IL VOLTO INFRANTO.
Ode tetrastica.
Pronto, per liberarmi, a tutti i mezzi,
Di faccia essendo a tutti quanti noto,
Del mio volto lo specchio ecco percuoto,
Per confonderli, e mando in mille pezzi.
Non potendo nascondere quel volto
Dopo che fu dal mondo occhiuto visto,
Scisso in più volti plurimo ora esisto,
E il noto altrui, togliendo a me, ho ritolto.
Mezzo fin troppo rozzo, in questo modo
Tutto l’essente mio, ed il mio pregresso
Ho reso inconoscibile a me stesso,
E, s’ora ho libertà, nulla ne godo.
La mia persona all’occhio mio impotente
Con capriccio perverso & ostinato,
Rendendo sempre un volto al mio ispirato,
Nega ogni superficie riflettente.
Essendo, cosicché, di me spezzata
La primeva unità, odio e disprezzo
Quel che vedo non-me – ogni specchio spezzo,
La cui virtù mi sembra adulterata.
Col frantumare in essi, quasi impresso,
Del volto mio il frantume, voglio, al modo
In cui col chiodo può scacciarsi il chiodo,
Uno rifarmi? Ahimè; non ho successo.
Col volto – e quanto vera al volto annetto
Parte di me – fu l’anima, a dolenti
Giorni dannata, in piccoli frammenti
Ridotta; al che mutò il mio interno aspetto.
Io dentro e fuori sono a punto tale
Reso difforme da quant’ero prima,
Che parte in me con me più non collima,
Che non dettaglio in me resta a un mio eguale.
E se pure non rischio in qualche specchio
Rincontrare la larva deformata
Della mia prisca faccia cancellata,
Più me non tornerò, manco da vecchio.
Non mi conosce più il mondo importuno,
E vivo solitario ed uomo nuovo,
Senza in nulla ridire quanto provo,
Ché, se fui alcunché, sono nessuno.
Dovrei ridire a questa folla sorda,
Causa indiretta del mio stolto gesto,
Ch’ero, e che m’ispirò l’atto funesto;
Ma un altro lo compì, né altri ricorda.
Sicché i miei giorni futili consacro
Cercando riscattare il me più mio
Dall’errore commesso, e dall’oblio,
Inane inchiesta, inutile lavacro.
Se volgo gli occhj sopra le più care
Immagini, da che spero soccorso,
Se a non miei occhj posso far ricorso,
E per essi non posso, oh dio, guardare?
Se spingo il naso dentro le corolle
Più aromatose, non m’appartenendo,
Cosa più percepire ormai pretendo,
Sian pure onuste d’una Sabea molle?
Se protendo le labbra, al bacio, all’ésca
Di ricco desco, il vermiglione alieno,
La papilla non mia in nettare ameno
Mai stilla di piacere o coglie o pesca.
O se avanzai le mani a qualche oggetto,
Come granchj sfilandosi dai polsi,
Corsero via, e per esse io mai raccolsi
Nulla a far mio, od un’ombra di diletto.
Così i miei piedi, ovunque mai si vada,
Sempre mai per peripezie segrete
Ostinati m’occultano le mete,
Sicché non vado mai per la mia strada.
Nemmeno i sensi, male calibrati,
Segnano dell’incespico a me il sasso,
Schiudendo precipizj ad ogni passo
Ed abbattendo i limiti fissati.
Ma quanto più m’angustia è il mio cervello,
Che interrogo e compulso inutilmente;
Che in sé di mio non serba, ohimè, più niente;
Che fu il mio; che ora, oh dio, non è più quello.
Occhj, bocca, cervello, mano, piede
E naso intercambiai con occhj, bocca,
Cervello, mano, piede, naso – & tocca
L’incredulo, e ritocca, e non ci crede.
Posso dirla, in frantumi, immeschinita,
Languida larva & apparenza vana,
Questa vita sospetta, incerta, e strana
Non mia non solo, ma in sé stessa vita?
E non inferirò che la non mia
Vita, poich’è la sola che mi regga,
Fa non tanto che in me mia non risegga
La vita, ma che vita in me non sia?
Ed ecco il vero inferno; ché conforto
Non c’è per chi a serbarsi individuato
Divise il proprio sé, e moltiplicato
Quanti sé assunse, tante volte è morto.
Sicché l’anima a spizzichi e bocconi,
Sfibrando l’appendice di Minosse
D’Ade gelò in mill’angoli, ossia cosse,
Onorando da sola più gironi.
Doveva l’Ode armonizzare il pianto
Di due dozzine di miei me, e di questa
Diedi a intonare una quartina a testa;
Tacquero solo i meno inclini al canto.
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