, l’uomo essendo animale politico; dunque, perché non compiere atti che, dati gli istituti a cui si riferiscono, sono fatti proprio apposta per ricadere sul contesto? Chissà che qualcosa non ricada, vantaggiosamente anche su me; 2. io ho cominciato a scrivere un milione di anni fa, e adesso che sono vecchione è tardissimo per smettere. È in qualche modo fatale che chi scrive voglia farsi léggere, anche se in fondo non gliene frega assolutamente niente, ma così, per esprit de géometrie; 3. la rete, nello specifico, mi permette di superare d’un sol salto tutti gli ostacoli che mi proverrebbero, e di fatto, nella quotidianità mi provengono, dall’odore che emano, dalla spalla più bassa dell’altra, dalla gamba di legno, dall’occhio di vetro e dalla psoriasi; qui sopra, invece, convincervi tutti che sono bellissimo, biondo, ricciolino e leggermente bisessuale è stato un gioco da ragazzi; 4. e così via.

Tutte risposte a dir poco di una validità sconcertante; ma che non soddisfano in pieno alla questione, dato che non eliminano la contraddizione.

Di fatto bisogna intendersi sulla mancanza di fiducia. La gente è normalmente molto diffidente: sono bidoni le vecchie che temono per il portafoglio con la pensione dentro e i rapinatori abituali che sobbalzano al primo ulular di sirene. Dunque (punto primo) io non faccio eccezione. Ci sono persone, poi, che dubitano degli altri preventivamente; se sono ambiziose, si disporranno a pensare il peggio del peggio dei loro simili in modo da avere tutte le scuse pronte per quando faranno loro tanto male, tutto necessario alla scalata al successo, come indurli al suicidio o avvelenargli il cane. Altri ancóra diffidano perché sono stati allevati da vecchie zie e da cugini paranoidi; altri ancóra hanno mille altri motivi per diffidare. Ma tutti questi casi, assai dissimili tra loro, sono accomunati dal fatto che questa diffidenza, che è solo una parte, non necessaria e non sufficiente, del concetto di ‘mancanza di fiducia’ nei confronti degli altri, è preventiva rispetto all’esperienza. E può darsi che tutte le forme di sfiducia siano preventive, nel senso che non basta dire: A me manca la fiducia nella fondamentale bontà dell’uomo perché A, B e C mi hanno ciulato, e adesso non voglio che ricapiti anche con D, E ed F. Rimane pur sempre il fatto, infatti, che la diffidenza nei confronti di D, E ed F sarà necessariamente preventiva, benché sia preceduta da una sensata esperienza. Infatti, A, B, e C sono altro da D, E, ed F; e qualunque disposizione d’animo il soggetto diffidente ritenga di avere senza aver saggiato, prima, con mano, se è veramente giustificato, è per definizione un pregiudizio, una prevenzione. Si può obiettare con successo che è comprensibile che uno che è stato ciulato tante volte metta in atto qualche strategia difensiva per proteggersi dall’eventualità che anche D, E ed F vogliano venirgli nel boffetto. Lo capisco, ma se D, E ed F non avessero assolutamente nessuna intenzione, nonché di penetrarlo, nemmeno di toccarglielo?

Si vede dai termini paradossali e sarcastici in cui ho messo la questione come io non sia affatto diffidente nei confronti delle persone, e quanto poco ritenga dovere della mia felicità ai miei pregiudizj – infatti, come non sono particolarmente felice, così non ho prevenzioni di sorta.

La mia mancanza di fiducia, in effetti, è di tutt’altro tipo: io non guardo in cagnesco le persone (con i ceffi che girano non converrebbe nemmeno), sempre sul chivalà nel caso succedesse qualche rovescio. Non faccio gli occhî a fessura di fronte a una gentilezza, e non abbajo automaticamente che solo i giotti a mensa e le puttane in letto più dell’usato sogliono accarezzarsi. Non penso che chi sta meglio di me (seh, gli piacerebbe) mi stia levando qualcosa, e che ci sia sempre qualcosa, dietro, che non va. Non metto le mani in culo alla gente, in cerca di spiccioli, tabacco, e biglietti del tram, autoconvincendomi che tanto il padrone del culo farebbe lo stesso con me alla prima occasione. In realtà, per me, la vita non ha misteri – voglio dire che non mi sono mai trovato di fronte alla necessità d’indagare su chicchessia per saperne quello che mi occorreva saperne, né mi è mai, mi sembra, convenuto credere alle mie stesse illazioni come fossero oro colato. Non sono un dietrologo, essenzialmente perché credo che dietro non ci sia assolutamente nulla, o almeno il mondo – sta a vedere che magari è proprio così – mi parla sempre a muso aperto.

La questione, per essere espliciti, è che le relazioni che intrattengo con le persone, poche, che conosco, male, sono sempre o quasi sempre basate sullo scambio di qualche banalità, o di monetine, o di qualche cartina. Sono relazioni semplicissime e del tutto chiare: normalmente l’interlocutore, di qualunque estrazione esso sia, è del tutto esplicito. Talora mi confessa apertamente di star tentando di ottenere da me un numero doppio di cartine di quelle che io stesso ho chiesto ad esso interlocutore due mesi avanti, se la questione verte sulle cartine. Se si parla, e talora càpita, di scrittura, l’interlocutore mi dice con qualche ambage, ma non tante da offuscare la sostanza del discorso, che comunque scrivo di merda, che la mia formazione è come minimo ricicciata e che ignoro il latino. Se si discute di questioni meteorologiche, può capitare che sia anche accusato della sparizione di ombrelli, o di giacche a vento. E anch’io tendo ad essere esplicito allo stesso modo, perché la mia condizione è questa: ogni sfumatura è bandita, dal mio mondo, tutte le relazioni sono sanamente e cordialmente aperte, ognuno parla col cuore sul labbro. Quando ottengo il sospirato posto in un dormitorio, e il compagno di stanza defeca sul pavimento, dico Che puzza. Se mi dànno da léggere una poesia dico tranquillamente Io di ‘sta roba non capisco un cazzo. Se in autobus qualcuno mi chiede il biglietto io gli rispondo Non ce l’ho. Tutte affermazioni che traducono in termini chiari un concetto chiarissimo. E, dato che è una condizione faticosa e dura, è ovvio che prevalgano sentimenti distruttìvi ed atteggiamenti demolitorî. Come si dovrebbe, poi, mettere alla prova la fiducia di qualcuno? Attraverso un progetto comune: io mi sbilancio, supponendo/sperando che lo stesso voglia fare tu. Se l’altro lo fa, o è lui che finisce ciulato, o il progetto prende il via, si sviluppa, e da cosa nasce cosa – la fiducia, innanzitutto. Se l’altro non lo fa, tu o hai pensato bene di sbilanciarti solo per finta, o finisci trombato, il progetto abortisce, non decolla, donde la sfiducia, magari riferibile anche ad altri, a tutti, o magari solo a quelli che hanno lo stesso colore di capelli o lo stesso accento cuneese. Ma che progetti veri vuoi avere, quando sei circondato da persone mentecatte e fossilizzate che stanno peggio ancóra di te? A meno di non puntare su qualche persona normale fortunosamente raccattata all’angolo della strada qualche sabato sera, in occasione di una formidabile sbronza; ma quale persona normale, passata la piomba, si fiderebbe di un barbone?

Ecco come la vita, anche in questo caso, invade gli spazî artefatti ed asettici della rete, sotto forma di sfiducia, spesso molto profonda. Ma non una diffidenza, perché, in realtà, non c’è nessunissimo motivo per diffidare. C’è solo motivo di non aver fiducia, che è un altro discorso.

Ed è liberatorio, molto. Questa radicale, e del tutto conseguente, mancanza di fiducia è in realtà una forza, non una penalizzazione. Non è un atteggiamento distorto, come appunto la diffidenza, e non è pregiudiziale. Consiste, anzi, nella non-pregiudizialità per eccellenza: si è liberi anche dal pregiudizio della fiducia. Mancano sia la fiducia sia il suo contrario. A questo punto, che cosa non si può fare? Ci si può prostituire, tanto non è detto che ti portino in qualche angolo oscuro del Valentino, a massacrarti a bottigliate. Si può fare qualche modesto furtarello, ogni tanto, tanto non è detto che finisci in galera, e anche se ci finisci non è detto che te la passerai tanto male. Si può finire in galera, appunto. Ci si può dedicare al gioco delle tre carte, si guadagna, e poi la finanza mica passa sempre. Si può fare la statua vivente, non tutti i ragazzini sono dotati di zolfanelli e taniche di benzina. Si può dormire a Porta Nuova, tanto Casa Pound durante la settimana non organizza spedizioni, basta prestare un po’ di attenzione – senza che questo implichi prevenzione, ci mancherebbe – nelle notti di venerdì e sabato.

E si può anche aprire un blog. Qualcuno potrebbe anche venire a léggere.

281. Venti.

5 Set

All’annunciarsi dell’Autunno, riscontrava che allo stagionale risvegliarsi dei Venti e al ritorno in massa dei Torinesi dalle Vacanze Estive, faceva curioso e pressoché incredibile Riscontro una quantità di casi d’incomodissime Flatulenze; & faceva tra sé qualche Riflesso.

Sonetto.

Eolo irritato all’opera ritorna,
Sbuffa al pensar le prossime fatìche,
Abbandonando ormai le grotte antiche
In cui d’estate placido soggiorna.
Ma con ben altre raffiche si scorna,
Che scorron non soltanto in plaghe apriche,
E che non sempre (all’uomo più nemiche)
In campo aperto il nume o sperde o storna.
Nati da estuosi torpidi fermenti,
Dall’alvo arso che li ospita e disserra
Figlia anche l’uomo contro l’uomo i venti!
Se, d’Eolo a contrastar l’aperta guerra,
Gli sbatto in faccia ermetici battenti,
V’è un peggior vento, che mi sbatte in terra.

280. Di nuovo Kipling.

3 Set

1. Premessa indispensabile. Questo pezzo, di cui mi sono ricordato dopo, doveva venire prima di quello già postato, ma è comunque, o prima o dopo, perfettamente complementare. Riguarda sempre la questione dell’etica applicata all’arte – come pratica, e l’idea di postare questo IV capitolo della citata Light that failed di Kipling m’era venuta all’altezza del post precedente quello a cui il mio post precedente si riferisce. È complicato a dirsi, ma è così.

2. Un’idea di The Light that failed. Questo romanzo, The Light that failed, è del 1891. Ha una vicenda editoriale abbastanza particolare, dal momento che fu stampato una prima volta in rivista, sul Lippincott’s Monthly Magazine, nel gennajo di quell’anno, con un lieto fine; e poi in volume, entro la fine dell’anno, con un finale tragico (il lieto o tragico fine dipendeva dalla posizione assunta dal personaggio di Maisie nell’uno e nell’altro caso). In entrambi i casi fu un successo inferiore agli standard di Kipling, più che per motivi di finale per via del tema: è un romanzo di poetica, in effetti zeppo di cose da meditare per chi dipinga, scriva o faccia musica, ma meno interessante per il vasto pubblico. La schietta nettezza dei giudizî, il senno senza ovvietà, la mancanza totale di intellettualismo, l’approccio sommamente pratico, l’eloquenza, ne fanno una sorta di manuale (romanzato) d’etica per artisti, con importanti riflessioni sul rapporto col pubblico. Dovrebbe essere letto, anche per capirne in pieno questo spezzone, per intero.

Il romanzo parte dall’idillio infantile di Dick e Maisie, sottoposti alle cure, spesso violente, di una ms. Jennett particolarmente dura e autoritaria, per poi seguire la storia di Dick militare durante la campagna nel Sudan di Gordon Pascià (conclusa nel 1885); qui le doti di Dick come disegnatore sono notate da Torpenhow, che fa corrispondenze di guerra, e gli propone di procurargli immagini da accompagnare ai testi. Tornati in Inghilterra, i due vivono insieme. Qui Dick rifiuta di cedere la proprietà intellettuale dei suoi 150 disegni alla corporazione per cui ha lavorato dal fronte, e si mette ad esporre per conto suo. Ha studiato per 2 anni con un leggendario maestro francese, Kami, che è una figura indirettamente presente come rappresentativa, simbolica, di un certo modo nuovo, post-pompier, di concepire l’arte in quel torno d’anni. Benché sia molto dotato, Dick, per uscire dalla miseria, compiace il pubblico delle riviste illustrate, facendosi pagare profumatamente per immagini del tutto convenzionali; il tema, unico, è quello della guerra e dei militari. Nel tempo stesso, guadagna consensi presso il pubblico di falsi pensatori che scambia la sua per arte povera, fauve, soprattutto per quanto riguarda l’uso del colore, che sembra particolarmente fantasioso quando di fatto ripropone calligraficamente le tinte di paesaggi equatoriali a cui il medio pubblico inglese non è certo abituato. Torpenhow e Nilghai, altro ex-corrispondente della spedizione, cercano di dargli qualche rude indicazione deontologica. Dick reincontra Maisie, della quale in un certo senso si reinnamora, e alla quale dà molti consiglî. Maisie non è altrettanto dotata quanto lui, ma è molto ambiziosa, e a sua volta studia con Kami, del quale si scopre che è attualmente allieva (nel fatto, prima ignorato da Dick, che Kami si divida tra Francia ed Inghilterra sembra potersi léggere una polemica contro l’omologazione delle scuole ad un modello unico). Il loro idillio procede faticosamente – Maisie è peraltro coinvolta in una relazione lesbica, allusa con sufficiente chiarezza – finché Maisie riceve la proposta di una “Malinconia” da esporre al Salone. Lasciando i soliti temi militari, mentre Maisie va a raggiungere il maestro, e a compiere l’opera, a Vitry-sur-Marne, Dick si dedica a sua volta ad una “Malinconia”, prendendo a modello una mezza deficiente raccattata per strada; proprio a quest’altezza cominciano a manifestarsi i primi problemi alla vista, dovuti ad una sciabolata al capo, in guerra, che ha danneggiato il nervo ottico, e devono portarlo rapidamente alla cecità. In lotta contro il tempo, Dick compie il suo capolavoro – che poi è distrutto dalla modella, una ripicca per averla egli allontanata da Torpenhow, del quale s’era invaghita; il mattino dopo Dick si ritrova cieco, impossibilitato, fortunatamente, a vedere la sua “Malinconia” distrutta. Torpenhow lo accudisce; quando però decide di tornare in guerra, si prende l’iniziativa di andare a prendere Maisie a Vitry e condurla da Dick. Maisie si scopre debole di fronte alla disgrazia, o meglio tien fede a quello che ha sempre detto, cioè che la pittura per lei è la cosa più importante. Dick, cieco com’è, non ha alternative che partire per la guerra con gli ex-commilitoni; una pallottola pietosa lo leva dal mondo.

3. Un’idea di Kipling, scrittore indipendente, nei rapporti con la letteratura e la politica del suo tempo. Rudyard Kipling nacque a Bombay il 30 dicembre 1865 e morì nel Sussex il 18 gennajo 1936: di una generazione più giovane, per esempio, del molto problematico e torturato Thomas Hardy (1840-1928), è coetaneo dunque di D’Annunzio (1863-1938) e Pirandello (1867-1936): bastano queste coordinate biografiche per farlo inquadrare in àmbito decadente. Dato che la storia può più dei singoli, qualunque intenzione essi abbiano di opporre resistenza all’irresistibile attrazione del tutto, anche Kipling, di là dalla cinica apoditticità e la marca apologica della sua narrativa, è uno scrittore dannatamente complesso e sfumato, e dev’essere letto con attenzione. Il prof. Charles Cantalupo, Pennsylvania State University, Schuylkill Campus, estensore di una lunga voce dedicatagli nel Concise Dictionary of British Literary Biography, vol. V: Late Victorian and Edwardian Writers 1890-1914, Bruccoli Clark Layman, Gale Research Inc., Detroit-London 1991, ad v., esordisce infatti con queste parole: “The years 1890-1932, during which Joseph Rudyard Kipling was having his books published in London and New York, coincided with the development of modernism and its establishment as the dominant literary style of the twentieth century. Kipling’s immense body of writing – 5 novels, roughly 250 short stories, more than 800 pages of verse, and many nonfiction pieces – seems to have little obvious relationship to modernism. Yet his books were extremely popular; 15 million volumes of his collected stories alone were sold. Kipling’s work, particularly his poetry, has received far less scholarly and critical attention than the efforts of major modernist writers, and he has not had as great an influence as writers such as William Butler Yeats, T.S. Eliot, Ezra Pound, or Wallace Stevens on generations of successive writers. Kipling’s inability to inspire the most intense kinds of critical interest and literary imitation seems due equally to his literary style and his subject matter”, &c.: “Gli anni 1890-1932, duranti i quali i libri di JRK erano pubblicati a Londra e New York, coincisero con lo sviluppo del modernismo e la sua affermazione come stile dominante del ventesimo secolo. L’opera di K, quantitativamente immensa – 5 romanzi, grosso modo 250 racconti, più di 800 pagine di versi e molti pezzi non narratìvi – sembra avere pochi rapporti palesi col modernismo. Tuttavia i suoi libri ebbero enorme smercio: solo dei suoi volumi di racconti furono venduti 15 milioni di copie. L’opera di K, in particolar modo la produzione poetica, ha ricevuto un’attenzione di gran lunga inferiore da parte di studiosi e critici rispetto alle fatìche dei più importanti poeti modernisti, ed egli non ha esercitato un’influenza paragonabile a quella di William Butler Yeats, T.S. Eliot, Ezra Pound o Wallace Stevens sulle successive generazioni di scrittori. La scarsa ispirazione fornita da K al più intenso esercizio critico o all’imitazione letteraria sembra dovuta in pari misura al suo stile letterario e alla qualità dei suoi argomenti”. Naturalmente, avendo esordito in questi termini, il professore tende poi a ribaltare questa falsa estraneità di K allo spirito del suo tempo: e fa benissimo. Ma rimane il fatto che per molti aspetti K rimane come fuori dall’ampio contesto in cui si muove, e che porta avanti, perlopiù, un discorso solamente suo. Si spiegherebbe in questo modo la sua fedeltà a schemi narrativi del tutto elementari – l’apologo, la favola – che convivono, stranamente armonizzando, con il cinico, spietato realismo di moltissima sua narrativa breve: la semplicità degli schemi, la rozza linearità dell’assunto, la presenza di una ‘funzione’ precisa, dànno ordine ad una materia spesso cocente, crudele, consentendo di svolgerla in modo proporzionato e limpido, ma, insieme, anche di spiegarsi ad un pubblico nel cui contesto la differenza tra scrittore e lettore andava a mano a mano erodendosi, lasciando spazio crescente ad una specie di anfibio, il letterato – e tutti gli autori citati a titolo di esempio dal professore sono scrittori-lettori, artisti-ragionatori, poeti assai discutibili, a tratti detestabili – Yeats, Eliot, Pound, Stevens sono letterati le cui ambizioni possono, nel caso estremo di Pound, portare al connubio allucinato con le derive della politica mondiale, se è per quello, ma nascono sempre nella solitudine dello studiolo, nel contatto ossessivo col libro, dalla conversazione con un côté professionalmente orientato in quel senso. Non per caso, proprio Eliot, come critico-poeta, è il responsabile di quella sorta di Kipling-renaissance che è conseguita ad una serie di lucidi saggî dedicati specialmente al Kipling poeta, e l’editore di un’antologia famosa, A Choice of Kipling’s Verse, del 1941.

Nel caso di Kipling le cose vanno ben diversamente. Non che le sue origini siano umili: ma i 24 primi anni della sua vita si svolgono in India, salvo nel decennio 1871-1882, in un contesto che solo a distanza si potrebbe considerare privilegiato. Specialmente la conversazione, sulla quale lo scrittore modula la sua prosa, non è allenata in qualche àmbito universitario, o salon, o in qualunque situazione privata ne perpetui le atmosfere: esordisce, ventunenne, pubblicando i pezzi scritti dai 17 anni in poi per la Civil and Military Gazette, con pezzi maturi e violenti, in cui forte è l’attenzione alle parlate particolari, ai gerghi, alle mescolanze; per quanto sia consapevolmente già poeta e scrittore, si tratta di linguaggî che sente parlare, e che parla, non perché ne è andato in cerca col fine di scrivere raccontini d’ambiente, ma innanzitutto perché sono quello che si parla nel contesto in cui si trova, e come tali si riversano fatalmente nella sua scrittura. La sua famiglia non è incospicua, e conta alcuni artisti figuratìvi e personaggî importanti: il padre, pittore in proprio, è conservatore del museo di Lahore; una sorella della madre sposa il pittore Edward Burne-Jones, e un’altra sarà madre del politico Stanley Baldwin (The Cambridge Guide to Literature in English, Edited by Ian Ousby, foreword by Margaret Atwood, Cambridge University Press, Hamlyn Publishing Group Limited, London 1989, ad v.). Kipling è anche disegnatore – grandissimo – specialmente grazie alle frequentazioni, con lo zio Burne-Jones, e con William Morris; i Kipling sono domestici con Swinburne, Browning, Christina e Dante Gabriel Rossetti, e Ford Madox Brown; le frequentazioni intellettuali, che sono determinanti anche per la scelta delle scuole da frequentare e in genere per la formazione di K, non impediscono che gli otto anni trascorsi da K in casa dei parenti, continuamente rievocati in opere successive, siano sinistramente simili ad un inferno tipicamente sottoproletario; e che i contesti indiani in cui è immerso nei suoi esordî d’artista siano parti d’un mondo arduo e sfasciato, in cui la vita è difficile e l’umanità e la natura rivaleggiano in violenza. Kipling è probabilmente il primo scrittore inglese importante a fare i conti che due generazioni e mezzo prima già gli americani avevano dovuto fare – vedi Melville – col narrabile, e in termini di verosimile e in termini di tradizione del decoro; tradizione, quest’ultima, che è come un ombrello che copre anche il problema estetico. Molte cose possono essere non tanto poco canoniche in sé, ma soprattutto possono essere la morte della bellezza. Il letterato vive un sogno irrealizzabile, ma ininterrotto, di bellezza, che poi è la composizione di molto materiale ultroneo: il sordido, l’alienato, l’insensato, quando ne va in cerca, sono sempre poetabili perché visti come dall’interno di una sfera di cristallo. Kipling, come non-letterato, è un poeta continuamente impegnato nello sforzo di tenere la sua poesia al disopra degli scarichi neri dell’esistenza, pur senza mai perderla di vista. In Kipling non esiste quell’altro concetto di sé, che sicuramente detestava cordialmente nei colleghi, che si associa normalmente, anche in assenza di risultati palpabili, allo scrittore secondo la tipologia più nota; Kipling è solo uno dei tanti, o tale è stato in molte occasioni. Ha conosciuto non solo e non necessariamente iperboliche fatìche o situazioni di pericolo e romanticismo ed avventura: ha sentito, quando è stato il caso, di esser nulla e meno di nulla, il peso e la nausea dell’umiliazione, l’impotenza viscida di chi è fisicamente non all’altezza, e ha provato per converso tutta una serie di esaltazioni volgari, come il piacere del successo ottenuto d’un botto ancóra giovanissimo, e tante altre cose, altrettanto volgari e non tutte poetiche, che tutti gli uomini volgari di questo mondo hanno provato, provano e proveranno. Scrivendo, si rende conto che tutte queste cose non ‘fanno’ scrittura se non per chi non le ha mai conosciute fino in fondo, e regge tutta la sua ragion d’essere scrittoria sul proprio acume di lettore e sulla vastità della propria erudizione; Kipling, di là dai tempi, che potevano essere maturi anche prima, non avrebbe mai concepito uno Sweeney: solo un letterato come Eliot, per cui Sweeney è una rarità, avrebbe potuto considerarlo materiale poetico, e infatti è sordido come che, e chissà che occhî lucidi aveva Eliot nel mettere la parola punto, e com’era rosso in faccia, e con che soddisfazione si fregava le grasse manocce. Sweeney, per Kipling, è invece solo uno dei tanti, e sa di non essere affatto diverso da lui, quando le circostanze lo impongano: mancandogli il senso di superiorità rispetto all’uomo mediocre, anche nei suoi aspetti più urtanti, non ha nemmeno stimolo a scriverne – non in quel modo. Se, dunque, la carriera del letterato consiste essenzialmente nel tener fermi, tra le tempeste della vita, i capisaldi di una condizione esistenziale da prescelti, difesa a suon di citazioni e di autoedificazione personale (ma la funzione, appunto, è sempre più difensiva che costruttiva), il poeta Kipling, questa gingkofita degli scrittori, vede nella scrittura una funzione diversa e più fondante: ben lontano dal prendersi libertà col reale e coi proprî simili, consapevole di quello che vale un uomo solo nel mondo (cioè niente), fa della scrittura un esercizio di lucidità, uno strumento che deve servire a conseguire una visione formalmente esatta del reale: la funzione della sua scrittura è in una specie di fortificazione. Questo lo conduce all’apologo, alla fiaba, alla favola, come strutture narrative elettive per la ricerca della forma buona: cose da bambini che effettivamente ai bambini finiscono spesso in mano, ahiloro, perché non so che cosa possano capirne. La prima volta che le Just so stories mi furono messe in mano, feci due cose, che non ho mai fatto con nessun altro libro illustrato: apprezzai infinitamente le arcane figure di mano dello stesso autore; e misi via, con una saggezza che fatìco ancóra a riconoscermi, il libro, ripromettendomi di rileggerlo a distanza di qualche tempo – un tempo che, allora, non poteva non essere pressoché infinito. Feci benissimo, perché nonostante sia un libro scritto espressamente per bambini – il solo dei suoi – a un bambino non dice più di qualunque altro suo scritto. (Nello stesso anno lessi Il muro del letterato Sartre, quel libro concepito sulla scorta del livido Céline, che contiene tante cose ciniche, claustrofobiche e crudeli, proprio da adulti – e che capii proprio alla perfezione, e mi piacque molto). L’altra conseguenza dell’essere Kipling così immerso nella vita è l’impossibilità matematica, per lui, di essere quel vessillifero dell’impero britannico che s’è voluto farne. Il canto dei soldati per il primo Giubileo della regina Vittoria (1887) è francamente irriverente – la regina vi è detta, in cockney, la Vedova di Windsor, quella che ha i milioni, e ci lascia qui in cencî; il premiato “Recessional”, per il secondo Giubileo (1897) è critico. Nel 1899 rifiutò il cavalierato offertogli dal primo ministro, un conservatore. Si pronunciò a più riprese in toni acri ed allarmistici a proposito della politica. Orwell, le cui idee in politica sono abbastanza ripugnanti per loro conto, gli rimprovera di non essersi pronunciato per la liberazione degl’Indiani, mi par di capire: ma io temo che il contesto in cui Kipling era nato fosse di tipo composito, una di quelle ‘patrie ideali’ che sono un ponte gettato tra due civiltà; se le due civiltà effettivamente do meet succederebbe esattamente quello che succederebbe se si separassero, ossia il ponte crollerebbe. Kipling non si pronuncia in senso gandhiano perché Gandhi non è del suo tempo, né per gl’Inglesi né per gl’Indiani. Questo non basta a farne un vessillifero: i suoi soldati inglesi, spesso cialtroni, cenciosi, stracchi, facilmente corruttibili, di cuore non buono e non cattivo, ladruncoli e privi di fede investono di una luce marcatamente, come dire?, meridionale, da popolo decaduto, il mito ferreo, ammirevole, iniquo ed austero dell’impero: e, certo, non sono adatti a nessun peana. Kipling, come manca del distacco del letterato, così manca anche del suo triste privilegio – quello di potersi fare voce di tutta una civiltà, o l’appulcratore delle sue magagne. I soldati che marciarono nel Transvaal effettivamente cantarono le rime di Kipling; ma non si tratta di pindariche piene di luce, speranza & gloria, quanto ciniche gnàgnere, dalla musicalità peraltro stupendamente arguta, in cui si dà una misura spietatamente esatta di quello che effettivamente quei soldati stavano facendo – i soldati che marciavano cantando Kipling non erano soldati, ma uomini. Solo un letterato particolarmente cretino può credere di cambiare la storia del mondo coi proprî versi, o che veramente la propaganda possa far mutare d’avviso le persone: semmai può chiarirla, fortificarla, sostenerla con ragioni, e incoraggiarla; Kipling avrebbe potuto fare questo, ma, anche perché non era un letterato, ma soprattutto perché non amava, genuinamente, i meccanismi di sopraffazione e l’uso della forza, non l’ha fatto. Il famoso ‘fardello dell’uomo bianco’ appartiene al titolo di un componimento spedito a Theodore Roosevelt, dopo la sconfitta della Spagna; l’esito per sé favorevole del conflitto avendo portato agli USA parecchî dominî, Kipling scrisse all’allora presidente incoraggiandolo, dopo aver trasformato il suo nel paese più influente del mondo, ad un trattamento umano e responsabile dei popoli sottoposti. Dato che l’incomprensione doveva necessariamente accompagnare Kipling fino alla tomba, si dice che Roosevelt abbia commentato: “Rather poor poetry” – Roosevelt aveva in effetti fatto l’università, ed aveva affettazioni culturalistiche – “but good sense from the expansionistic viewpoint”. Che è un invertire i termini della questione: Kipling, prendendo atto dell’ineluttabile, ossia che la Spagna aveva perso e che gli USA perseguivano una politica espansionista, gli aveva scritto esortandolo a farsi carico di garantire lo sviluppo civile e morale di quanto era sottoposto agli USA, che effettivamente, e incontrovertibilmente, hanno influenza su tutto il mondo soltanto grazie alla superiorità della propria civiltà. Nelle parole di Roosevelt, che probabilmente vedeva le cose in maniera meno fatale, e aveva ben più presenti del poeta lontano le fatìche improbe della conquista e le incerte sorti dei conflitti, quello che secondo Kipling doveva costituire una sorta di risarcimento alla sopraffazione, o un tentativo di trovare una funzione positiva alla gigantesca violenza, diventa il motivo per cui la violenza stessa è commessa. Con Roosevelt, e non certo con Kipling, nemmeno negl’intenti – e d’intenti solo si può parlare, trattandosi di poesia – nasce il mito ipocrita dell’educazione americana del mondo. Ma attenzione: Kipling, che non amava le relazioni con l’autorità, s’era preso la briga di scrivere al presidente degli USA rivolgendogli un’esortazione, a mo’ di lettera. Nessuno si prende la briga di esortare a qualcosa se è proprio così sicuro che l’oggetto dell’esortazione sarà un fatto concreto; men che meno se esso oggetto è già un fatto. Né appetiti da poeta-cortigiano o fame di prebende, che rifiutava anche quando gli erano offerte, possono spiegare quello che, di per sé, è tanto chiaro.

4. Il cap. IV di The light that failed. Tutto il romanzo illustra la morale artistica di Kipling, ma centrale in questo senso, per il dibattito che vi si svolge, è il capitolo IV.

Troviamo Dick che, dopo anni di fame e “mezza fame”, si compiace del successo raggiunto. Ma come l’ha raggiunto? Appena tornato in Inghilterra s’è rifiutato di svendersi al giornale per il quale ha illustrato le corrispondenze; epperò, adesso, senza accorgersene, ha cominciato a prostituirsi ai giornali per i quali, dietro lauti compensi, crea copertine e illustrazioni. Si è accorto che il pubblico è fatto in un certo modo e non in altro, e disegna artefatte schifezze, edulcorando il vero e rinunciando alla ricerca. Torpenhow, come anche l’altro amico, il Nilghai, non dicono affatto, a Dick, che sta prostituendo il suo genio, che l’artista deve portare avanti la fiaccola della sua arte raffinata e incomprensibile in mezzo alle tempeste, che deve morire da martire mentre dà l’ultima pennellata ad una composizione sovranamente concettuale; non gli dicono che deve rinchiudersi nel suo mondo, parlando un linguaggio a sé, se pure è, comprensibile, negandosi all’abbraccio letale col mercato.

Gli dicono, molto semplicemente, che sta lavorando male. Che il pubblico per cui produce tavole è il suo datore di lavoro. Il quale può non essersi ancóra reso conto della fuffa che gli si sta rifilando – almeno per quanto riguarda la fetta di pubblico più superficiale, ignorante o sprovveduta – ma che egli, Dick, sta compiendo un atto immorale. E aggiungono anche altre cose, che val la pena considerare.

È un brano istruttivo perché Kipling, che in questo romanzo è autobiografo – egli è sia Torpenhow sia Dick, diciamo – parla chiaro e fa parlar chiaro i suoi personaggî. Come scriva è noto: inizia in medias res, procede dritto fino alla fine, e, arrivato al dunque, ti “sbatte la porta in faccia” (come notava Tomasi di Lampedusa); nel durante alterna momenti più discorsivi, laddove sia necessario fare chiarezza (e questo cap. IV è un esempio), ad altri, desultorî, a scatti e trabalzi, dove ti lascia appena il tempo, tra uno scossone e l’altro, di raccogliere le informazioni necessarie da portarti dietro nel prosieguo del racconto. Kipling è un uomo che ha avuto vita dura, ed è uno scrittore brutale, che il lettore medio italiano inquadra come autore avventuroso (idiozia), o, con moralismo d’accatto, come l’esaltatore della tirannide coloniale inglese (idiozia tripla). In realtà è uno dei più grandi scrittori di sempre, e tra tutti i grandi scrittori, Dostoevskij compreso, ha le maniere meno forbite che si possano immaginare: è nemico della circonvoluzione, aspro, secco, reciso, prepotente, apodittico, sbrigativo, sarcastico, tagliente. Virginia Woolf, per esempio, lo odiava con tutte le forze dell’anima sua: un tipo di lettore come lei di fronte a questa scrittura si sente immancabilmente messo spalle al muro e preso metodicamente a ceffoni.

Kipling propone un’idea di lavoro culturale, per dirla così, che per svariate ragioni possiamo considerare del tutto aliena dal nostro; parte per motivi inerenti alla visione personale di Kipling, che ovviamente non ha nessun corrispettivo nelle nostre lettere, e non potrebbe esservi idealmente collocato in nessun modo; parte per ragioni inerenti alla scrittura secondo un concetto – per dirla nel solito scorretto modo – ‘anglosassone’, ovverossia grosso modo ‘pratico’, funzionalistico, e, soprattutto, etico – nel senso in primis dell’etica professionale. Nessuno pretende di far propria in blocco questa sua etica, o renderla buona per tutte le stagioni; ma credo che questa durezza possa essere salutare. Insomma, io propenderei per prenderla come una specie di medicina, o meglio un piano terapeutico d’urto; non una dieta, ma la cura adatta per una dieta particolarmente pesante, squilbrata e malsana.

Traggo la lunga citazione da: Rudyard Kipling, La luce che si spense. Romanzo. Traduzione integrale dall’inglese di Mario Benzi. A. Barion Editore, Sesto S. Giovanni – Milano 1932; pp. 68-89. La forma italiana può sonare un po’ forzata, penso per via del non sempre riuscito tentativo del traduttore di rendere la forma scattante e scabra dell’originale. Non è sempre all’altezza dello stile di Kipling, e qualche espressione o giro sintattico è duro, se non ostico, e induce talora alla retroversione, facendo rimpiangere la mancanza, non ci fosse la rete, del testo originale.

5. Intellectio del cap. IV di The Light that failed.

CAPITOLO IV.

Il lupacchiotto s’acquattò nel grano

quando i fumi della cena erano ancora bigi;

sapeva dove la cerva faceva la caccia al cerbiattolino,

ma confidava nella sua forza per farne preda.

Ma la luna dissipò le spire del fumo,

e il lupacchiotto abbandonò l’agguato nei pressi del villaggio,

per ululare contro la luna sorgente.

    NEL SEONCE.

Dialogo tra Torpenhow e Dick. I due si sono conosciuti sotto le armi, in Sudan, durante la campagna di Gordon Pascià (1884) – era questi un generale, Charles George Gordon, dal 1874 al servizio del chedivè d’Egitto, incaricato di sottomettere il Sudan agitato dalla rivolta del Mahdi; assediato in Khartum, finì decapitato (1885) prima dell’arrivo dei soccorsi inglesi. Qui Torpenhow era incaricato come corrispondente di un giornale; notata la bravura di Dick nel fare schizzi, gli aveva proposto di procurargli immagini da accompagnare agli articoli. I due avevano collaborato fino al congedo. Ora che si trovano in Inghilterra vivono insieme. Dick ha rifiutato di svendersi al giornale per il quale lavorava, e tornato energicamente in possesso dei suoi 150 disegni, ha cominciato ad esporre indipendentemente, collaborando anche con numerosi periodici. Le sue tavole ritraggono esclusivamente soldati e situazioni di guerra, e hanno un grande successo. Finalmente libero dalla fame si gode il trionfo, producendo tavole andanti, dall’aspetto improvvisaticcio, come piacciono al suo pubblico.

-Ebbene, ti piace il sapore del successo? – domandò Torpenhow tre mesi dopo, tornando dalla campagna.

-Molto, – rispose Dick, leccandosi le labbra davanti al caminetto dello studio. – Ne voglio di più, molto di più. Gli anni magri sono passati, e questi grassi mi piacciono.

-Bada, caro vecchio, che da quella parte non si fa nulla di buono.

Su quel “da quella parte”, come su molte altre espressioni a venire, ci sarebbe da ridire; leggi qualcosa come: ‘Per quella strada non si arriva a niente di buono’, & sim. Nota soprattutto il gesto caricaturale (“leccandosi le labbra”), che vorrebbe suggerire un certo grado d’insincerità, e non solo l’understatement che si suppone norma tra due vecchî commilitoni. Alla nuova condizione di prosperità si associa insoddisfazione, che si traduce in nevrotica smania di avere “di più, molto di più”.

Torpenhow stava sprofondato in una poltrona con un piccolo fox-terrier addormentato sulle ginocchia, mentre Dick preparava una tela. Un palchetto, un fondale e un cavalletto erano i soli oggetti stabili di quell’ambiente, sparso di una baraonda di tanti altri oggetti eterogenei, che cominciava con borracce coperte di feltro, cinturoni, cartuccere reggimentali, e finiva con un mucchio d’uniformi di seconda mano e una rastrelliera d’armi svariate. Orme fresche di fango sul palchetto rivelavano che un modello militare era partito da poco. Il sole annacquato dell’autunno londinese svaniva, e le ombre s’andavano addensando negli angoli.

Non ci sono notazioni inutili, nemmeno quando s’indugia in descrizioni. Non è da tacere che Dick, mentre Torpenhow sta seduto col cagnolino Binkie, che ha una sua funzione, à la Smiles, nel rilevare la manliness perfetta dei due intellettuali (il gentleman sarà umano con le donne, i bambini, gli animali…), prepara una tela, ma non per dipingere sùbito. Cosa che il lettore di questo solo capitolo quarto non può sapere, i pittori inglesi smettono presto di dipingere per via della luce, soffocata e grigia, che si attenua nel corso dei pomeriggî. In questa descrizione, in cui sono accozzati diversi militaria, ed è rivelata la presenza, fino a poco prima, di un modello in carne ed ossa, sottendono una critica alla ‘copia del vero’ che, oltre ad essere quanto di più distante dalle concezioni figurative di Kipling, è anche la cifra di certo pompier, ciò che fa effetto in Kipling, la cui infanzia è stata dominata da frequentazioni con preraffaelliti, il cui irrealismo virtuosistico procede da un’esasperazione tecnico-calligrafica del fotografismo proprio di quest’età. È evidente l’associazione, in chiave negativa, di copia del vero ed esaltazione calligrafica impliciti sì nel pompier, ma ribaditi dalla produzione di paraphernalia specifici; con l’ironia di quelle ‘orme fresche di fango’ che non si sa se attribuire alla rozzezza del modello, alla consonanza con il tema militare delle tavole di Dick o ad una volontà di Kipling di mostrare un dietro le quinte molto prosaico al tono eroico e compiacente della pittura dello stesso.

-Sì, mi piace il potere, – disse Dick deliberatamente – e mi piace l’allegria, mi piace il baccano, e soprattutto mi piace il denaro. Mi sento quasi d’amare la gente che fa tutto quel baccano e mi riempie le tasche. Quasi. È una banda tanto strana… stupefacentemente strana!

-Però, a ogni modo, sono stati piuttosto buoni con te. La tua mostra deve averti reso parecchio. Hai visto quel giornale che la chiamava La Mostra delle Opere Selvagge?

-Che importa? Sai perché ho venduto tutto, fino all’ultimo pezzettino di tela? Perché m’hanno preso per un artista improvvisato. Sicuro! Se avessi rappresentato le mie cose su pezze di lana, o se le avessi grattate su ossi di cammello, avrei incassato molto di più. È come ho detto: gente strana, molto strana. Non precisamente limitata, no, non sarebbe la parola giusta. L’altro giorno ne ho trovato uno che non poteva ammettere che l’ombra sulla sabbia bianca fosse blu, oltremarino, come realmente è. Ho saputo poi che quell’individuo non è mai andato più lontano della spiaggia di Brighton, ma l’arte la conosceva lo stesso dall’ “a” alla zeta, maledetto lui! M’ha fatto anche un sermoncino, raccomandandomi d’andare a scuola e d’imparare un po’ di tecnica. Chissà che cosa gli avrebbe risposto il vecchio Kami!

Dick è recepito come ‘artista selvaggio’ – fauve, in francese, e Dick, che è stato in Francia, non può non saperlo. Come categoria critica, com’è noto, fauve designa specificatamente la scelta, ‘selvaggia’, ossia visionaria, dei colori. Il fauve propriamente inteso è degli anni in cui nasce il romanzo, ed è il motivo per cui poche righe più sotto Dick ricorda quel cliente “che non poteva ammettere che l’ombra sulla sabbia bianca fosse blu, oltremarino, come realmente è. Ho saputo poi che quell’individuo non è mai andato più lontano della spiaggia di Brighton”: Dick basa il suo successo su un equivoco, favorito dall’ignoranza che la quasi totalità della sua clientela ha di altri paesaggî a parte quello tipico del paese nativo. Una scelta cromatica del tutto scontata per un paesaggio sudanese diventa, per il compratore inglese che in Sudan non c’è mai stato, una levata d’ingegno – il fatto che quell’ombra non sia azzurra in natura, per lui, è un aspetto positivo. Dick in realtà non è in grado di innalzarsi all’ideale, come si diceva allora: solamente la realtà che dipinge è nota in sé a pochi, e quello che ne risulta, a livello della sua pittura, sembra merito suo, o almeno una sua peculiarità curiosa. E Dick rincara, a proposito del fruitore: “ma l’arte la conosceva lo stesso dall’ “a” alla zeta, maledetto lui!” – il fruitore-tipo è effettivamente avvertito e di buon gusto, che cade vittima di un semplice tranello: la rappresentazione di qualcosa che crede non esista è attribuita tutta alla creatività dello sregolato artista, che di fatto è un oleografico senza fantasia che fotografa col pennello e, nel contempo alterando e censurando il reale nei suoi aspetti meno desiderati, vedi sotto, vellica il gusto, che per converso è pessimo, di un largo pubblico di acquirenti di periodici. È una posizione, ambigua, la sua, che Kipling fissa con stupefacente nettezza. L’antitesi perfetta costituita dalla maniera di Dick, stante l’esatta definizione, ancóra à la manière della de Gournay secondo cui è figura che “rileva la differenza tra due oggetti per altro uguali”, consiste nell’essere una maniera unica che soddisfa due pubblici diversi, ognuno dei quali ignorante a suo modo. La sua posizione antietica consiste nel consapevole sfruttamento economico di questa situazione. Quanto a Kami, è un’ombra ricorrente nel romanzo. Vale la pena di dire che nei primi capitoli, dedicati all’infanzia selvaggia di Dick e Maisie, e poi alla vita militare del primo, non si fa menzione né del talento pittorico dei due, che pure finiscono entrambi col dedicarsi all’arte, né al fatto che entrambi, come si vedrà, hanno studiato con questo Kami, tipo del ‘prestigioso’ maestro.

-Quando sei stato con Kami, uomo d’inizi straordinari?

-Ho studiato due anni con lui, a Parigi. M’ha insegnato il magnetismo personale. Non diceva mai altro che Continuez, mes enfants, e non se ne poteva cavar altro. Aveva un tocco divino, e sapeva qualcosa dei colori. Se li sognava, i suoi colori. Scommetto che non ha mai visto nulla nei suoi colori reali. Sviluppava tutti i colori, e faceva bene.

-Ricordi i nostri panorami del Sudan?

Dick si rigirò di scatto.

-No, per carità! mi dài la voglia di tornarci subito. Dio, che colori! Opale e terra d’ombra, e ambra, e lapislazzuli, e rosso mattone, e zolfo… zolfo come la cresta del cacatù sull’ocra, con una roccia nera come un negro, che si drizza nel bel mezzo, e di dietro un festone decorativo di cammelli, contro un purissimo cielo di pallida turchese.

Kami non è più che una macchietta, per quanto riguarda l’insegnamento: la valutazione che Kipling invita a darne è abbastanza chiara. In un’epoca in cui forte era l’osculazione tra arte e occultismo, tra madame Blavatsky e Stanislao de Guaita, Aleister Crowley (ancóra in erba, ma non si dimentichi che era anche pittore, come moltissimi esoteristi) e il Sâr Péladan, la ricerca di quiddità misteriose nell’arte, come naturale reazione all’erosione di parte dell’antico impero da parte della fotografia ormai universalmente diffusa, doveva essere ossessiva. Ma era anche un luogo comune, uno specchietto per le allodole, né poteva essere altrimenti data l’impossibilità di discernere, in qualunque caso, tra suggestione profonda e mistificazione in tale campo, e l’insegnamento del maestro che aveva “un tocco divino” e “sapeva qualcosa dei colori” (understatement), vale a dire che li “sviluppava”, li alterava, li faceva altro da quello che sono in natura, scade a mantra efficientista: “continuez, mes enfants”, di paternalismo (appunto) vagamente industriale. Sembra di poter azzardare che la preparazione fornita da Kami, fatta essenzialmente di lavoro continuo, ostinato – di copiatura? – fosse tecnicamente ineccepibile; ma c’è più d’un sospetto che di contro ad una ricerca cromatica piuttosto ardita faccia riscontro un bovino conservatorismo quanto al disegno (sul quale Dick insisterà, significativamente, dando qualche utile dritta a Maisie nei capitoli seguenti). In effetti la vera discriminante, nel transito dall’arte ‘cartesiana’ ed accademica a quella contemporanea è nel passaggio da figurativo a concettuale, e nulla nella preparazione fornita dal misterioso e magnetico maestro fa supporre in alcunché la dissoluzione delle forme, benché la sua attenzione, pare persino un po’ morbosa, alla luce e al colore trascenda la mera indicazione di scuola, il ‘bagaglio tecnico’, e abbia già pretese estetizzanti. Di questo passo, potremo tranquillamente accusarlo di limitarsi ad alterare speciosamente gli equilibrî cromatici classici di una maniera che rimane di per sé del tutto pompière. Irrompe quindi, di nuovo a costituire antitesi, grazie alle parole di Torpenhow, il ricordo del Sudan – la terra aliena in cui i colori sono “già alterati”. Quasi che il Sudan costituisse, bella e pronta, la tavolozza composta secondo i dettami di Kami, senza che l’artefice debba fare sforzi per immaginarsi equilibrî cromatici diversi.

Camminò agitato su e giù.

-Eppure, sai bene che, se vuoi dare a quegl’individui le cose come Dio le ha fatte, ridotte alla loro comprensione coi mezzi che Dio ha dati a te…

-Sei molto modesto. Ma continua pure.

-Un qualunque pagano che non sia mai stato nemmeno in Algeria, ti dirà anzitutto che la tua nozione non è affatto originale, eppoi che quel che tu chiami arte non è affatto arte.

-Vedo che hai sentito i discorsi che fanno nelle botteghe di balocchi.

-Eh, per forza. M’hai lasciato solo, e dovevo pur far qualcosa per passar quelle sere che non finiscono mai! Non si può sempre lavorare.

Non so come si possa considerare ‘facile’ Kipling, di fronte ad uscite del genere. Siamo, come si vede, in pieno Novecento, sia per la tematica, di bruciante attualità in quel torno d’anni, se non più ancóra negli anni seguenti, sia per il dettato, che è tutto a balzi, tutto cicatrizzato. Dick dà innanzitutto un’idea ‘onesta’ di pittura: come, in altri termini, si colma il gap tra vero e verosimile, così il pittore coscienzioso media tra realtà naturale e “quegl’individui”, riducendo le cose come sono a cose che essi individui possono capire. Ma qui salta fuori il vero problema: l’aspetto mistificatorio dell’operazione di Dick non consiste nel non applicare questa sorta di regoletta, poiché essa porta a risultati fallimentari: infatti chiunque, anche il “pagàno” che non è mai “stato nemmeno in Algeria” – il tipo dell’acquirente che apprezza l’ombra oltremare perché la crede non la realtà fotografica, ma una trovata dell’artista – ti dirà che il tuo concetto (così credo si possa rendere quello che il Benzi rende con “nozione”) non è per nulla originale, e che non stai facendo arte. Questo avviene quando l’artista cerca di essere comprensibile, si pone come mediatore tra il soggetto del quadro e il fruitore; ciò che, appunto, Dick si guarda bene dal fare. Ma siamo lontani dal vetro smerigliato posto da Gombrich davanti all’orrenda Anadiomene del Bonnencontre col fine di renderla più interessante: quella di Dick è una mistificazione di tipo particolare: non consiste nel mentire, ma nel non dire. È ovvia, anche, la decisività assunta, nella fruizione, dal rapporto che il pittore intrattiene direttamente col fruitore (-acquirente), quindi del prevalere fatto extrapittorico, extrartistico, sulla stessa opera; semplicemente Dick fa credere di essere una specie di “fauve”, mentre è un calligrafico – per quanto riguarda, strettamente, il suo pubblico côlto. In questo consiste la sua immoralità: nel scegliere una posizione ambigua, tra due sedie, di compromesso: secondo Torpenhow in questo modo non lavora per il pubblico, ma per sé stesso (per le proprie tasche).

-Ma si può andare in una bettola qualunque e pigliarsi una bella sbornia, che non fa male a nessuno.

-Hai ragione. Sarebbe stato meglio. Ma avevo già fatto conoscenze. Si dicevano artisti, e c’erano alcuni di questi che sapevano disegnare… soltanto, non volevano. M’hanno invitato al tè… tè alle cinque del pomeriggio! Parlavano d’arte e degli stati dell’anima, come se la loro anima c’entrasse. Non ho mai sentito parlar tanto d’arte e visto meno dell’arte come in questi ultimi sei mesi. Ricordi Cassavetti, quello che lavorava per un sindacato del Continente, seguendo una colonna nel deserto? Pareva un albero di Natale, quando si metteva in marcia in pieno assetto, con le borracce, il cinturone, la tracolla, la rivoltella, la cassetta per scrivere, le lanterne e Dio sa quant’altre cose. Passava il tempo a trastullarsi con tutte quelle cosucce, e mostrava a tutti come funzionava ciascuna. Eppoi, non ha mai fatto altro che copiare i rapporti di Nilghai.

Dick riferisce, telegraficamente, come abbia cominciato a frequentare l’élite intellettuale cittadina: gli elementi ci sono tutti: le sue nuove conoscenze sono coltivate, e anche istruite accademicamente, ossia tecnicamente, ma hanno fatto i primi passi verso il concettuale – che si colloca storicamente almeno da tre lustri più tardi, ma è preparato da una lunga vicenda di dissoluzione, ch’è propria degli anni del romanzo, del disegno tradizionale –, un salto che Dick non compirà ovviamente mai; la tournure del laconico: “c’erano alcuni di questi che sapevano disegnare… soltanto, non volevano” sottolinea la sostanziale incomprensione di Dick, di fatto spaesato fra tradizione e novazione, nei confronti dell’ultimo grido dell’arte. Ma non c’è solo la sua incomprensione; c’è oggettivo isterilimento: l’ambiguo “Non ho mai sentito parlar tanto d’arte e visto meno dell’arte come in questi ultimi sei mesi” si riferisce sicuramente più alla qualità che alla quantità, ma più ancóra alla “sostanza”, alle “fonti dell’ingegno”; come il corrispondente Cassavetti, nel Sudan, che s’era dotato d’uno strumentario poderoso, e poi copiazzava quello che, senza tanta ciarpa, scriveva un altro corrispondente, questa élite vive di erudizione iconografica, di fatto rimescolando materiali altrui. Kipling è ben lontano dal condensare in Dick i difetti di una generazione di artisti; in Dick rappresenta più che altro il transito da uno stato dell’arte all’altro, un periodo di crisi e, per il momento, di disorientamento. In effetti i rovelli di Dick sono certamente autentici, come quelli dei suoi amici avanguardisti; egli è davvero spaesato. Quello che rende immorale, non deontologica la sua posizione nei confronti dell’arte non è l’incapacità di prendere posizione netta, perché questa indecisione, propria dei decadentismi, è nell’aria, tutti la condividono; e men che meno è ipotizzabile che abbia escogitato freddamente l’imbroglio al pubblico; il peccato originale consiste nell’essersi adagiato in una posizione comodamente doppia, la quale gli si è presentata da sé, fatalmente, e che lui ha avuto – questo sì – il torto di accettare in pieno. Inutile, o quasi, rilevare come la tesi dell’estraneità di Kipling alle tematiche base del decadentismo non può reggere; la differenza tra il suo punto di vista e quello di altri decadenti è semplicemente quella che intercorre tra la posizione di Victor Hugo e quella di Baudelaire di fronte all’abisso: dove quest’ultimo se ne spaventa, e si ripiega su sé, mentre il primo vi guarda in fondo, e regge stoicamente la vista. Vale la pena solamente di notare che quello che Renzi riferisce come “Nilghai”, tout court, è, nel testo consultabile in ampia porzione pdf qui: http://books.google.it/books?id=l42BcrH52oMC&printsec=frontcover&source=gbs_v2_summary_r&cad=0#v=onepage&q=&f=false, o meglio in html qui: http://classiclit.about.com/library/bl-etexts/rkipling/bl-rkip-light-1.htm &c. [ma qui: http://www.gutenberg.org/files/2876/2876-h/2876-h.htm per il testo integrale], regolarmente “the Nilghai”, dunque è un soprannome, e non un nome. Il nilghai, o nilgai, o nilgau è un’antilope indiana dalle corna corte (secondo il wiktionary, http://en.wiktionary.org/wiki/nilghai), di cui leggo in Alessandro Ghigi / Pasquale Pasquini, La vita degli animali. Vol. II: Mammiferi delle terre continentali. Avifauna paleartica. Terza edizione aggiornata e accresciuta, UTET, Torino 1974, pp. 470-473, che ha nome scientifico Boselaphus tragocamelus, genere a sé dei quattro che si classificano tra le antilopi indiane; il soprannome può essere stato dato per ironia, dal momento che il Nilghai è grasso, come è detto, mentre questa antilope “inseguita fugge molto celermente” (473).

-Simpatico quel Nilghai! È in città, più grasso che mai. Dovrebbe venir qui stasera. Capisco benissimo quel che vuoi dire. Avresti dovuto stare alla larga da quelle modisterie maschili. Ci hai preso quel che meriti, e spero che ti scombussolerà per un pezzo.

La modisteria, in senso specifico, è un laboratorio-negozio in cui si confezionano e vendono cappelli rigorosamente da donna. Il militare, maschio, Dick, non poteva respirare liberamente nell’atmosfera effeminata dell’élite dei figuratìvi di moda. Segue un’esemplificazione concreta del modo di procedere di Dick nei confronti della parte meno nobile del suo pubblico pagante, del suo ‘datore di lavoro’: innanzitutto, appunto, una figuratività maschia, quindi ‘dal vero’, in contrapposizione con l’erudizione, di fatto una forma di parassitismo (“Eppoi, non ha mai fatto altro che copiare…”), dell’arte effeminata, che Dick ha respinto con nettezza. Sembrerebbe una scelta in direzione dell’autonomia, dicendola così; di fatto, avendo che fare con un pubblico che vuol essere confermato e gratificato nelle sue false convinzioni, è caduto in una schiavitù peggiore, che lo induce alla deformazione del progetto originario a vantaggio del prodotto vendibile; Dick non è esattamente sulla linea d’onda del fruitore medio (ben lontano dalla pretenziosità del suo acquirente da esposizione), ma è disposto a distruggere la sua opera per rimpiazzarla con qualcosa di molto prossimo a quello che il fruitore ignorante ha già in mente. Va da sé che la sua posizione, in questo caso, è ancóra più immorale. Nel caso del fruitore avvertito si trattava di nascondere il fotografico-calligrafico (“se vuoi dare a quegl’individui le cose come Dio le ha fatte, ridotte alla loro comprensione coi mezzi che Dio ha dati a te… […] un qualunque pagano che non sia mai stato nemmeno in Algeria, ti dirà anzitutto che la tua nozione non è affatto originale, eppoi che quel che tu chiami arte non è affatto arte”), prestandosi all’illusione dell’artista autonomo, spiazzando in apparenza per assecondare di fatto; nel caso del fruitore bue si tratta dell’esatto contrario: “ Da’ loro quel che sanno, e una volta che l’hai dato, torna a darlo” – dove quel “torna a darlo” è eloquente della condizione dell’arte nell’epoca della sua riproducibilità, cioè della sua riduzione ad oggetto in serie:

-No, non mi scombussola affatto. Soltanto, m’ha insegnato che cosa è realmente arte, la sacrosanta.

-Se hai imparato questo, non hai sprecato il tempo. Sentiamo che cos’è l’arte.

-Da’ loro quel che sanno, e una volta che l’hai dato, torna a darlo.

Tirò avanti una tela che stava appoggiata a una parete, col dipinto nascosto.

-Ecco un campione d’arte vera. Servirà per facsimile ad un settimanale. L’ho intitolato “L’ultima Cartuccia”. L’ho cavato da quel piccolo acquerello che ho fatto fuori d’El Maghrib. Il mio modello, un magnifico fantaccino, l’ho tirato qua con una bicchierata. L’ho ubriacato, riubriacato, straubriacato, fino a farne un diavolaccio rosso, scarmigliato, stralunato, con l’elmo sulla nuca, un torrente di sangue che gli sgrondava giù per una gamba da un taglio all’anca, e la vera morte negli occhi. Non era più bello, no, ma tutto soldato da capo a piedi, e molto uomo.

-Sempre modesto!

Dick rise.

-Beh, ora parlo soltanto con te. L’ho dipinto meglio che ho potuto, tenendo conto degli effetti dell’olio. E il direttore artistico di quel relitto di rivista m’ha detto che non poteva piacere ai suoi abbonati. È una figura troppo brutale, rozza, violenta, m’ha detto, quando si sa che l’uomo è naturalmente gentile e costumato, anche nel suo ultimo sforzo per non morire ammazzato. Mi son ripreso l’ “Ultima Cartuccia”, e guarda il risultato. Gli ho messo una bella giacca rossa nuova fiammante, senza una macchia, senza una grinza. Questo è arte. Gli ho lucidato ben bene le scarpe… guarda che bel lustro sul puntale. Questo è arte. Ho pulito il fucile… i fucili sono sempre puliti in servizio, perché così vuol l’arte. L’elmo gliel’ho fregato col gesso… al servizio fregavo sempre col gesso il mio, cosa indispensabile all’arte. Poi l’ho sbarbato ben bene, gli ho lavato le mani e dato un’aria di pacificone. Risultato: una bella insegna per sarto militare. E il prezzo, grazie a Dio, è il doppio di quello che mi è stato pagato per lo schizzo, che pure era un prezzo conveniente.

-E vuoi spacciare questa roba per tua?

Qui si solleva, con succintezza molto kiplinghiana, uno dei problemi sostanziali: quello della paternità dell’opera d’arte, e la crisi d’identità – non come fatto psicologico, come fatto concreto – dell’artista di fronte all’opera. A chi appartiene un’opera se essa corrisponde a criterî che l’artista non ha fissato, o contribuito a fissare, e, soprattutto, non condivide sostanzialmente? La diplopia sviluppata da Dick è in apparenza abile operazione di smercio, di fatto riflette la frantumazione dell’unità identitaria di fronte al pubblico e all’opera. I due temi della riproducibilità dell’arte – di cui il pittore sul tipo di Dick, consapevolmente o no, deve necessariamente soffrire, in quanto insieme espositore di opere irripetibili e illustratore per ebdomadarî del genere del ‘pictorial’ – e della paternità dell’opera sono chiaramente interrelati, ma se il loro legame fosse così fatale, tolta la possibilità della scelta immorale come di quella morale, Dick sarebbe assolto. E invece no, perché la sua scelta è quella di sfruttare, alienandola da sé, la situazione. L’aspetto filosoficamente più rilevante è proprio la nolontà, che di fatto è incapacità, da parte di Dick di farsi carico della situazione. Ne rimane difuori, e rimane difuori dalla sua stessa pittura, che può essere, pertanto, tranquillamente deformata, cancellata, rifatta; e anche distrutta, in un gesto di rabbia, da Torpenhow, come si vede nelle righe che seguono:

-Perché no? L’ho fatta io. Solo io l’ho fatta, nell’interesse dell’arte sacrosanta e della Rivista Dickenson.

Torpenhow fumò in silenzio per un buon momento, e infine pronunciò il verdetto concepito nelle nuvole rotolanti:

-Caro Dick, se tu fossi nient’altro che un ammasso di stupida vanità, non ci farei caso. Ti lascerei andar al diavolo insieme con la tua pittura. Ma se penso a quel che tu sei per me e vedo che alla vanità aggiungi la stizza da due penny e mezzo d’una ragazzina di dieci anni, devo per forza far qualcosa. Ecco!

La tela fremette, trapassata da un piede solidamente calzato di Torpenhow, e il cagnolo saltò giù, pensando che ci fossero i topi.

-Se hai parolacce da dire, dille pure. Non ne hai? Allora continuerò. Sei un idiota! Non c’è mai stato uomo nato di donna tanto forte da poter prendersi libertà col suo pubblico, neanche se fosse tutto quel che dici tu, che poi non è vero.

-Ma se non ci capiscon nulla! E che possono mai capire creature nate e cresciute in questa luce? – e accennò la nebbia per ingialliva il lucernario. – Se vogliono vernici per mobili, non c’è ragione perché non le abbiano, fin tanto che son disposti a pagare. Eppoi, non son altro che uomini e donne, mentre, a sentir te, si direbbe che sian numi.

Lo sgravio di responsabilità è evidente: di qua dalla sostanziale indifferenza di Dick di fronte alla distruzione del quadro – non ancóra riproducibile, e dunque perduto una volta per tutte (molto più avanti nel romanzo ci sarà un’altra distruzione di un’opera di Dick, distruzione alla quale reagirà in modo ovviamente diverso) – l’aspetto più interessante è proprio l’alienazione: le motivazioni per l’esecuzione di un’opera indegna di sé sono molteplici, una delle quali pseudoelitista (propria dell’artista ‘popolare’, di fatto pieno di disprezzo nei confronti della mandra di buoi a cui propina cose scadenti), e una addrittura neopositivista: il fruitore inglese non capisce nulla di arte perché ha negli occhî la luce smorta del suo paesaggio familiare. L’ambiente in realtà è il responsabile degli equilibrî distorti; l’immoralità non c’è, perché è il sistema a funzionare in un certo modo. (Di qui è inferibile anche la negazione del capolavoro come possibilità, volendo).

-Suona bene quel che dici, ma non ha nulla a che fare col caso in questione. Quelle persone costituiscono, che tu lo voglia o no, il pubblico per il quale devi lavorare. Sono i tuoi padroni. Non t’illudere, Dickie, non sei forte abbastanza per scherzar con loro o… con te stesso, cosa tanto più grave. Inoltre… passa qua, Binkie! è stato quell’impiastro rosso che t’ha svegliato… Dicevo, dunque, che se non stai più che attento, cadrai nella dannazione del libretto di chèques. Il denaro facile t’ubriacherà del tutto, ché ora sei già mezzo brillo. E per quel denaro e la tua maledetta vanità, ti vuoi mettere a lavorar male? Credimi che di brutti lavori ne farai abbastanza senza saperlo. E credi anche questo, Dickie: com’è vero che ti voglio bene e so che tu ne vuoi a me, non ti permetterò mai e poi mai di tagliarti il naso e rovinarti la faccia per il denaro che circola in Inghilterra. Ho detto. Ora puoi bestemmiare.

-Non ci tengo. Ho cercato d’arrabbiarmi, ma sei talmente ragionevole! Pazienza, lascerò strillare la Dickenson.

-Ma perché diavolo mai vuoi lavorare per settimanali? Non capisci che così ti dissangui pian pianino?

Quel che segue riporta al tema del denaro; che di fatto, ormai lo abbiamo capìto, è solamente un alibi:

Dick si toccò le tasche.

-Procurano tante sterline, molto comode.

Torpenhow lo fissò con manifesto disgusto.

-Ed io che credevo di parlare con un uomo! Ma se non sei che un bambino!

Dick si rigirò prontamente.

-No, ora sbagli tu. Non hai nessun’idea di quel che sia la certezza d’un incasso, per un uomo che ha sempre avuto bisogno di quattrini. Nulla potrà mai compensarmi di certi piaceri che mi son dovuto godere. Per esempio, su quel portamaiali cinese, dove s’aveva pane e prosciutto a tutti i pasti, perché Ho-Wang non ci voleva dar altro, e tutto, anche il pane, sapeva di maiale, maiale cinese! Per il denaro che mi piglio adesso, ho sgobbato e sudato e patito la fame mese per mese, per anni e anni. Ed ora che posso pigliarne, voglio pigliarne più che posso, finché dura la cuccagna. Lascia che paghino. Tanto, non ci capiscon nulla.

-Che altro si degna di desiderare, Sua Maestà? Non puoi certo fumare più di quanto già fumi, non vuoi bere e mangi di tutto, e basta guardarti per capire che ti vesti al buio. L’altro giorno, quando t’ho proposto di comprarti un bel cavallo, non hai voluto, perché un cavallo può sciancarsi, e preferisci prendere una vettura pubblica. E non sei nemmeno stupido al punto da credere che la vita sia fatta di teatri e di tutte le cose vive che si possono comprare in città. E allora, che ne vuoi fare di tutto quel denaro?

-Perché è qui, e Dio ne benedica il cuore d’oro! È sempre qui, davanti agli occhi. La Provvidenza mi manda noci finché ho i denti per schiacciarle. Non ho ancora trovato la noce che mi piacerebbe schiacciare, ma intanto mi tengo aguzzati i denti. Forse un giorno faremo insieme un giretto per il mondo. Eh, che ne diresti?

-Senza bisogno di lavorare, senza dover render conti a nessuno né competere con nessuno? Saresti abbrutito dopo la prima settimana. E io non ci tengo a godere alle spese di un’anima d’uomo. Dick, è inutile discutere, tu sei matto.

-Non vedo perché. Il capitano di quel portamaiali cinese s’è fatto un onore enorme salvando venticinquemila maialini molto malconci dal mal di mare, la volta che demmo di prua in una giunca del trasporto di legna. Ora, se prendiamo quei maialini come paragone…

-All’inferno i tuoi paragoni! Ogni volta che cerco di correggerti l’anima, mi tiri fuori un fatterello insignificante dal tuo passato tenebroso, molto tenebroso. Che c’entrano i maialini cinesi col pubblico britannico? Quel che fa onore in alto mare non fa onore qui, mentre il rispetto di sé val sempre lo stesso in tutto il mondo. E a proposito, se Nilghai venisse stasera, mi permetti di mostrargli i tuoi lavori?

-Ma certo! Che idea! Ora mi domanderai se puoi bussare al mio uscio.

E Dick se n’andò, per consigliarsi con se stesso nella nebbia londinese, già in via d’addensarsi.

Ecco, credo che l’insegnamento più prezioso – perché Kipling dev’essere preso, è buona norma nell’accostarsi ad un autore, per quello che si propone, ossia come un dispensatore di consiglî e una guida morale – consista proprio in questo: nella consapevolezza estrema che l’artista deve avere nell’affrontare il suo pubblico. La saggezza kiplinghiana consiste nell’inferire un autore debole e un pubblico forte (“Non t’illudere, Dickie, non sei forte abbastanza per scherzar con loro”), che è una prospettiva non solita, almeno a queste latitudini, almeno nel dibattito sull’arte a cui siamo abituati. Per esempio, mi sovviene – a caso, chissà quant’altri esempî non mi vengono in mente al momento, e si dovrebbero fare – che in Kavalier e Clay, romanzo così così dell’autore americano Michael Chabon (2000), riemerge proprio questo principio, nel corso di una conversazione tra i due protagonisti, che vogliono lanciarsi come fumettari: l’idea dell’autore come una pecora in mezzo ai lupi, forzando un po’ i toni, è ben anglosassone, schematizzando al limite della prostituzione concettuale, dato che prosorge inevitabilmente da un concetto altamente individualistico dell’essere umano, visto inevitabilmente non solo come eroe carlyliano (non è sempre domenica), ma anche nella sua coessenziale solitudine di fronte al mondo; concetto col quale probabilmente, dato che son tutte cose che ci vengono da là, i nostrali fumettari ed autori di genere faranno probabilmente i conti, ma non lo scrittore a tutto tondo, lo scrittore – per esempio – di sé, o il poeta. Ci sono due visioni diametralmente opposte e inconciliabili: una è quella dello scrittore come comunicatore – lo scrittore che non è mai solo, perché parla ‘a tutti’, col coeur in man; l’altra è quella dello scrittore che deve comunicare, necessariamente, e non necessariamente è inteso. Si tratta di vedere se si tratti di due civiltà letterarie diverse, o semplicemente di un’avanguardia e di una retroguardia, di un centro e di una provincia. Sta di fatto che anche alle nostre latitudini ci sono casi eclatanti di scrittori (Morselli è il segnacolo) che non sono pubblicati, e meriterebbero, e di scrittori che sono pubblicati e non vendono, e meriterebbero. L’aspetto critico – forse, dico forse, non tutto ma molto si riduce a questo semplice, e anche un po’ volgare, fatto – è contestuale, o è nella testa di scrive, dipinge, fa musica, si esibisce? Per esempio, è possibile scrivere senza chiedersi a chi ci si sta rivolgendo? Si può obiettare che altro è la scrittura romanzesca, e altro, innanzitutto, quella poetica: il Novecento, almeno il nostro, è dominato dall’ermetismo, che è tendenziale chiusura nei confronti del fruitore, è un sostanziale non voler essere capìti, un “chiudersi”, con lettura un po’ bisticciata. Ma anche nel caso-limite della poesia quello che mi chiedo è: è inferibile una scrittura che si nega così totalmente alla fruizione, o non sarà, piuttosto, una scrittura che vuol essere letta in un certo modo, passando per determinati filtri? Basta un secondo di riflessione per rendersi conto come l’ermetico non si nega mai alla comunicazione, solo la regola in modo tale che la fruizione ne risulta certamente più ardua, ma non certo impossibile, e non certamente come cosa superflua rispetto al dato poetico. Sono ovvietà, assolute, ma rimane da chiedersi come mai, se tutto è così ovvio, ad un certo livello continui a trionfare una scrittura così ombelicale, in fondo destituita di presupposti. La gente che si scrive addosso sta seguendo un’intima vocazione o non, piuttosto, ha visto una progressiva distorsione del proprio progetto originario, fino a ridursi a quello? Se ne evince, inevitabilmente, che anche la scrittura, come qualunque attività umana, subisca potente l’attrazione del tutto e la sua resistenza, e che richieda qualcosa di sinistramente simile alla forza, all’energia, per essere sostenuta. La forza, l’energia sono, in termini fisici, lavoro: se non ho un punto d’appoggio, se non ho un vettore, il lavoro non può essere. Posso avere, tutt’al più, una fonte che continua a disperdere energia nello spazio vuoto, finché non si esaurisce, e ne rimane priva affatto. Il solo fatto fisico porge materia di riflessione. Ma è a questo punto, quando cioè si entra nel merito della funzione della scrittura, che scattano meccanismi in fondo non del tutto spiegabili, se non con l’assunzione supina di certi schemi, ultronei, che a ben guardare non hanno ragione di essere messi in azione in questo caso. Kipling, attraverso Torpenhow, come anche attraverso Dick, parla di ‘lavoro’, ma il lavoro non necessariamente è il fulcro di un rapporto mercenario: e lo si vede, specialmente, nell’assunzione, molto chiara ed esplicita, del denaro come alibi da parte di Dick. In effetti la sua produzione frutta denaro; ma il fatto che frutti denaro non implica direttamente che la sua produzione sia lavoro. Il lavoro, in questo caso, dev’essere un’altra cosa; non si tarda, credo, a dedurre, anche in base a quello che s’è visto prima, che esso consiste nel finalizzare la propria opera a comunicare la data cosa a un dato pubblico, e nel mettere in atto adeguate strategie – suona malissimo, lo so – perché quello che si dice arrivi effettivamente a destinazione. L’artista può arricchire grazie alla sua opera, se proprio dobbiamo dilungarci sull’aspetto pecuniario, per motivi complessi, non tutti necessariamente inerenti all’opera; se quello di Dick è il caso-tipo, ma è certamente un caso possibile, è l’equivoco che lo ha arricchito, o quantomeno gli ha permesso di mantenersi al disopra del decoroso; ma è proprio questo sfuggire della possibilità del guadagno ad un’equazione che ponga in esatta e certa relazione il lavoro in sé, o la produzione, e il vile guadagno basta da solo a far saltare qualunque equivalenza possibile. Ne consegue che si può lavorare anche quando si scrive una lettera, o nel postare qualcosa su un blog – in questa accezione, all’interno di questa logica, sicuramente.

Mezz’ora dopo la sua uscita, Nilghai s’affannò su per le sette branche. Era il decano, oltre che il più voluminoso dei corrispondenti di guerra, con un’esperienza che risaliva fino alla nascita del fucile ad ago. Eccettuato solo il suo alleato Keneu, l’Aquila della Guerra, nessuno lo poteva superare in quel ramo speciale, e quando si metteva a discorrere, cominciava sempre con l’annuncio d’una guerra nei Balcani nella prossima primavera. Torpenhow l’accolse con un’allegra risata.

-Lascia stare i pasticci dei Balcani, e parliamo di Dick. Hai sentito che successone?

-Già, è stato chiamato alla notorietà, mi pare. Spero che lo terrai nei limiti d’una saggia umiltà. Ha bisogno d’essere soppresso di quando in quando.

Quanto al fucile ad ago, che desterà la curiosità di tutti, leggo in Letterio Musciarelli, Dizionario delle armi, Mondadori, Oscar Manuali, Milano dic. 1978, ad vocem: “Fucile a retrocarica che si giova, per sparare, del meccanismo di accensione della carica detto ‘ad ago’. Il primo fucile apparso di questo tipo è il Dreyse (v.) che venne adottato nel 1848 dall’esercito prussiano”; per “soppresso” non s’intende “liquidato”, ma “tenuto a bada”.

-E come! Comincia a prendersi qualche libertà con quel che crede essere la sua reputazione.

-Di già! Per Giove, che fegato! Io non ne so nulla della sua reputazione, ma so che finirà male, se fa così.

-Gliel’ho detto, ma non credo d’averlo convinto.

-Eh già, una volta che prendono l’aire, non dànno più retta a nessuno. Che disastro è quello laggiù?

-Un esemplare d’una sua birbonata.

Raccolti i brandelli della tela sfondata, Torpenhow mostrò la figura “lisciata” a Nilghai, che guardò e fischiò.

-Una cromo, una cromolitoleomargarinoporcheria! Che diavolo l’ha pigliato per far una roba simile? Però, guarda un po’ come ha dato in pieno nel gusto di quel pubblico che pensa con le scarpe e legge coi gomiti! C’è un’insolenza a sangue freddo, che quasi compensa tutto. Ma non deve continuare così. Devono averlo incensato un po’ troppo, non ti pare? Sai bene che quella gente non ha nessun senso di misura. Son capaci di chiamarlo un secondo Detaille e un Meisonner di terza mano, per poco che duri la sua voga. È un regime troppo ventoso per un pulledrino.

La doppia l di “pulledrino” è intenzionale, grafia antiquata. Dei due pittori leggo in Dictionnaire des Peintres, Sculpteurs, Dessinateurs et Graveurs &c., nouvelle édition entièrement refondue, révue et corrigée sous la direction des héritiers de E. Bénézit, avec 32 reproductions hors-texte en héliogravure, Librairie Gründ, Paris 1955 & 1956, ad vv., che Detaille (Paris 05/10/1848-ivi 23/12/1912) “est un des peintres les plus populaires de l’école française du XIXe siècle… à 17 ans, il entra comme élève dans l’atelier de Meissonier… d’une valeur contestable, mais très sincère. Ses tableaux sont empruntés à des scènes de la vie militaire qu’il a su rendre avec des grandes qualités d’intensité et d’expression… Peintre quasi officiel de l’armée française…”; quanto a Jean-Louis-Ernest Meissonier (Lyon 05/02/1815-Paris 31/01/1891), appunto suo maestro, “il… fit quelque temps de l’illustration tout en donnant aux Salons annuels des tableaux visiblement inspirés par le désir d’imiter les Hollandais… En 1859, Meissonier suivit la campagne d’Italie dans l’État-Major. Ce fut alors qu’il conçut l’idée de peindre l’épopée napoléonienne… Ses tableaux de genre sont des petits chefs-d’oeuvre de travail minutieux, mais il leur manque le sentiment. On pourrait adresser le même grief à ses tableaux militaires, larges compositions factices. Toutesfois, il faut lui reconnaître un métier prestigieux, une habileté supérieure et un souci du détail, souvent même excessif (…)”. Il paragone è dunque con due pompier.

-Non credo che Dick ne risenta molto. Non lo posso credere. Sarebbe come dar del leone a un lupacchiotto e pretendere che preferisca quel complimento a una bella tibia polposa. Dick ha l’anima nella banca. Lavora per guadagnare.

-Già, ha rinunciato al lavoro di guerra e non si rende conto che gli obblighi del servizio sono gli stessi, che solo il padrone è cambiato.

-E come potrebbe, se crede d’essere il padrone di se stesso?

-Ma davvero? Potrei disingannarlo per il suo bene, s’è vero che c’è virtù nella stampa. Ha bisogno d’una buona frustata.

-E dagliela, allora, e con scienza. Gliela darei io, se non gli volessi troppo bene.

-Io non ho scrupoli. Una volta, al Cairo, ha avuto l’audacia di mettersi tra me e una donna. L’avevo dimenticato, ma ora me ne ricorderò.

-Te l’ha presa?

-Sentirai quando avrò finito con lui. Ma a che pro? Lasciamolo stare, e vedrai che rincaserà da sé, se ha qualcosa in sé… mogio mogio e con la coda tra le gambe. C’è molto più in una settimana di vita che non in un settimanale vivace. Ma gli darò addosso lo stesso. Poderosamente, nel Cataclisma.

-Auguri! Ma bada che ci vuole almeno una stanga per arrivare alla sensibilità di Dick. Deve aver avuto l’anima fulminata prima che noi lo conoscessimo. È molto diffidente e assolutamente fuor di legge.

-Temperamento. È lo stesso coi cavalli. Certi mettono giudizio con la frusta, altri scalciano, e altri, dopo una buona frustata, vanno a passeggio con le mani in tasca.

-Giusto come ha fatto Dick adesso. Aspetta che torni. Puoi cominciar qui. Intanto, ti mostrerò qualcosa di quel che ha fatto qui ultimamente. Tutta roba inferiore.

Dal dialogo tra Torpenhow e il Nilghai che architettano una salutare doccia fredda sulle pagine del nominato Cataclisma il capitolo procede secondo logica, per quanto riguarda le idee di fondo, con l’ultima parte dominata dall’incontro tra Dick e Maisie, che è un fatto squisitamente narrativo che ha conseguenze ancóra ulteriori. Inutile, però, tagliare qui. Da notare, poi, qua e là, alcuni particolari, come lo scorcio descrittivo della folla da parte di Dick. Tenendo presenti le pagine di Benjamin su quello che Hoffmann e Baudelaire &c. hanno detto della folla, stupisce, per l’esattezza, il ‘manzonismo’ della folla vista con gli occhî pompierizzati di Dick: questa folla si differenzia, ma non in individui, quanto in gruppi, che agiscono all’unisono, proprio come i milanesi mostrati nelle loro reazioni alle richieste di elemosina durante la peste; è una visione falsa, fredda, del tutto “ottocentesca” nel senso deteriore e pseudoromantico, che l’immaginazione decadente di Dick anima di paste acide e risentite; il movimento rigidamente coreografico è scaduto nella mascherata grottesca e allarmante, l’oleografico nell’espressionistico.

Dick aveva cercato acqua corrente d’istinto, per confortare il suo stato d’animo. Appoggiato al parapetto dell’Embankment, guardava il Tamigi fluire sotto le arcate del ponte di Westminster. Aveva cominciato a pensare ai consigli di Torpenhow, ma, come al solito, s’era lasciato distrarre dalle facce dei passanti. Alcuni avevano la morte scritta in faccia, e Dick si meravigliava che potessero ridere; altri erano sgualciti e scarniti soltanto dal lavoro; altri, per lo più tozzi e mal fatti, erano accesi d’amore, ma c’era sempre da fare qualcosa di bello con ognuna di quelle facce. I poveri poteano lasciarlo studiare, e i ricchi, poi, pagare i prodotti dei suoi studi, alimentando la sua fama e ingrossando il suo conto corrente. Se lo meritava. Aveva sofferto. Nulla di più giusto che ora si valesse dei mali altrui.

Una ventata dissipò la nebbia un momentino, e il sole ricomparve, tondo biscottino rosso sopra l’acqua. Dick lo guardò, finché non udì lo scroscio dell’acqua scemare in un dolce mormorio, come quello d’una risacca morta a bassa marea. Una ragazza incalzata da un innamorato, gridò senza vergogna: “Ma va via, bestia!” e un rimbalzo della ventata che aveva squarciato la nebbia mandò in faccia a Dick la nera fumata d’un vaporino sotto il parapetto. Accecato, egli si rigirò e si trovò a faccia a faccia con Maisie.

Non c’era dubbio. Gli anni avevano fatto una donna della bimba, ma non alterato gli occhi grigio-scuro né le sottili labbra scarlatte né il piglio fermo della bocca e del mento; e perché tutto fosse come una volta, ella indossava un vestitino grigio strettamente attillato.

Dacché l’anima umana è limitata e nient’affatto capace di comandarsi, Dick avanzò con un sonoro “hello!” proprio come uno scolaretto, e Maisie rispose: “Oh, sei tu, Dick?”. Poi, in barba alla sua volontà e prima che la sua mente appena uscita da considerazioni finanziarie potesse dettare ai nervi, ogni arteria del corpo di Dick batté furiosamente e il palato gli s’inaridì di botto. La nebbia si richiuse, e il viso di Maisie gli apparve perlaceo. Senza dir parola, egli le si mise al fianco e così andarono lungo l’Embankment, mantenendo il passo precisamente come nelle loro gite pomeridiane alla riva fangosa. Infine Dick domandò, in tono alquanto rude:

-Come sta Amomma?

Precisazione indispensabile: Amomma è la capretta compagna di giochi di Dick e Maisie bambini. Il riferimento che segue alle cartucce è dovuto ad un’avventurosa gara di tiro organizzata tra i due (cap. I) con una pistola e munizioni di fortuna; in un attimo di distrazione, la capra aveva mangiato le cartucce, e i due bambini, al ritorno dalla spiaggia, l’avevano tenuta a distanza per timore che potesse esplodere da un momento all’altro.

-È morta, Dick. Non per le cartucce, ma per aver mangiato troppo. Era sempre tanto ingorda. Non ti par buffo?

-Sì. No. Intendi Amomma?

-Sì, cioè no, intendo questo caso. Di dove vieni?

-Di laggiù, – e accennò a levante, nella foschia. – E tu?

-Oh, io sto nel Nord, nel nero Nord, dall’altra parte del Parco. Ho molto da fare.

-Che fai?

-Dipingo molto. Non faccio altro che dipingere.

-Davvero? Ma che cosa è successo? Non avevi trecento sterline all’anno?

-Le ho ancora, ma dipingo lo stesso.

-Sei sola, allora?

-No, con un’amica. Non camminare così in fretta, Dick. Sei fuori passo.

-Te ne sei accorta anche tu?

-Ma certo. Sei sempre fuori passo.

-Verissimo. Scusa. Sicché, hai continuato col disegno?

-Ma naturalmente. Te l’avevo ben detto. Prima da Slade, poi dal Merton di St. John’s Wood, un grosso studio, al quale poi ho dato il pepe… cioè, voglio dire che sono passata alla Nazionale. E ora lavoro con Kami.

Al quale… ho dato il pepe”: l’or. ha “I pepper-potted” in costr. ass., il cui significato sull’Oxford come su altri dizionarî velocemente compulsati manca perché il pepper-pot vi è indicato solo come sostantivo (“pepiera”), anche in locuzioni allusive nelle quali è comunque preferito pepper-box; ‘dare il pepe’ traduce letteralmente (il Tommaseo-Bellini non riporta nulla del genere), dando scarso senso. Dal contesto è possibile dedurre un “mandare a quel paese”, “tagliare i ponti”.

-Ma Kami non è a Parigi?

-No, insegna a Vitry-sur-Marne. Lavoro con lui d’estate, e passo l’inverno qui. Ho casa, capirai.

-Vendi molto?

-Di quando in quando. Non spesso. Ecco il mio ‘bus. Se non lo prendo, perdo mezz’ora. Addio, Dick.

-Addio, Maisie. Non mi vuoi dire dove stai di casa? Devo rivederti. Forse potrei aiutarti. Anch’io… dipingo un pochino.

-Sarò al Parco domani, se non c’è luce per lavorare. Vado sempre giù fino all’Arco di Marmo, poi indietro. È la mia escursione. E naturalmente, anch’io voglio rivederti.

Salì sull’omnibus e la nebbia la ingoiò.

-Beh… io… sono… maledetto!

E così esclamando, Diick si mosse per rincasare. Torpenhow e Nilghai lo trovarono che, seduto sui gradini che mettevano al suo studio, ripeteva quella stessa esclamazione con impressionante gravità.

-Lo sarai ben peggio quando avrò finito con te, – gli disse Nilghai, sollevando la sua mole dietro le spalle di Torpenhow e agitando un rotolo di manoscritti ancora umidicci. – È un rapporto sul tuo stato mentale, Dick.

Hello! Nilghai! Già tornato? Come vanno i Balcani e tutti i piccoli balcanici? Hai una parte della faccia fuori campo, come al solito.

Ovvero: sei talmente grasso che il mio sguardo si posa sul tuo volto, e non lo circoscrive.

-Non ci badare. Sono incaricato di schiacciarti con la stampa.

Cioè: È con la stampa che sono incaricato di schiacciarti (e non col mio peso).

Torpenhow non vuole, per una falsa delicatezza. Ho guardato nel tuo pentolone. Roba semplicemente atroce.

-Ah sì? davvero? Se ti figuri di poter farla a me, sbagli di grosso. Puoi soltanto descrivere, e per rigirarti sulla carta, ti ci vuole più spazio che a un vapore da carico della P. & O. Continua pure, ma fa presto, ché voglio andare a letto.

-Uhm! uhm! uhm! La prima parte tratta soltanto dei tuoi quadri. Ecco la perorazione: Un lavoro fatto senza convinzione, una capacità sprecata in cose triviali, una fatica compiuta con leggerezza e il deliberato proposito d’ottenere il facile plauso d’un pubblico trascinato da una voga…

-È l’ “Ultima Cartuccia”, seconda edizione. Continua.

-… voga, non meritano altro che oblio, un oblio preceduto da tolleranza e sepolto con disprezzo. Ed Heldar non ha ancora dimostrato d’essere fuor del pericolo di subire tal sorte.

-Bau! bau! bau! – abbaiò Dick, profanamente. – Brutta fine, in vilissimo gergo giornalistico, ma perfettamente vera. Però – e saltato su, ghermì il manoscritto – tu, vecchio gladiatore debosciato, ammaccato, e tagliuzzato, ti fai mandare a tutte le guerre del mondo per saziare la cieca, brutale, bestiale sete di sangue del pubblico britannico. Ora che non ci sono più arene, ci vogliono corrispondenti di guerra. E tu sei un grosso gladiatore, ch’esce da una botola per raccontare quel che ha visto. Tu sei precisamente allo stesso livello d’un vescovo energico, d’un’attrice affabile, d’un ciclone disastroso e… sì, del mio proprio me. E tu mi vuoi far la ramanzina? Nilghai, se ne valesse la pena, manderei la tua caricatura a quattro giornali.

Nilghai si grattò il capo. Aveva dimenticato che Dick era anche un caricaturista.

-Ma siccome non ne vale la pena, faremo a pezzi codesta roba, – e, lacerato il manoscritto, ne gettò i pezzettini nella tenebrosa tromba della scala. – Va a casa, Nilghai. Torna al tuo lettuccio solitario, e lasciami in pace. Non ci sono più per nessuno fino a domani.

-Ma se non sono ancora le sette! – interloquì Torpenhow, sorpreso.

Dick arretrò verso l’uscio del suo studio.

-Per conto mio, potrebbero essere anche le due del mattino. Voglio prendere di petto una crisi veramente seria, e stasera non mangio.

L’uscio si richiuse e la chiave diede due mandate.

-Che vuoi fare con un uomo simile? – disse Nilghai.

-Lasciarlo stare! È matto come un cappellaio.

Alle undici, a certi calci contro l’uscio dello studio, una voce di dentro rispose:

-Sei ancora con Nilghai? Allora digli che avrebbe potuto condensare tutta la sua paperata in questo epigramma: “Solo i liberi sono in ceppi, e solo i ceppi fanno liberi”. E digli ch’è un idiota, Torp, e che io sono un altro idiota.

-Bene, bene. Ma ora esci e vieni a mangiare. Tu fumi a stomaco vuoto.

La voce di dentro non rispose più.

279. I complimenti del pubblico.

3 Set

La citazione che segue, da La luce che si spense di Kipling, un romanzo, di scarso o nessun successo, del 1891, è pertinente con l’ultimo argomento affrontato da Remo Bassini, come altri passi sono congruenti con il thread generale, di “poetica”, intesa soprattutto dal punto di vista del rapporto col pubblico, che Bassini sta seguendo ultimamente nei suoi intelligenti post. Si tratta di una serendipità: stavo leggendo il romanzo, che è tutto “di poetica”, quando ho cominciato a léggere quelle cose da Bassini, e a mano a mano che Bassini sollevava problemi Kipling mi dava risposte – alla maniera sua, intendiamoci, molto dura, e anche spietata. Non dico, infatti, che il suo concetto sia adottabile in toto, specie da chi scrive, o si promena tra le muse, subsecivamente; ma bisogna prenderla, credo, come una goccia d’angostura: toglie la melensaggine di tanti commenti perduti e riassesta lo stomaco dalla nausea.

Piccolo presupposto: il dialogo si svolge tra Dick e Maisie, che hanno trascorso l’infanzia da orfanelli presso una signora Jennet anaffettiva, rigida e manesca; poi si sono persi di vista, per ritrovarsi a distanza di dieci anni quasi vicini di casa, ed entrambi pittori, allievi persino dello stesso maestro. Solo che Dick ha successo, mentre Maisie no.  Dick, che si scopre innamorato di Maisie, vuole liberarne la vena, e indurla ad una maggior lucidità di giudizio nell’esecuzione dell’opera. Tra gli altri dialoghi,ma tutto il libro sarebbe da léggere e meditare con attenzione, è centrale quello che i due personaggj hanno nel corso di una visita ai luoghi della loro infanzia.

Si parla di due pittori (Kipling era il figlio d’un conservatore museale ed artista, ed era bravissimo disegnatore in proprio), ma la pittura, si sa, esemplifica in maniera molto più immediata quello che avviene anche nella scrittura, nella musica, e insomma in qualunque altra arte. Così Kipling, parlando di pittori, parla di fatto di scrittura; e della sua – rigida finché si vuole, ma lucida quanto onesta, etica professionale. Credo che anche questo piccolo assaggio possa essere suggestivo.

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… Egli proseguì:

– E da quel che m’hai detto, so che sei su una via falsa, che su quella via non arriverai mai al successo. Non ci si arriva sacrificando gli amici… questo te lo posso garantire. Te stessa devi sacrificare, e vivere sotto ordini e non pensar mai a te stessa né chiedere soddisfazioni dal lavoro, salvo quella che dà la prima nozione.

-Come puoi credere tutto ciò?

-Non si tratta di credere o di non credere. E’ una legge che vuole così, e bisogna prendere o lasciare. Io ho voluto ubbidire, ma non ho potuto, e ora il lavoro mi si è guastato.  In qualunque circostanza, ricordalo bene, i quattro quinti di tutti i lavori sono grami. Ma vale sempre la pena di lavorare per il resto.

-Non ti par bello lavorare anche per i lavori grami?

-Troppo bello. Ma… posso raccontarti qualcosa? Non è una storiella molto bella, ma tu sei tanto maschia, che con te, molte volte, mi par di parlare a un uomo.

-Racconta.

-Una volta, nel Sudan, ho attraversato un terreno dove s’aveva combattuto per tre giorni. C’erano milleduecento morti, che non avevan potuto seppellire.

-Che orrore!

-Avevo cominciato un grande schizzo di due fogli, e mi domandavo che cosa ne avrebbero pensato qui. La vista di quel campo m’ha insegnato molte cose.. Pare va un’orrenda fungaia di tutti i colori, e… non avevo ancora visto uomini tornare alle loro origini così in massa. Ho compreso che gli uomini e le donne non son altro che materiale da lavoro, che quel che dicono e fanno non ha nessunissima importanza. Capisci? A rigor di termini, ascoltarli è come mettere l’orecchio sulla tavolozza per sentir che cosa dicono i colori.

-Questo non è bello, Dick.

-Un momento. Ho detto a rigor di termini. Poiché, purtroppo, a ciascuno tocca essere o un uomo o una donna.

-Grazie della concessione.

-No, non ti riguarda: tu non sei una donna. Ma la gente comune deve comportarsi così. Perciò son così selvaggio, – e lanciò un sasso in mare. – So che quel che dice la gente non mi deve interessare. So che quando ascolto quel che si dice, lavoro male. Eppure… – altra sassata al mare – devo per forza far le fusa, quando mi fregano per il verso del pelo. Anche quando so che sono bugie, quando quello che me le dice l’ha scritto in fronte, mi fa piacere, e quel piacere mi guasta la mano.

-E quando ti senti dire cose sgradevoli?

-Allora, cara, – e ridacchiò – dimentico che sono soltanto il dispensiere di questi doni, e mi vien la voglia di far apprezzare i miei lavori con un grosso bastone. E’ troppo umiliante. Ma credo che, anche se si fosse angeli e si dipingessero gli uomini tutto dal difuori, si perderebbe in tocco quel che s’acquisterebbe in comprensione.

Maisie rise immaginando Dick quale un angelo.

-Sicché, tutte le cose belle ti rovinano la mano.

-E’ una legge, un regolamento pressappoco come quello della signora Jennet. Le cose belle ti rovinano la mano. Mi fa piacere che tu l’abbia capito.

Rudyard Kipling, La luce che si spense [The light that failed, 1891]. Traduzione integrale dall’inglese di Mario Benzi. A. Barion Editore, Sesto s. Giovanni – Milano 1932, pp. 149-152.