154. Casino.
22 NovNo, no, poi il commento di tashtego c’era, era rimasto incagliato nell’antispam. Ma — tengo a precisare — non perché io abbia chiuso i commenti, ma inquantoché l’antispam tende a fare quel cazzo che gli pare, incamerandosi alla sanfasòn i commenti più innocenti. Dunque, non è colpa mia.
Il mio tempo di connessione è scaduto.
Vado a lavarmi le ascelle (peccato non poter fare niente per i piedi, ma forse, domani, se riesco a lavare i calzini…).
153. Rincrescimento.
22 NovMi duole, ma la frase del mess. 152 “I commenti sono chiusi” non si riferisce al presente blog dell’anfiosso; ma a quello dei racconti porno (che poi dev’essere un bordello virtuale di cui gli alti papaveri di wordpress ancora non si sono accorti) che ho linkato alla parola chiusi.
La frase ha tratto in errore tashtego, che ha ritenuto di dover rispondere sul proprio blog alle mie osservazioni semiserie riguardo il suo intervento sulla puzza della gente che questua e che gli dà fastidio. La sua risposta, di là dalla durezza (perfettamente lecita: non è obbligatorio stare agli scherzi, figuriamoci ai semi-scherzi), mi dà la netta, quasi violenta, impressione di essere dettata da sentimenti esacerbati. Qualunque mia aggiunta in merito (anche se riguarda la mia condizione e la mia situazione e il mio modo di essere e di pormi — che tashtego, o altri, potrebbero non aver capìto affatto) potrebbe facilmente suonare provocatoria, od ostile, o volta ad esacerbare ancora di più.
Dato che sul suo blog (quello sì) i commenti sono veramente chiusi, posso mettere la mia non-replica, per quanto ridicolo possa apparire questo ping-pong da un blog all’altro, solo qui sopra.
Mi limito a prendere rispettosamente atto; & voltiamo pagina.
151. Pascoli e le piccole cose.
20 NovSolo perché non riesco a rispondere di là, su lalucedimizar.
Mi limito a riportare le esatte parole di Manganelli, sottolineando quello che mi sembra indiscutibilmente discendere dall’immagine del poeta delle piccole cose nel profilo fatto da Manganelli (approfittandone però per rilevare che per me quella definizione versificazione spesso inconsistente non dà senso, sicché mi piacerebbe che qualcuno me la spiegasse):
“Se vi sono libri che valgono a formare un abito mentale, che suggeriscono ed esemplificano un modo, destinato a restare lungamente autorevole, di considerare la poesia, i “Canti di Castelvecchio” è certamente uno di questi.
E’ difficile negare che molte cose ci rendono estranea quella sottile e ingenua miscela di dotto, di arcade, di contadino e di professore che fu il Pascoli: la sua versificazione è spesso inconsistente, il linguaggio insieme prezioso e banale, le sue idee morali vaghe e adolescenti. E tuttavia, con quel suo tono gracile, quel lieve isterismo esclamativo, Pascoli ha introdotto nella nostra letteratura una poesia privata, non soffocata dai miti collettivi, ma affettuosa verso il singolo, il solitario, una poesia che prepara la metamorfosi delle gloriose sofferenze ottocentesche nelle più impure e ingegnose angosce d’oggi.”
149. Dostoevskij.
10 NovMi riferisco al post presente (http://lalucedimizar.splinder.com/post/14651452#comment), dove, da questa postazione, non posso commentare. Io credo che l’antisemitismo e il filozarismo di Dostoevskij dipendano dal filosemitismo e dall’antizarismo dei suoi contemporanei: dal sogno di un’umanità deterritorializzata, che è impossibile. Per uno scrittore, specie se ambizioso, il territorio è tutto. Lo dice, anche. Non ce l’aveva tanto cogli Ebrei quanto con i motivi per cui le informi “sinistre” di allora difendevano gli Ebrei stessi.
Comunque, per quanto in cacca, la Russia dei suoi tempi doveva essere un paradiso, rispetto all’Italia di oggi come di jeri e dell’altrojeri. Qui nessuno può permettersi di dire: coltivo sogni letterarj troppo vasti, ed essendo un poeta e non un artista finirò collo sciupare anche quest’idea. Qui nessuno ha mai osato fare una cosa tanto puerile come sognare. Se solo si azzarda lo sfondano.
148. Ottave.
9 NovLA VITTIMA
AL SUO CARNEFICE.
Dice sdegnare ogni vendetta.
Coglione tu, se l’animo intendevi
A farla franca in faccia a tutto e tutti;
E mani malfattrici protendevi
Sull’innocenza mia, e a me hai distrutti
Tutti i beni dell’anima, e non lievi
Fatiche sobbarcandomi, non frutti
Posso attendere ormai, buoni o cattivi,
Quasi escluso dal novero dei vivi.
Coglione tu, se l’abito perverso
Ostinato non mai, sozzo, smettesti,
E figurando cieco l’universo
Ai tuoi atti feroci e disonesti,
Per vedere alle stelle il volto terso
Mai turbarsi per te il cielo credesti,
E se la tua fallace, empia credenza
Facesti scudo della tua violenza.
Coglione tu, se tanto lunga, e tanto
Credesti questa fuggitiva vita
Da far scordare l’umiliato pianto
Correndo gli anni, a vittima avvilita;
O se il crimine unito all’empio vanto
Tanta avessero forza che, aggredita
La vittima con arti così basse,
Soffrisse sì che in breve ne crepasse.
Coglione tu, se all’atto inverecondo
Posto dinanzi, invereconda faccia
Denegasti al rossore, e in faccia al mondo
La mente invitta e le infiaccate braccia
Adoperasti con jattanza, e in fondo
Al cuore d’occultar quanto più spiaccia,
Il saper cosa sei — se non sa lui
Che il sangue che in te pompa è sangue altrui!
Coglione tu, se al naturale istinto
L’acredine infrollita dei tuoi asti
Hai attribuito, e te ne sei convinto;
Coglione tu, tu: se ti circondasti
D’altri ch’eguale tenebra ha ricinto,
E tra i marciumi altrui ti voltolasti
Per confonder sui tuoi: rimedio inetto,
Lordare il fuori, se l’interno è infetto.
Coglione tu, se a scanso di rancori
Tornasti come fa al vomito il cane,
Se acqua rosata ai tuoi invitti fortori
Pensasti fare al lacero un di pane
Scarso frusto gettato; & così i cuori
Irritare od illudere, e alle vane
Elemosine mai tu commettesti
Il perdòno dei tuoi atti funesti.
Coglione tu, se mentre il monco, osceno
Frutto delle tue imprese, semiucciso
Di dolore e vergogna trofeo pieno,
Cadeva a mezza via da te deriso,
Richiamasti allo scherno, al di veleno
Mortale orrido riso, e l’indeciso
Che s’abbarbica al forte, & il malvagio
Che emularti tentò, e fece naufragio.
Coglione tu, che ritenesti a torto
Aprirsi il cielo dei contenti al vile
Violento e infame, e all’innocente assorto
Tra le sirti del tuo gioco sottile
Non poter esser più che o stolto o morto:
Coglione tu, che d’immutato stile
Fino agli anni sdruciti hai stomacato
Uomo, natura & dio, porco ostinato.
Coglione tu, se giunto al brutto istante
Di volgerti all’indietro, e ripensare
Alla tua vita, livido e strisciante
Il dubbio t’hai sentito rampicare
Alle gambe, & al petto, & insinuante
Il tossico suo gelido iniettare
A te nel cuore marcio, mentre il viso
Sbiancava a te, e tremavi all’improvviso.
Coglione tu, se con paralogismi
Degni della ben tua scuola d’inferno,
Nei tuoi leggesti gli oggettivi crismi
Che regolano il mondo esterno e interno;
E ridottoti ai ciechi moralismi
Attribuisti a disegno immoto, eterno,
Che chi vincesse qui lassù fallisse:
Non ci fu mai il profeta che ciò scrisse.
Coglione tu, alle cui deboli polpe
Troppo convenne l’invidiare il pravo,
E l’inferire prossime le colpe
Del solo ai cenci e ai ceppi dello schiavo;
Tu, né leone, né serpe, né volpe,
Ma coglione soltanto, a cui cercavo
Solo credito, e pace; e a me in ginocchio,
Perché ero lì, sputasti — oh dio — in un occhio!
Coglione tu, se indifferentemente
Che fosse colpa in me, fosse innocenza,
Di sasso ai pianti miei, sdegnosamente
Mi pesticciasti, e manco una parvenza
D’uomo scorgesti in me, manco fremente
D’orrore, o rabbia, o schifo alla coscienza
Che non hai mai sentisti grinza, o nota:
Coglione che non sei! Faccia di mota!
Coglione tu, se mai non t’avvedesti
Quando strappasti a me tutto quant’ero,
Quant’era, in fondo, facile le vesti
Sottrarmi, e indispensabile il mistero
Che il pudore assicura ai più modesti:
Ma non ti s’affacciò mai mai il pensiero
Che denunciava in quell’atto di noja
Che hai padre ladro; & la tua madre è troja.
Coglione, aver formato il mio sconforto
Con un colpo di mano solamente;
Aver gettato l’ignominia e il torto
D’un sol fendente sopra me innocente!
Spezzato avermi, e fatto inane e smorto,
Tremante, & implorante, e impallidente,
Non t’è servito a rendere migliore
Una vita — la tua — che desta orrore.
Coglione! Andrai ad patres bestemmiando;
La mia fragilità schiantata a un tratto
Mai mi nega il piacere miserando
Di riandare almeno in sogno, astratto
Per qualch’ora al mio vivere esecrando,
Al mio perduto me; ma a te, a te affatto
E’ precluso, dal dì che per mio male
Tua madre di sversò dentr’un pitale.
Coglione, invano lacrime e sospiri
Di me, dei pari miei ghiotto spiasti,
Invidiando cui infosca di deliri
La mente odio & amore, e i più nefasti
Mezzi di tormentare in torti giri
Di pensiero invenendo congegnasti:
Cerca, stùdiati, inventa quel che sai;
Qual sei nemmeno in morte muterai.
Coglione tu, se a rivedere torni
In me quel che facesti, e quanto aggiunse
All’atto tuo l’aspr’opera dei giorni;
Coglione tu, se mai ti si compunse
Il cuore, o si compiacque agli altrui scorni;
Coglione, sì: che quanto si presunse
Da te potersi fare non ti lascia
Che morte lenta, e solitaria ambascia.
Coglione tu, che tremolante mano
Di larve a teorie ininterrotte
Solo ormai riesci a opporre, e opponi invano,
Quando vengono a opprimerti la notte;
E formule sussurri al bujo, piano,
Da cui tu speri siano ricondotte
A quell’inferno a cui tu sei diretto.
Ormai non serve più: sei maledetto.
Coglione tu, se speri che gli estremi
Comportino anni la tua redenzione;
Se tra di te fantastichi, e ne fremi,
Che levi il capo a morderti il tallone
Lui che nel fango da quant’ha tu premi,
E che una meritata punizione
Possa nettarti l’anima, e la sorte
T’amichi, e ti rimpaci con la morte.
Coglione tu, se in sogno voluttuoso
(Fumi di ciò che t’enfia il frusto scroto)
Non più folleggi con le urì oblivioso,
Ma braccato da un assassino ignoto
Corri le vie d’un mondo tenebroso,
Traendo sempre più affannoso il moto,
Finché, dal tuo persecutore colto,
Grato nel volto suo scopri il mio volto.
Coglione tu, se cento volte e cento
La tua carogna rea vittima desti,
Pregustando il salvifico tormento,
Ai supplizi più orribili e funesti:
Tu in me l’autore del tuo patimento
Vedi, esaltato, e il collo porgi, e appresti
Il ventre alla garrota, e i membri ai cani,
E a un boja che ha il mio volto, & le mie mani.
Coglione, vanamente un inatteso
Lampo ti rischiarò la mente e il cuore:
Mai, praticando quanto a fare ho inteso
Soltanto in sogno, io sia l’esecutore
In fatto di quant’ho, da febbre acceso,
Sognato; speri invano il tuo dolore,
La tua morte, il tuo sangue io voglia tanto
Da farmi il capo tuo trofeo, & vanto.
Coglione, non sperare: anch’io vorrei,
Io innocente, io buono, io calpestato,
D’un colpo sfarmi, oh dio, dei ceppi miei,
Ma non consente a me il mio schiavo stato.
E proprio io, oh coglione, e io potrei
Far sì che proprio TU sia liberato?
Vivi, vivi, perdio! Non sperar niente;
Io ti lascio a marcire lentamente.
147. E mo?
7 NovFino a jeri ero a Napoli; poi sono tornato sù. Adesso mi trovo a Torino. Di nuovo.
E mo?
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